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Quanto "costa" ?

Post n°5 pubblicato il 09 Marzo 2008 da diffamazionemezzosta
Foto di diffamazionemezzosta

Quanto "costa" dire una parolaccia a qualcuno? Il giudice gode di ampia discrezionalità nell'applicare il criterio equitativo, tenendo conto sia dei precedenti giuridici, sia delle particolari circostanze del caso in esame. A mo' di esempio, la Corte di Cassazione ha inflitto una condanna da duemila euro ad un signore di mezz'età di Ascoli Piceno che nel luglio 1996 aveva apostrofato un tizio con la ben nota espressione «mi hai rotto i coglioni» La controversia giudiziaria ha visto l'assoluzione del querelato in primo grado e la sua condanna in appello, nel dicembre 2002, per il reato di ingiuria, appunto alla pena di duemila euro. Il condannato aveva allora fatto ricorso in Cassazione, ritenendo eccessiva la punizione inflittagli. Ma la quinta sezione penale della Suprema Corte è stata di diverso avviso e ha ritenuto la pena giustificata dall'entità dell'offesa.

Più recentemente, però, la posizione della Cassazione, a riguardo, è parsa ammorbidirsi. Il Giudice di Pace di Treviso Ermanno Tristano ha archiviato la querela contro un trevigiano che era stato accusato di diffamazione per aver apostrofato con "rompicoglioni" un vicino di casa durante una accesa riunione condominiale. Il dottor Tristano ha rilevato che la Corte di Cassazione decidendo su un caso analogo accaduto a Firenze, aveva escluso che l'epiteto «rompicoglioni», per quanto scurrile, fosse ingiurioso essendo ormai entrato nel linguaggio comune anche tramite l'uso che ne fanno spesso in tv politici, giornalisti e personaggi dello spettacolo.

Diverso è il caso in cui l'epiteto riguardi invece difetti fisici (l'aver detto "pansòn", in dialetto, a un conoscente piuttosto grasso è costato a un veneto una condanna penale) oppure addirittura problemi sentimentali (guai a dire cornuto... al bue). Definire, insomma, «faccia da cavallo» una persona con denti lunghi e viso allungato è ritenuto dalla Cassazione un epiteto grave. E non rappresenta un'attenuante se l'offesa è detta in dialetto.

Nello stesso filone giurisprudenziale si inquadra il caso di una donna di Bolzano che aveva dato del "rompiballe" a un vicino per una lite riguardante un parcheggio, e che è stata assolta dal giudice delle indagini preliminari in una causa per diffamazione. Su denuncia dell'uomo sentitosi offeso, il Pubblico Ministero aveva chiesto un decreto penale di condanna. Il Gip, nel settembre 2003, invece ha prosciolto la donna dall'accusa con la motivazione che la frase «non è un giudizio negativo sulla persona ma l'espressione di un disagio individuale» che, quindi, non può essere oggetto di condanna. Nel 1986 una sentenza della Cassazione aveva invece stabilito che dare del "rompiscatole" era offensivo.

Insomma, è un significativo cambiamento di costume quello registrato negli ultimi tempi dai giudici con la progressiva svalutazione dell'offesa «classica» a cui corrisponde, d'altro canto, una crescente valenza offensiva dell'ingiuria o della diffamazione legata a frasi che tendono a svilire la persona, come «tu non sei nessuno» oppure «sei una nullità».

Antonio Di Pietro, l'ex magistrato passato da Mani pulite alla politica attiva, non è riuscito a far condannare il leader della Lega Umberto Bossi che lo aveva apostrofato pubblicamente come «terrone». A Vincenzo B., napoletano residente a Pavia, è andata meglio. Nel marzo 2003, il tribunale pavese - presidente Mario Vocino - non solo ha fatto celebrare il processo - di solito vicende del genere si concludono con una remissione di querela in cambio di scuse ufficiali ed eventuali risarcimenti - ma ha anche condannato Giada B. che, tre anni fa prima, si era rivolta al querelante con un esplicito richiamo alle sue origini meridionali: «L'umiliazione momentanea provocata alla parte lesa» è costata alla convenuta seimila euro più le spese legali pari ad altri duemila euro. «Non rompere il cazzo. Io faccio quel che mi pare. Qui non siamo a Napoli, terroni del c...», erano state le parole della donna, durante un'accesa riunione di condominio. Secondo il Tribunale di Pavia, «terrone è un insulto di stampo razzista» e poco importa che sia entrato nel gergo comune o che sia spesso usato a mo' di sfottò. Qualche anno prima, al contrario, un Tribunale veneto aveva chiuso un processo analogo con un'assoluzione spiegando che il termine «terrone» è una metafora e che vuol dire «contadinello del sud».

