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Una bellissima coppia discorde (parte 3°)


Leggere prima parte 1 e parte 2 Analizziamola nelle componenti strutturali, costanti che regolano invariabilmente il rapporto uomo-donna. Tutte le posizioni assunte da Cesare a livello teorico, come testimoniato dal Mestiere di vivere, e testardamente difese nella pratica quotidiana con stoica coerenza, appaiono segnate da una dialettica interna negativa che richiama, di riflesso, quella letteratura esistenzialista che Cesare dimostra di conoscere in modo serio, pur nella diversità di tono in quanto orientata in senso spiritualistico-religioso (cfr. per  tali letture: Guglielminetti, Attraverso il Mestiere di vivere, p.LI). Dialettica della contraddizione irrisolta, priva di una sintesi risolutrice, nell’ottica del reale inteso come pòlemos in tutte le interne dicotomie: bambino-adulto, adolescenza-maturità, uomo-donna, attivo-contemplativo, claustrofilia-bisogno di comunicazione, pratico-sognatore dell’azione, amore per la vita-volontà di suicidio, bisogno di sessualità costruttiva-impossibilità di essa, Ceresa-Cesare (cfr. La giacchetta di cuoio nei Racconti), ginofilia-misoginia, paternità moralistica e virtuale (con Fernanda) –paternità reale, solitudine-famiglia, campagna-città, risveglio nel letto vuoto-risveglio  con una donna accanto, e, non ultima, per tornare al testo del 26 febbraio 1946 oggetto della analisi, equilibrio concorde-discorde – dedizione assoluta.E’ questa, infatti, la dicotomia di fondo del testo in esame, espressa attraverso una tesi e una antitesi: “Bruciata la carnale convivenza [….] doppia catena [….] la dedizione assoluta è il partito preso feroce di essere uno con l’altro, dove non esiste più un problema di vita individuale e si diventa centauri” (tesi), “non resta che tenerci a rispetto, questo servirci l’uno dell’altro senza infingimenti né doveri assoluti [….] un equilibrio sottile, concorde e discorde, tollerabile soltanto se spontaneo ogni volta” (antitesi). L’ablativo assoluto iniziale ci riporta al world of sex – espressione milleriana – al centro della problematica pavesiana, da intendere non in modo riduttivo e immediato come ossessione monomaniaca, ma per il ruolo primario assunto all’interno dell’esperienza umana, dove “non c’è dio sopra il sesso” (cfr. I ciechi, cit.), “sempre equivoco” (ibid.) e per ciò stesso sotterraneo rimando ad una pluralità di simboli. Il participio “bruciata” è immagine poi di una contrazione temporale, quella “fretta” e “rapidità” – la “vecchia storia”, il suo personale “cancro segreto” – tradotta nel consumo subitaneo dell’esperienza intima insoddisfacente per il partner. La “convivenza carnale” (pare di udire una eco biblica) risulta condannata ad un consumo entropico, autorizzando Cesare ad un atteggiamento ambivalente di fronte al sesso, ricercato come momento di comunione con la donna e rifiutato allo stesso tempo come momento di disturbo che rende impossibile la comunione (cfr. 15 ottobre 1940). Il sesso va allora espunto, quale condizione di equilibrio tra l’uomo e la donna; il sesso è male, di cui è radice (quanto pesa la tradizione cattolica di Cesare?), come incomunicabilità e noia (cfr: Mollia, p.25): “perché a ciascuno la propria sorella appare un angelo, un giglio, ecc.? Perché non gli capita di entrare con lei in rapporti sessuali” (5 febbraio 1938); se il sesso è incomunicabilità, è negata la comunione delle anime: “Se tu sei tu, io sono io – il che vuol dire che non so che farmene” (8 aprile 1946).La matrice sessuale che regola il rapporto uomo-donna finisce per inquinarlo, inquadrandolo nei termini ferrei di “una doppia catena”, preludio di quella “dedizione assoluta” che è, di fatto, una esperienza patologica di vampirismo reciproco. Sospesa la libertà individuale, sospesa la vita individuale in una indistinta unità dei due – in realtà monadi senza finestre – resta un fondo “feroce” a definire la vita di coppia, fondo feroce che rende “centauri” (termine che richiama il realismo pessimistico di Machiavelli). La “dedizione assoluta” comporta “doveri assoluti” che Cesare vorrebbe rifiutare, contrapponendole – questo il momento dell’antitesi – la situazione