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Urbano Barberini assessore alla cultura a Tivoli. Philip Glass, Einstein on the beach. Akedìa. Salgàri parte terza

Post n°862 pubblicato il 23 Luglio 2015 da giuliosforza

Post 803

L’ìnedia da calura colpisce anche il pensare. Devo fare uno sforzo sovrumano per raccogliere qualche idea con la quale dare segno di vita ai miei amici. Ma dal fondo delle mie mentali riserve qualcosa riesce ad emergere. Ed eccomi qua.

 

Ho detto nei diari passati di Tivoli e del mio legame con la nobile città pre-romana. Avevo notato da un anno in qua una ripresa notevole delle attività culturali, tese alla ricognizione e alla conseguente rivalutazione, anche a  fini turistici, delle tante ricchezze, non solo archeologiche, presenti nel territorio tiburtino, mentre negli anni precedenti s’era assistito a un vergognoso progressivo degrado. E con piacere scopro che da un anno assessore alla cultura della nuova giunta è Urbano Barberini Colonna di Sciarra Riario Sforza, ai molti sicuramente noto come attore di cinema  e di serie televisive, che io non seguo e che perciò non sono in grado di valutare, mentre valuto come onorevolissima la coraggiosa sfida che egli ha lanciato al suo ambiente notoriamente portato a considerare volgare e plebea una scelta come la sua.

Ora con l’impegno amministrativo un altro azzardo Urbano  tenta che sembra gli stia riuscendo. Leggo delle numerose iniziative, già realizzate, in via di realizzazione o in progetto, promosse dall’assessorato da lui diretto. Al Barberini Colonna Sciarra Riario Sforza tutte le felicitazioni e gli auguri di un umile in parte omonimo (lungo i secoli il suo  sangue, magari frutto di qualcuno degli innumerevoli amori ancillari del guerriero Muzio Attendolo, dev’essersi corrotto) che  all’educazione estetica, in accademia e sul territorio, dedicò tutta una vita.

 

Angedenken an das Schöne ist das Heil der Erdensöhne.

Così Goethe, uno dei tanti ai quali Tivoli potrebbe assegnare in memoriam  la cittadinanza onoraria.

Barberini Sforza, ci pensi! E ad multos felicesque annos!

 

*

Grazie a Rai5 ho assistito  per la prima volta a uno dei capolavori del Philip Glass minimalista, Einstein on the beach, cinque ore filate di musica, danza, poesia straordinarie. E, contro ogni mia attesa e pregiudizio, me lo sono intensamente goduto in ogni sua minima parte, in barba al Leone e al Cane ruggenti.

Ne esco l’anima rinfrescata.

 

*

 

Sentimento del tempo quale  vissi in un giorno di classica akedìa

 

”Gira gira gira gira l’arcolaio

 si dipana si dipana la matassa

la mia vita la mia vita che trapassa

nel

(verso férecratèo)

fìlo mòlto sòttile

ché s’invòlge e s’invòlge

ché s’agglòma e s’agglòma

é poi mòrte ripòne

é poi vìta sdipàna

 

(da Giulio Sforza, Canti di Pan e ritmi del thiaso)

 

*

 

Ancora di Salgàri, terza e ultima parte

(segue dal post 802)

 

Io vedo dunque nello spontaneo antipositivismo (detto in senso latissimo qui soprattutto, come i miei ascoltatori hanno sicuramente inteso) del Salgari, esso certo consonante con l’animo naturalmente romantico (qui in latissimo senso detto, cime originale modo di possedere lo spazio-tempo o, si direbbe, di annullarlo) dell’adolescente: che è una dote straordinaria, non un vizio, la quale una vera maturità dovrebbe, se non dilatare, almeno salvaguardare: ma come può intenderlo una cultura che ritiene il crescere un uscire d’infanzia? Ed in ciò vedo anche il segreto del variamente ricorrente successo salgariano: si ama di più Salgàri nei tempi adolescenziali in cui si è sazi di certezze e di sicurezze ‘empiriche’, in cui si è sazi di immediati verificabili, in cui la fantasia strepita dietro le gretole delle gabbie ‘tecnologiche’. Nei tempi in cui i verismi naturalistici vengono ad uggia e si sa rigodere la beata ‘vaghezza’, nella duplice accezione, di un’alba tassesca nella interpretazione monteverdiana (“Ecco mormorar l’onde / e tremolar le fronde /a  l’aura mattutina / e gli arboscelli. / E sopra i verdi campi i vaghi augelli / cantar soavemente…”). In cui hanno, le cose, un respiro universale, e le parole che le ‘pronunciano’ un alone più che lunare cometario, annunciante una qualche rinascita del verbo.

Salgari non ha senso nel tempo della miseria tecnologica, come tutti i ‘poeti’ (Rilke: ‘Che ci stanno a fare i poeti nell’epoca della miseria?’). Ma ne acquista infinitamente non appena un’alba nuova di poesia si annunci. Perché il mite Salgàri è veemente poeta (grecamente ‘facitore’, facitore di mondi per parole ed immagini). Come per tutti i poeti la sua fame (bulimia, direbbesi) di parole e di immagini è fame di cose-parole, di reali-parole, di mondi diversi: diversi dalle cose, dai mondi, dai reali degli scientismi positivistici. Di mondi che non hanno bisogno di dare ragioni (non si chiedono ragioni ai poeti); di mondi che sono ‘nel’ e ‘per’ l’atto stesso della loro evocazione, fugacissimi ed eterni. Salgari, dicendo, chiama mondi, invoca, domanda. La parola di poeta è domanda. Domanda di parole è domanda di domanda. E’ domanda alla seconda potenza. E’ domanda metafisica.

Ma è bene che mi arresti. Non senza aver rivendicato a Salgari il diritto di entrare nella scuola asfittica dei neopositivismi tecnologico-tecnocratici: egli è in grado con la sua orgia di parole di regalare alla scuola dell’adolescente un’orgia di creatività. Non senza aver raccolto ed esasperato l’estrema sua provocazione: meglio

mille parole ‘insensate’ lanciate dal poeta come puledri selvaggi ad impazzire sulle sconfinate praterie degli spiriti adolescenziali, dei quattro concetti precisi concisi domi rappresi depositati dallo scientismo a imputridire in anime-stazzi.’Drinnen nisten Angstgespenter (Trakl). Entr’esse nidificano gli spettri dell’ansia.

 

________________

Chàirete Dàimones!

Laudati sieno gli dei, e magnificata da tutti viventi la infinita, semplicissima, unissima, altissima et absolutissima causa, principio et uno (Bruno Nolano)

 

 
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