ne faccio un falò

Aleksej Grigor'evič Stachanov


si svegliò stanco quella mattina. Il soffitto obliquo del sottotetto gocciolava mollemente nella bacinella quasi piena, mentre l'odore di legno muffito impregnava l'aria della stanza. Aprì la piccola finestra e fece entrare l' aria nuova ed il primo chiarore del gelido crepuscolo. I panni da giorno aspettavano, sulla sedia, di passargli l'umido nelle ossa.Era molto freddo quella mattina nella stanza di Aleksej Grigor'evič Stachanov, come tutte le altre mattine. Come tutte le altre mattine, prese la brocca, riempì la bacinella, si bagnò il viso. Ci pensò un attimo, lasciò la barba al giorno dopo e si vestì. Poi si guardò allo specchio Aleksej Grigor'evič Stachanov e vide un uomo stanco, depredato, logorato dalla fatica quotidiana e dalla macchina dell'avvenire che lo macinava giorno dopo giorno, piccola pedina, e che avrebbe sterminato lui e tutti gli uomini della sua generazione. Non abbiamo più bisogno di Suvarin, pensò, e si accorse che ci vedeva meno bene dall'occhio sinistro.Avrebbe voluto pensare Aleksej Grigor'evič Stachanov, chiedersi il perché del lento macinare che lo riduceva in brandelli prima ancora di sapere di essere vivo. Ma non c'era più tempo. I filosofi erano tutti morti e con loro le domande. Rimaneva quel senso di malessere e di solitudine a cui nessuno osava dare un nome. Né avrebbe saputo. Né avrebbe, potendo, dovuto.Si calcò il cappello sulla testa, indossò il mantello ed uscì.