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Ricomincio da quattro. Musica 'scordata'. Papini, Diario giovanile. Viaggio nello Harz, fine

Post n°1016 pubblicato il 16 Settembre 2019 da giuliosforza

 

Post 937

   Sono appena tornato dalla scuola elementare di via Vittorio Mezzogiorno, dove sono andato ad attendere la riapertura. Festa di voci e di colori. Festa di Vita. Le mamme della nuova generazione sono quasi tutte belle slanciate, alte quanto e più di me. Pochi e trasandati i papà, pochissimi i nonni, fra i quali ho la ventura di essere ancora io. I bimbi garriscono e si rincorrono come uccelli appena volati dal nido. Io sono commosso. Solo il mio nipotino è triste, baciandolo per rincuorarlo gli dico se mi accetta come suo compagno in quarta elementare. Ricomincio da quattro. Della scuola ho scritto tanto, soprattutto male. Qualcuno ha anche ripreso qualche mio concetto, come è evidente nella foto che ripubblico. Oggi non so cosa scriverei. Me la cavo gridando: aboliamo le scuole, viva la scuola!

*

   Iniziata la rilettura del diario e degli scritti giovanili (1899-1904) di Giovanni Papini (Firenze 1881), che fu il modello segreto dei miei inquieti anni giovanili: il periodo della formazione, del desiderio insaziabile di conoscenza, dello studio frenetico, della corsa sfrenata da un campo dello scibile all’altro, della speranza e della disperazione, dell’ottimismo e del pessimismo sistematici. Nulla contenta, nulla placa il giovane ‘scapigliato’, tutte le biblioteche sono sue, tutti i cenacoli, tutti gli incontri. Annota il 7 novembre del ’99: ­­­

   “Da oggi deve cominciare per me una nuova vita. Debbo rifare interamente la mia cultura. Uscito dalle scuole ove si vegeta, debbo imparare. Forse è tardi, ma non è inutile tentare. Il mio bilancio intellettuale è presto fatto: Io so poco di tutto. Non ch­e nozioni vaghe, spezzate. Certi domini d’erudizione mi son familiari mentre mi mancano delle cognizioni elementari. Bisogna che io riordini quel che posseggo, colmi le lacune, spesso vergognose, della mia cultura. Io studierò:

   Lingue – latino tedesco inglese.

   Storia universale, civile e letteraria

   Filosofia

   Oggi comincio: speriamo che la costanza mi regga.

   Sono andato a scuola per ricominciare il tirocinio ma il Bruni, il direttore, era malato e così mi sono potuto recare in biblioteca a continuare il riassunto del Tichon. Ci Ho trovato il Bendini, che non fa niente ma è vestito più elegante del solito ed è insieme con un uomo dalla faccia sospetta; ci ho trovato il Bruni che  seguita il suo studio su gli Ari e gli Italici seguendo il Sergi; il Mori legge l’Ardigò e seguita a lavorare per il suo articolo. Sono uscito con lui e mi ha parlato a lungo e melanconicamente della camorra ipocrita che impera all’Università e della mancanza di carattere e di senso morale nei giovani che pur di farsi strada abiurano ogni principio politico, morale e altro che sia. Fra l’altro è stato fatto libero docente di filosofia un giovine, Melli, che ha dell’ingegno ma non ha fatto mai nulla. Il Mori, che ha letto appunto ora  Morale dei positivisti dell’Ardigò, è attristato dallo spettacolo turpe di una generazione così fiacca, ipocrita e immorale e si sfoga a dire male dei letterati che sono, egli dice con ragione, la peggior genia che esista sulla terra. Mi avveggo con piacere che egli non è più l’amabile scettico del tempo addietro e che un giorno converrà con me nell’abbraccio del pessimismo assoluto”.

   Il rilievo è mio.

   Oggi non è più così. Le cose, soprattutto per quanto si riferisce al malcostume universitario, oggi sono cambiate. In peggio, assai in peggio. Così mi suggerisce una vocina maligna.

 

*

   Il pomeriggio del 10 settembre era giorno della votazione al Senato per la fiducia al Conti Due, ed io, immemore, ebbi la malaugurata idea di recarmi in taxi a Piazza Navona, adiacente a Palazzo Madama, per un concerto di flauto e chitarra dal nome curioso, che mi aveva …incuriosito: La musica ‘scordata’ dell’Ottocento. Non immaginerete mai il servizio di polizia e di CC predisposto dalla nuova dirigenza dell’Esquilino e dell’Arma: pattuglie in ogni angolo, mitra spianati, impugnati da agenti e militi di ambo i sessi in assetto di guerra. Mancavano solo i carri armati e avrebbe potuto pensarsi a un colpo di stato. Ma forse un colpo di stato era davvero in atto, un colpo di stato soft in apparenza, teleguidato da Bruxelles, Washington, Vaticano. Ho osservato il cielo per scorgere eventuali droni: non ne ho visti, a meno che tra le caratteristiche dei più moderni non ci sia anche l’invisibilità, che è ragionevole ipotesi…. Ma avevo promesso di non interessarmi più alle vicende politiche in corso nel Bel Paese e invece ci sto ricascando. Recedo.

