DARK REALMS V2

Post N° 67


MASTODON: REMISSION (2002)« This is Metal ». PART II) Soltanto osservando la bellissima e surreale copertina, realizzata da Paul Romano, si comprende che questo non è un disco normale: un senso di inquietudine assale il cervello attraverso l’immagine, attratto e turbato da un cavallo alato fiammeggiante, sofferente e squarciato a metà, che desidera ancora nitrire, nonostante stia morendo. Un cavallo che sembra esser stato estrapolato da un quadro di Hieronymus Bosch. La copertina di Remission rappresenta perfettamente il divincolìo nervoso ed agitato della musica dei Mastodon. Affezione e distacco, sono questi i sentimenti contrastanti che comunica. A tratti, una furia iconoclasta pervade le canzoni. Si spalancano porte verso l’oscurità, canzoni senza speranza, il metallo più nero e apocalittico che potreste immaginare, realmente trascinante. Difficile trovare una definizione ad una miscela sonora che, come la loro, sembra essere stata creata apposta per disorientare al passare dei brani: sono, infatti, molteplici le influenze che la band statunitense, nel corso degli undici pezzi di tal disco. La base della loro musica è composta da quello che può benissimo essere definito post-core, per il suo insieme inscindibile di ritmiche quadrate e scarne e di sonorità sporche e noisy, il tutto reso solido e squadrato da una buona dose di ritmiche metal. Rispetto all'EP di debutto Lifesblood (2001) questo full-lenght presenta, però, una maggiore raffinatezza sonora, il suono della band è stato reso meno compresso e pesante, senza però perdere quel feeling volutamente sporco ed abrasivo che ne sta alla base: quella pesantezza death metal che prima costituiva componente essenziale dei Mastodon è stata alleggerita e trasformata in una maggiore varietà di soluzioni melodiche, talvolta al limite del gothic con quel suo incedere mesto ed apocalittico, imparentato in qualche modo coi Neurosis più malinconici. Varietà si, perchè Remission appare davvero come un qualcosa di multiforme e cangiante, sempre sull'orlo dell'abisso. La monotonia non fa certo parte di questo favoloso album. L'assalto sonoro dei Mastodon non lascia prigionieri. La traccia d'apertura è affidata all'irrequieta Crusher Destroyer, che parte all'attacco con un riff maligno e deragliante mentre la batteria intreccia partiture dispari e contorte assalendo l'ascoltatore senza la minima intenzione di lasciare tregua. Due minuti di noise, vocals filtrate, un epilettico lavoro dietro le pelli da far invidia anche a grandi nomi, ed un muro sonoro di chitarre distorte, sporche. Niente male come inizio. È la volta poi della malefica March Of The Fire Ants, un blocco di roccia di canzone che inizia proprio come una marcia, per poi sfociare in territori propriamente doom: magnifica l’apertura melodica a metà traccia che perdura per l’intero finale, un ibrido fra accordi classici ed altri di matrice più noise, tipici della band, il tutto supportato dal lavoro di Brann Dailor alla batteria: preciso, chirurgico, non sbaglia un colpo, tra sfuriate di doppia cassa, momenti rilassati ed altri più tecnici, senza dimenticare, però, le mostruose e psicopatiche urla. I Mastodon rapiscono con fierezza.All'apocalittica ossessività di March Of The Fire Ants è contrapposta Where Strides The Behemoth, la traccia più pesante - a dir poco spaventose chitarre e batteria - dell'intero Remission, un disco caratterizzato da una cura minuziosa per gli innumerevoli e variegatissimi suoni, tre minuti di autentico terremoto! Where Strides The Behemoth, fonde deliziose sonorità thrash ad altre vagamente progressive, chee lasciano subito spazio al capolavoro di Remission, cioè la dinamica Workhorse. Certo, non sarà la traccia dove i Mastodon esprimono tutta la loro proposta musicale, eppure questa canzone ha un riff iniziale (ed un Brann Dailor eccezionale come sempre), che difficilmente si dimentica. Una cantilena infernale. A seguito di un’intro molto “arpeggioso”, tipico neologismo malmstiano, Troy Sanders urla subito quelle poche parole che fanno da cornice a Ol’E Nessie, poche parole che sono una particolarità dell’album. Ol’e Nessie affascina grazie al crescendo melodico e sinuoso, sempre profondamente intriso di mestizia e rassegnazione, probabilmente uno degli episodi dalle migliori costruzioni armoniche dell'intero disco: lunga, lenta e quasi strumentale Ol'E Nessie punta sulle atmosfere folli e schizoidi tipiche di questo difficilmente classificabile "Relapse sound" tanto in voga negli ultimi anni. All’ascolto di Burning Man, invece, si incrociano sonorità più death-core. Seppur nella brevità o nella eccessiva, ma mai stancante, durata delle loro canzoni, il gruppo dimostra di avere un tasso tecnico elevatissimo. In ogni modo, è tutto il disco ad essere imperdibile, così grondante di contraddizioni, schizofreniche divagazioni e scorribande tra generi apparentemente distanti. Uno di quei lavori che ti fa gridare al miracolo e ti permette di asserire a voce alta che il rock non è morto. Basta prendere un brano dove si toccano quasi i sette minuti come Trainwreck, che mette in piedi una toccante introduzione arpeggiata, seguita poi da un chirurgico assolo che rimette le carte in tavola e confonde ulteriormente le idee. Rallenta il ritmo nella sua parte iniziale per poi accelerarlo drasticamente nella seconda. Disomogeneo? Neanche per sogno! La bellezza di questo disco è tutta qui, non c'è una nota in più, non una sbavatura, alla fine l'idea che rimane è quella di aver ascoltato una grezza gemma di pura dinamite, una di quelle scariche di energia dosata in maniera esemplare e mai fine a se stessa. Tanto per rincarare la dose, la successiva Trampled under hoof, con il suo ritmo incessante, conduce inevitabilmente ad un head-banging senza sosta. Ogni singolo brano meriterebbe di essere citato ed analizzato al meglio, perché la carne al fuoco è tanta e sempre di eccellente qualità. Anche Trilobite, proprio come le altre tracce (Trainwreck su tutte), si assesta su di un giusto equilibrio sia la melodia, che gli schizofrenici momenti di puro assalto, mentre con Mother Puncher è facilmente comprensibile il termine “devastante”. A dispetto di fasi strumentali che a volte ricordano certo “root rock” della vecchia America Sudista (la band è originaria di Atlanta, è il caso di ricordarlo), sono forgiate nel fuoco dell’inferno e solo la mitezza della conclusiva e strumentale Elephant Man, la più lunga traccia dell'intero album coi suoi otto minuti (che includono tuttavia una ghost track), riesce a dare pace dopo tanto sferragliare di metallo. Sempre tempi più rilassati, messi insieme ad altri più heavy, impreziositi da un assolo di chitarra finale sognante come non mai. Splendida. Non capita tutti i giorni di ascoltare un disco come Remission: al suo interno c'è il sudore, il sacrificio e la rabbia. E tanta ottima musica. Ben più d’una bella ventata d'aria fresca in un panorama che, per certi versi, stava iniziando a diventare asfittico, ecco giungere l’uragano sonoro che testimonia una gradita riconferma della nascita di una nuova (ferruginosa) stella.