di un “equilibrio sottile, concorde e discorde”, garantito da disinteresse (d’obbligo lasciare fuori il sesso) e spontaneità (d’obbligo lasciare fuori il sesso, se ricordiamo la riflessione cattiva ma per lui consolatoria: “neanche l’ammogliato ha risolto la sua vita sessuale [….] dopo un po’ viene il disgusto della donna [….] ci si accorge allora che con la donna si sta male ad ogni modo” (8 agosto 1944). Se poi all’iterazione sessuale del rapporto coniugale si somma la preoccupazione di “ogni volta un figlio”, ecco allora la perdita di ogni spontaneità, che deve invece presiedere alla condizione di equilibrio concorde-discorde.Cesare ha vissuto soffrendo la tensione delle sue plurime contraddizioni: condanna la “dedizione assoluta” in nome dell’”equilibrio concorde-discorde”, ma intimamente aspirava ad essa, alla comunione totalizzante sia della carne che dello spirito, che gli era negata per “una crepa, sia pure volgare, sia pure fisiologica” all’interno della comunione carnale. Forse che la “dedizione assoluta” risulti rifiutata in quanto “nondum matura est”? Chiusa la porta di fronte ad essa, resta solo la possibilità di una “bellissima coppia discorde”, trasportata nel romanzo a quattro mani Fuoco grande, quando Giovanni (Cesare) annota a proposito di Silvia (Bianca): “Sempre tra noi s’era creata quella discordia scottante e selvaggia, quella rabbiosa tenerezza [corsivo mio] ch’è il rigurgito della campagna divenuta città” (p. 50 ).Ma resta – possiamo ora chiederci – un margine, uno spazio per il momento “concorde”? La risposta è affermativa sul comune terreno del mito. Scrive in proposito la Masoero: “ Fin dalla prima lettera Bianca Garufi usa, come le farà osservare lo stesso Pavese il 3 settembre 1945, un linguaggio “mitologico”, primitivo, “rituale” (p.5). La mitologia è “fatto familiare” legato alla sua infanzia e alla Sicilia, sua terra di origine, con i suoi elementi geografici come “per esempio il vulcano, il terremoto, l’isola, il continente, il mare, il maremoto, le correnti dello stretto, l’Africa, in fondo, oltre l’orizzonte”” (ibid., cfr. Diario, 21 aprile 1947). La stessa Bianca, in una sua del 14 aprile 1946 da Milano, sottolineava la comunanza di miti: “Miti tuoi o miei fa lo stesso. Pregoti notare l’importanza della frase. Possibile che io senta in comune i miei miti e i tuoi?”.Se per Bianca è la Sicilia la terra di elezione mitica, per Cesare è la Calabria, dove è confinato dall’agosto 1935 al marzo 1936 per ragioni politiche dal regime fascista. Scrive in proposito Gigliucci alla voce “Confino”: “Comunque la terra calabrese è sentita come terra mitologica, luogo di manifestazioni divine” (p.57), riportando una riflessione del 10 ottobre 1935: “Questa sera, sotto le rocce rosse lunari, pensavo come sarebbe di una grande poesia mostrare il dio incarnato in questo luogo” ( qualche eco di questo pensiero si può cogliere in Mito, una delle poesie composte a Brancaleone nel mese di ottobre; inoltre, nelle Lettere (I, p.490) Pavese confermerà la natura mitica del paesaggio di Brancaleone: “I colori della campagna sono Greci”).Cos’altro lega, in positivo, Cesare e Bianca? Lo stimolo, reciproco, e la influenza sulle scelte letterarie. L’esperienza umana ed intellettuale che ha legato le due anime (il legame dei corpi è irrealizzabile) ha inciso in modo significativo sulla produzione letteraria di Bianca: oltre al romanzo Fuoco grande, ricordiamo i Diari “nati sulla scorta del Mestiere di vivere “(cfr. Masoero, p.IX) e le “reminiscenze pavesiane presenti nelle poesie” (ibid.); ancora più in profondità ha inciso sulla produzione pavesiana, come sottolinea la curatrice nell’introduzione al carteggio: “Se l’influenza di Pavese sulle scelte letterarie della Garufi è fuor di dubbio [….] altrettanto evidente è che      questo incontro si rivelerà per Pavese il più importante e proficuo per la sua scrittura; infatti, egli non solo compone per lei le nove poesie di La terra e la morte [….] ma scopre, grazie a lei dalle sembianze mitiche (“Astante-Afrodite-Mèlita”, “Bianca-Circe-Leucò”), quei “dialoghetti” raccolti poi sotto il titolo di Dialoghi con Leucò” (ibid.).C’è, poi, un ulteriore elemento che emerge dal