   Ero dunque andato per un concerto da godermi nella bella  sacrestia borrominiana di Sant’Agnese in Agone. La piazza, che non visitavo più da molto tempo, m’apparve finalmente ripulita di cose e di gente. Le fontane finalmente protagoniste. Persino l’esercito dei colombi (merito o colpa  dei gabbiani?) sparito. Solo aperti caffè ristoranti gelaterie storici, quelli sì affollati ma finalmente di turisti pacati e composti. Sulla scalinata della Chiesa pochi i ragazzi, correttamente seduti e non stravaccati. E nessuna traccia della pletora di venditori ambulanti abusivi di paccottiglie, di cavalletti e di ritrattisti. Solo, ma in lontananza, proveniente da Via di Santa Maria dell’Anima (quante memorie! In un bell’appartamento di non ricordo quale stabile era negli anni Sessanta la sede della pacciardiana “Nuova Repubblica”, dove avvenivano i nostri incontri, le conferenze, i dibattiti, moderati da personaggi indimenticabili: l’occhiazzurri Randolfo, il pacatissimo Giano Accame, il paffutello e serafico, acuto nelle  analisi e simpatico nel linguaggio un poco  bleso (don) Baget Bozzo, accademici vicini e non alle proposte del Movimento etc etc…) un suono di fisarmonica  che non  disturbava il quasi silenzio della piazza ove era di nuovo possibile ascoltare, oltre a quelli in pietra, gli sfottò orali berniniani al povero Borromini già presago della spada sulla quale avrebbe fatto harakiri…

   Ma ora del concerto, rientrante nel programma Experience Italian Music Concerts (ah questa provinciale mania anglofona!) previsto dal 23 aprile al 17 dicembre e comprendente una ricca gamma di musica classica e moderna, sacra e profana (ma non è ogni grande musica per se stessa sacra?): due solo pianistici, per il resto  duo di fisarmonica e violoncello, violoncello e pianoforte, violino e chitarra, trio di flauto chitarra e soprano, duo di violino e pianoforte, duo di flauto e chitarra, duo di mezzo soprano e chitarra, duo di oboe e pianoforte, un Ensemble corale di archi Fiati e voci, un duo di violoncello e pianoforte. Sala semivuota. Atmosfera mistica. Ottima acustica. Gli autori “scordati” e recuperati da Yuri Ciccarese (mobilità esagerata) flauto e Maria Ivana Oliva (esagerata staticità) chitarra, sono Carulli, Giuliani, Paisiello, Ghini, Paganini in brani dimenticati o raramente eseguiti. Le note giungono gradite al mio orecchio semichiuso, ho un’ora di tempo per riflettere ai miei casi esistenziali con delicato accompagnamento musicale. Per questo, solo per questo, ritengo non buttati i venti euro. All’uscita solita ricerca frenetica di un taxi. Autista in un primo momento riluttante: ritiene, incredibile auditu, il percorso eccessivo. Pagamento in bankomat su un aggeggetto che non dà ricevuta. Ho scritto in fronte giocondo.

 

*

Depongo Harzreise con dispiacere. Questo che è forse il capolavoro di Heine mi lascia nell’animo una grande nostalgia per quella Turingia nella quale in precedenti vite fui famulo di Bach a Lipsia, di Novalis a Weissenwels, di Hegel Fichte Schelling a Jena, di Schiller Herder e Goethe a Weimar e di tutti quanti quella beata terra allietarono e nobilitarono. Solo Gottinga col suo diritto forse mi fu estranea, Gottinga così tanto ironizzata da Heinrich. Ma tanto rimpianta. Forse ha ragione il Magris della prefazione: “Il viaggio di Heine, così pieno di amore per l’esistenza e della natura, si snoda fra la carta e la vita; fra la mappa che copre il mondo, con la sua arzigogolata, meticolosa e puntigliosa varietà garantita dalla precisione giuridica, e l’accidentata, variegata e irregolare superficie della vita vita stessa coperta da quella mappa…”. E ragione anche  mi pare abbia, seppur non in tutto, Maria Carolina Foi curatrice: “Il viaggio nello Harz, la più fortunata e popolare delle prose heiniane, è tutt’altro che un frammento, un’opera incompiuta. La conclusione mancante non riguarda il viaggio essoterico. Ciò che Heine meschinamente tace è il proprio, personale bilancio del viaggio esoterico: la consapevolezza che l’esperimento della Bergidylle  è stato un fallimentare compromesso fra i nuovi diritti e l’antica poesia. Attentissimo critico dei propri scritti, Heine comprende che insistendo su quella strada sarebbe finito incappato nelle secche della poesia di Uhland, uno dei suoi modelli giovanili, ai quali più tardi rimprovererà ‘di aver fatto scuocere’ il Volkslied ‘per renderlo disponibile al pubblico moderno’. Heine ha forse capito meglio di chiunque altro l’equivoco, o l’illusione, dei poeti romantici che riprendendo cadenze popolareggianti speravano di poter attingere con la loro lirica alla sotterranea corrente collettiva della poesia popolare. Ma, dall’esilio parigino, non ha potuto non ricordare, sfogliando il Corno magico del fanciullo, anche la propria fascinazione per quella tradizione indissolubilmente legata, come lo era la sua stessa poesia, alla patria tedesca:

   “In questo momento il libro è qui davanti a me, e mi par di sentire il profumo dei tigli tedeschi. Il tiglio, infatti, v’ha una parte fondamentale: alla sua ombra si baciano, di sera, gli amanti; è il loro albero preferito forse perché la foglia del tiglio ha la forma di un cuore umano. Questa osservazione fu fatta un giorno da un poeta tedesco che mi è molto caro – cioè da me”.

______________

Chàirete Dàimones!

Laudati sieno gli dei, e magnificata da tutti viventi la infinita, semplicissima, unissima, altissima et absolutissima causa, principio et uno (Bruno Nolano)

 

 

 

 
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