Anche in Italia, i ragionamenti degli "ermellini" in materia di razzismo non sono sempre facili da seguire: il 17 marzo 2006 la Quinta sezione penale della Corte di Cassazione sancisce che dire "negro" a un uomo di colore è espressione di razzismo. Esso indica infatti un atteggiamento finalizzato alla discriminazione, all'odio etnico o razziale, e per questo perseguibile penalmente. La sentenza 9381 (relatore Mario Rotella) ricorda gli incontri di calcio in cui «talune tifoserie apostrofano con "negro" un giocatore avversario» e sottolinea: «Non risulta adottata in Occidente l'espressione sporco giallo, né in Africa o in Cina, sporco bianco».

In base tutto a questo, la Cassazione respinge il ricorso di un 60enne condannato in Appello di Trieste per aver detto «via di qua, sporca negra» a una bambina di sei anni, in un luogo pubblico e in presenza di altre persone.

Solo una settimana prima - 10 marzo 2006 - però una pronuncia della stessa Quinta sezione penale aveva stabilito che dire "negro di merda" a un immigrato non configura, di per sé, un reato; dipende dal grado di provocazione a cui si è sottoposti. Ne era conseguito il proscioglimento di una donna che aveva replicato con "negro di merda" a un collega extracomunitario rimproverato per essere arrivato tardi, che le aveva detto «sei cattiva, ce l'hai con me» e le aveva augurato «del male per la sua famiglia». In questo caso, secondo la Cassazione, non c'era discriminazione razziale, «per il contesto in cui era stata detta», per l'ira suscitata nella donna dall'anatema contro la sua famiglia e «per i precedenti e la stessa indole del ricorrente».

Perché si configuri una discriminazione - dicono i supremi giudici ricalcando la Convenzione di New York sui Diritti dell'uomo del 1966 - occorre che ci sia «restrizione o preferenza basata sulla razza, allo scopo di distruggere o compromettere il godimento in condizioni di parità dei diritti e delle libertà fondamentali». La frase, insomma, non denota, di per sé, una intenzione razzista: può essere ritenuta una meno grave manifestazione di generica antipatia per chi è di una etnìa diversa. Dunque per la Cassazione dire «sporco negro» può essere una semplice ingiuria perseguibile solo a querela di parte e non d'ufficio come avviene per i reati aggravati.

Altro caso: il 21 dicembre 2005 la Cassazione aveva confermato la condanna a un barista di Verona che non serviva il caffé agli extracomunitari. Questo comportamento, secondo i supremi giudici, è «razzista» perché rientra negli atti discriminatori «il rifiuto di fornire ad uno straniero beni o servizi offerti al pubblico solo a causa della sua condizione di straniero o di appartenenza ad una determinata razza, religione, etnia, nazionalità».

Ladri alla berlina

Un singolare gioco di inversione delle parti - o per meglio dire di effetto boomerang - legato alla diffamazione, accade a Lucca nel settembre 2003: un commerciante di abiti dal cui negozio, nel gennaio del 2002, erano stati portati via vestiti e pantaloni è costretto a pagare i danni morali ai due manolesta. La vicenda è raccontata da «Il Corriere di Lucca». Tutto scaturisce dalla poco felice idea di esporre nel negozio di abbigliamento le pagine di un quotidiano locale con foto e nomi dei due ladri. Questi ultimi, avvertiti da qualcuno, denunciano la vittima del precedente furto per diffamazione visto che - sostengono - hanno ormai pagato il loro debito con la giustizia, con un giudizio per direttissima conclusosi con l'ammissione di colpa e patteggiamento della pena.

Il giudice di pace riconosce che l'accaduto equivale ad un'indebita messa alla gogna dei due, e riconosce ai diffamati un risarcimento di 300 euro ciascuno al netto del risarcimento chiesto dal derubato per i danni provocati alla merce, sottratta e poi recuperata.

 

 

 
 
 

Ring Verbali

Post n°4 pubblicato il 09 Marzo 2008 da diffamazionemezzosta
Foto di diffamazionemezzosta

Viviamo in una società dell’immagine - televisiva, televideofonica, dvdzzata - che pone al top della scala i giovani fisici palestrati; non meraviglia dunque che l’«esibizione di muscoli» si trasferisca dalle palestre ginniche a quelle della vita di tutti i giorni - lavoro, viaggi e spostamenti, rapporti sociali in genere - esasperando gli scontri verbali, e - in casi fortunatamente assai più rari - anche fisici. È la televisione il ring su cui quotidianamente si assiste a scontri di ogni tipo. L’arena di un circo dove scorre assai più sangue (fortunatamente per lo più "virtuale") di quello versato duemila anni fa al Colosseo.