carteggio, elemento di sintonia tra due anime travagliate, ed è il riferimento alla “massima sventura”, come Cesare la definisce nel Mestiere di vivere (15 maggio 1939): la solitudine. Il 25 ottobre 1945, entrambi a Roma, Cesare scrive a Bianca un messaggio di una sola riga in cui spicca un laconico “Sono solo, Bianca” (p.13). Il 21 febbraio 1946 Bianca è a Uscio, alla Colonia Arnaldi, e Cesare, da Roma, le scrive: “Qui sono solo e felice” (cfr. Gigliucci: “spesso Pavese desidera la solitudine come un mito eroico”, p.169). Il 23 febbraio 1946 scrive a Bianca, ancora a Uscio, : “sprofondo nella solitudine di chi è ormai un grande spirito del secolo e c’è arrivato perché era solo” (p.38). Il 27 marzo 1946 Bianca è a Milano, dove vive “un’avventura coi fiocchi” anche se “crepa dai dolori”, e Cesare le scrive: “Io qui vivo solo e tragicamente [….] non puoi capire che cosa significhi essere solo tutte le sere” (p.56).Il carteggio, dunque, ribadisce in parallelo le tragiche, spesso compiaciute, conclusioni che accompagnano tutto l’arco temporale del Mestiere di vivere. Plurime anche le confessioni di solitudine di Bianca: “Sto sempre sola” (14 aprile 1946); “E sono molto felice di essere così sola e sistemata” (termine che allude all’impiego di segretaria della Casa della Cultura di Milano) in data 21 aprile 1946; “Non puoi capire nella solitudine incomunicata in cui vivo” (3 maggio 1946); il 3 giugno 1946 è a Roma dove avverte un esaurirsi della carica vitale: “Forse ciò dipende dalla vita solitaria che ho condotto in tutto questo tempo”; il 2 luglio è a Milano “Sempre più sola e sempre più selvatica e misantropa”; il 24 gennaio 1947 è tornata a Roma, dove afferma di essere “sola come un gran lama”, “condizione” – scrive la curatrice – “a volte ricercata ma più spesso subita”, come dalle testimonianze dei Diari: “Oggi ho sentito la vera solitudine” (11 ottobre 1946); “Ma come fare a vivere, come si può vivere così soli [….]E’ una solitudine senza nome” (24 gennaio 1947). Il 22 aprile 1947 scrive a Cesare, che è a Torino, lamentando “problemi così gravi [….] E d’altronde ho una tale solitudine attorno a me [….]che a volte ho proprio la necessità di parlare con una persona che possa capire sostanzialmente”. Il 29 luglio 1948 scrive di avere “rischiato la morte parecchie volte per suicidio [ulteriore elemento in comune con Cesare] [….] ma soprattutto per solitudine, materiale ed intellettuale” (ma un mese prima aveva riconosciuto nel Diario il suo stato di “grave depressione”). Solitudine rimarcata anche l’anno successivo: “Sono, come forse già sai, da un anno completamente isolata” (12 gennaio 1949). Non dimentichiamo, poi, che Pavese, nel dialogo La belva, il secondo nella composizione dei Dialoghi con Leucò (18-20 dicembre 1945), trasporta molti elementi autobiografici del suo legame con Bianca, caratterizzando Artemide-Bianca come amante della “solitudine selvaggia”.Possiamo concludere la nostra analisi del carteggio della bellissima coppia discorde con due ricordi postumi di Pavese da parte della Bianca Garufi.Il primo, riportato dalla biografa di Pavese Bona Alterocca, riflette la implacabilità di Bianca, in quanto donna, pari a quella di tutte le altre donne dell’universo femminile pavesiano, nei confronti di Cesare: “Gli volevo bene, ero affascinata dalla sua cultura ma non innamorata. Era un uomo estremamente cerebrale”. Cinque anni prima di conoscere Bianca, Cesare annotava una amara conclusione aperta sul futuro: “Non c’è idea più sciocca che credere di conquistare una donna offrendole lo spettacolo del proprio ingegno” (31 agosto 1940), conclusione totalizzante che travalicava i confini del caso personale.Il secondo ricordo postumo di Pavese è datato 31 dicembre 1950: “Ho scritto, su queste pagine, che Pavese si è suicidato? Sì, il 28 (sic) di Agosto. Pavese, sciocco, non potevi farti aiutare? Io forse, adesso, ti potevo aiutare”. Dunque, c’è sempre una sfasatura tra l’uomo e la donna, con buona pace di entrambi.Mariarosa Masoero, con l’accurata, puntuale ricostruzione dell’epistolario tra Cesare Pavese e Bianca Garufi, ci ha lasciato un pregevole lavoro, occasione di ulteriore riflessione sul caso umano di Cesare Pavese.Guido Galliano