Dionea in Love!

LABORATORIO TEATRALE, cronache


   In ritardo rispetto al solito, ecco il resoconto della lezione di mercoledì scorso. Sarà la primavera, sarà il tour de force di lavoro pasquale, ma proprio non mi andava di scrivere resoconti. Sotto stress, la mente vaga poco, sia per la fantasia, sia per la razionalità. Invece stanchezza e sonno galoppano alla grande! Ma torniamo al nostro caro laboratorio.   Si pensa al saggio – anzi, pensavo – al saggio di fine anno. La difficoltà nello scegliere un saggio è sempre la stessa: trovare un testo dove tutti hanno la stessa importanza, lo stesso rilievo e la stessa profondità di studio. Insomma, impossibile, a meno che di non fare la classica trovata di smezzare i ruoli principali in più parti, ma è una cosa che non mi è mai piaciuta. Se un protagonista cambia volto, ci deve essere un buon motivo registico. Inoltre, non posso proporre al laboratorio testi inediti, ma solo classici, per ovvi motivi di possibilità di studio. E quindi, come spesso avviene, la scelta è ricaduta magicamente su un classico dei classici dei classici: Anton Pablovich Čechov. Dato il numero e la composizione del gruppo, la scelta è ricaduta per forza di cose sugli atti unici, per i motivi suddetti: L’anniversario e La domanda di matrimonio. Nulla di originale, certo, ma è bastato leggerli perché tutti iniziassero a tremare. Questo perché? Bisogna parlare di Čechov per capirlo. E in effetti, tutta la lezione ha preso la lettura del testo e la spiegazione di alcune piccole cose, che poi svilupperemo all’interno dello studio degli atti unici.  Con Čechov (29 gennaio 1860 - 15 luglio 1904) non si può non parlare di Konstantin Sergeevič Stanislavkij (Mosca 18 gennaio 1863 - 7 agosto 1938). Con questi due personaggi, si inizia a parlare seriamente di tecnica dell’attore, di testo moderno e di studio del testo. Con loro due, insomma, comincia il teatro come ancora lo conosciamo, inizia la tecnica dell’attore come ancora viene impiegata – e non solo a teatro, se pensiamo che Strasberg non fa altro che rielaborare la tecnica del suo maestro Stanislavskij per il suo famoso metodo cinematografico – e inizia la grande evoluzione della figura del regista. Non è certo quindi per pusillanimità che un allievo tremi quando legge Čechov e si parla di Stanislavskij: sono finiti i giochi, si entra nell’età matura.   Čechov era già un grande scrittore quando si avvicinò al teatro e come molti quindi pensò che fosse giunto il momento di provarsi sulla scena. Già da tempo, grazie alla grande tournee del Duca di Meininger si era capito che qualcosa doveva cambiare, che uno spettacolo esigeva unità stilistica e gli attori una direzione stretta, ma era tutto ancora vago. Si iniziava anche a comprendere che le testualità allora dovevano cambiare e non potevano più essere scritte in una certa maniera. Le cose non devono per forza essere dichiarate, ma possono essere anche sottintese. Ma una recitazione declamatoria – ottima appunto per quel tipo di testi sette-ottocenteschi che presentano il personaggio con vizi e virtù in monologhi, soliloqui e a parte – diventa ridicola ed esagerata. D’altronde, un testo che nasconde nel sottinteso e nell’ambiguità della parola il personaggio e i suoi scopi, viene distrutto da un tipi di recitazione del genere.   Con questi presupposti, verrebbe da chiederci cosa sarebbe stato dei due grandi maestri russi se non si fossero incontrati, ma così è successo e forse era destino: Stanislavskij trova in Čechov le testualità perfette per creare e utilizzare il suo famoso metodo (distinto in due volumi: Il lavoro dell’attore su sé stesso e Il lavoro dell’attore sul personaggio, editi da BUL).    La ricerca di realtà porta l’uno a scrivere e l’altro a dirigere: la necessità di ricreare uno spazio in cui addirittura lo spettatore  possa sentirsi in imbarazzo, come se stesse spiando una scena di vita vissuta effetto che ricreò con la storica regia de Il gabbiano, in cui, per la prima volta, degli attori compaiono seduti di spalle (cfr. Le mie regie, vol I).   I testi di Čechov, sia le commedie di mestiere degli atti unici sia i grandi drammi, sono tutti impostati progettualmente nella stessa maniera, tal che si potrebbe dire che egli segue uno schema che ripete in tutte le sue opere drammatiche: Zio Vanja, Le tre sorelle, Il giardino dei ciliegi, Il Gabbiano, Platonov… Insomma, quello che fa Čechov non era mai stato fatto a teatro: i personaggi non dicono quello che pensano e per dirlo usano altre parole. L’innamorato non dice di esserlo, l’ipocrita non si dichiara tale e agisce alle spalle, il debole si atteggia senza dare a vedere le sue mancanze… Quando mai era successo?   Certo, per Čechov questo doveva essere un effetto comico, tanto era convinto di scrivere commedie! Ma Stanislavskij gli mostrò cosa aveva fatto. Non fu un caso che la prima del Gabbiamo sia stata un clamoroso insuccesso, che portò Čechov a sfogarsi nel suo soliti bordelli. Ma la serata successiva, il trionfo fu totale: la gente aveva capito. Ed ecco che si inaugura una nuova stagione, per molti versi, ancora insuperata.   Non è un caso che l’allievo vede in Čechov uno spauracchio o una cosa insormontabile: perché con i suoi testi si entra nel vivo del teatro. I suoi testi si recitano e basta. Altrimenti non funzionano: tempi, parola, corpo, voce, fiato, gesto, utilizzo dello spazio, utilizzo dell’oggetto, interazione con la regia e quindi con gli altri vari elementi che il regista ritiene opportuni sono legati finalmente in un unicum che pone serie difficoltà. Sempre non è un caso che Čechov sia materiale di studio in tutte le Accademie.   Insomma, eccoci qui. E non mi ha certo fatto dispiacere sapere che cmq non erano entusiasti del saggio perché non volevano fare: questo è il vero spirito di un laboratorio! Questo è il mio insegnamento in un laboratorio: sti cazzi del saggio! La ricerca di sé, delle proprie qualità espressive all’interno di un percorso blandamente teatrale. Ma si può sempre puntare in alto. Sempre. E quindi, il saggio diventa il punto in cui convergono tutti gli sforzi e i giochi precedenti. Ancora una volta, lo scopo non è far bene, ma fare. E in questo invece sono dispiaciuto, perché molte delle lamentele erano del tipo: non ce la faremo mai. È forse vero (ma forse no), ma lo scopo non è farcela: è farlo!© 2000 Immagine protetta da copyright. Vietati l’utilizzo e la riproduzione non autorizzati. Logo Comp. Teatrale Ass. Cult. La Macchina Infernale Teatro