Presentatori petulanti, giornalisti invadenti, politici aggressivi, polemisti esagitati, creano, inconsciamente (forse) ma non per questo del tutto incolpevolmente, modelli di comportamento di massa. Le borsettate e i calci dati e ricevuti in diretta tv, durante un programma in prima serata sulla rete ammiraglia della Rai, fra una donna ministro della Repubblica e una famosa deputata hanno fatto di entrambe non l’oggetto della generale riprovazione, bensì le eroine di un "political wrestling" che ha appassionato ed eccitato milioni di telespettatori.

Non bastassero gli scontri fisici sul campo di gioco fra le star del pallone, che la moviola esalta e ripete a dismisura, le trasmissioni del dopo-partita si imperniano su personaggi del mondo dello spettacolo che fanno della provocazione e dell’aggressione verbale dell’antagonista la base stessa della loro celebrità; una celebrità che ovviamente alimenta i loro cospicui introiti esponendoli di tanto in tanto al "rischio professionale" di una citazione in giudizio per calunnia o per diffamazione. Più alta è la polemica, più celebri sono i suoi protagonisti, più elevate le richieste di risarcimento, e maggiore è la fama che ricade sui partecipanti alla tenzone. Facile dunque, per la gente comune, identificarsi con questi "campioni" e adeguarsi al loro modello di comportamento.

Date queste premesse non c’è da meravigliarsi se stia diventando sempre più "alla moda" reagire alle offese, vere o presunte che siano, ricorrendo all’avvocato per lavare l’onta direttamente nelle aule giudiziarie, come un tempo i gentiluomini usavano fare affrontandosi, ad armi pari e con l’ausilio dei padrini, all’alba o al tramonto in una radura fuori città.

Ma il motivo che porta gli italiani a diventare sempre più "litigiosi", probabilmente, trova anche altre spiegazioni.

Fra queste c’è il fatto che oggigiorno sta lentamente svanendo l’antico timore nei confronti dell’apparato giudiziario - chi non ricorda, ne "I promessi sposi" di Alessandro Manzoni, la vicenda dei capponi di Renzo? - un tempo visto come una tagliola pronta a scattare a danno degli ingenui e degli umili, al di là dell’umana considerazione dei torti e delle ragioni.

In secondo luogo, la crescita esponenziale del numero degli studi legali rende più facile il ricorso ai tribunali. Terzo, popolari trasmissioni televisive come "Forum" alimentano l’idea (non sempre fondata, visto che nel caso in questione si tratta di un arbitrato finalizzato allo spettacolo e al divertimento del pubblico) che si possa sempre far valere le proprie ragioni facilmente, rapidamente ed efficacemente.

Ma al fondo di questo fenomeno c’è assai di più: esso è frutto di un cambiamento culturale. Al di là dell’influenza dei modelli di comportamento televisivi di cui si parlava sopra, nei decenni del Dopoguerra si è assistito all’eclissi di quelle antiche doti popolari insite nella cultura contadina che col declino della stessa, ormai, si stanno facendo sempre più rare, come la modestia e la prudenza. Viviamo in una società che va sempre più di corsa, la società del tutto e subito, dove vince e si afferma chi non solo è baciato dalla fortuna, ma anche sa affermare e sfruttare fino in fondo le opportunità che la sorte gli offre.

Gli esempi si sprecano: le vacanze non sono ben riuscite se non sono brevi e intense, mentre oziare - ritagliarsi cioé, come insegnavano i latini, uno spazio per godere della meditazione e per assaporare la quiete - è considerato un perder tempo. Molto meglio allora sudare sette magliette per "tonificarsi" "rigenerarsi" ed "espellere le tossine" facendo sport meglio se "estremi".

Nelle professioni, nel commercio o nelle attività imprenditoriali il principio-guida è che «il fine giustifica i mezzi»: l’importante è insomma ottenere il risultato desiderato, mentre è secondario se la via del successo è lastricata di malefatte impunite.

Non c’è da meravigliarsi se anche l’offesa ricevuta possa trasformarsi in uno strumento di autoaffermazione: strumentalizzare l’errore altrui per ricavarne un guadagno, in termini economici, innanzi tutto (risarcimento del danno morale) ma anche in termini di notorietà se, nel gioco, entrano personaggi in vista.

 

 
 
 

Questione d'onore

Post n°3 pubblicato il 29 Febbraio 2008 da diffamazionemezzosta
Foto di diffamazionemezzosta

 
 
 

Post N° 2

Post n°2 pubblicato il 29 Febbraio 2008 da diffamazionemezzosta
Foto di diffamazionemezzosta

 
 
 

Spina di carta

Post n°1 pubblicato il 29 Febbraio 2008 da diffamazionemezzosta

  1. Quante volte abbiamo letto o sentito che un politico o un personaggio del mondo dello spettacolo ha presentato querela o ha dato mandato al proprio legale di farlo per lui,a tutela del proprio onore e della propria reputazione e onorabilita'  presuntivamente lesa.

 
 
 
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