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La saga dei lupi

Post n°1032 pubblicato il 03 Aprile 2020 da giuliosforza

 

Post 952

   Saga dei lupi.

   Ho rivisto al risveglio un film, Uomini e lupi, di Giuseppe De Santis, che pur nella sua crudezza ha riacceso nella mia anima una grande nostalgia dell’infanzia.

   Il regista non fu tra i miei preferiti, il suo ‘realismo’ (evidenzio il termine perché qui non si intenda nell’accezione che assume nei trattati classici di storia e critica del film), faceva apparire in quegli anni, gli anni Cinquanta-Sessanta del secolo scorso, ai miei occhi i suoi lavori più dei documentari che dei film, tanto le loro storie, depurate dell’elemento fantastico, aderivano agli eventi come a cose fissate nella loro immobilità e la  narrazione procedeva con il ritmo lento dei racconti fatti attorno al misero desco, alla debole fiamma del camino o ai nudi tavoli artigianali dell’Osteria del Grottino (sull’arco d’ingresso una scritta, firmata Mussolini, recitante “chi beve poco è un agnello, chi beve giusto è un leone, chi beve troppo è un maiale”)  dai pastori del mio paese, per una modesta lingua di terra ancora amministrativamente laziale ma culturalmente già abruzzese, dai vaccari, dai cavallari, dai contadini.  All’Osteria del Grottino soprattutto ove, tra canti e lazzi, un vinello leggero di collina riscaldava un poco i cuori e la gola di quegli ex combattenti tornati, da guerre assassine, a una guerra non meno dura giornalmente combattuta contro una natura matrigna, di una guerra non meno, nei suoi disastri, feroce. Pochi o rozzi o addirittura nulli gli scavi nella psicologia dei personaggi (opinione non condivisa, leggo, dal produttore Lombardo il quale, trovandovene invece troppi impose una ventina di tagli, operazione che avrebbe dovuto rendere il film più prossimo al genere western da lui prediletto).

   Per una tale carenza di indagine psicologica i film di De Santis mi piacevano poco, per gli stessi motivi oggi mi piacciono molto, ma non certo per motivi ispirati a criteri di critica estetica. Uomini e lupi (io l’avrei meglio detto saga dei lupi) in particolare, il film in questione, mi riattraventa con violenza ai tempi e ai luoghi della mia infanzia: fu girato di fatti nel 1956, anno di una storica nevicata, sui monti e i boschi tra Scanno e Pescasseroli, che posso ben dire anche i miei perché assai prossimi, in linea d’aria, ai miei equi, incuneati tra i sabini e i marsicani. La povera economia del mio borgo si reggeva soprattutto sull’attività pastorale e boschiva, misera quella agricola, per lo più in mano a poche famiglie possidenti, essendo la maggior parte delle terre ancora di proprietà dei principi Borghese ai quali si dovevano (fino a quando agli inizi del XX secolo un cardinale oriundo non le riscattò) pesanti tributi.

   Tra i maggiori possidenti di bestiame e di terre coltivabili era la famiglia d’origine di mia madre, che possedeva una grande stalla quasi all’interno dell’abitato, attorno alla quale, e alle altre più piccole viciniori, nelle lunghe notti invernali si adunavano branchi di lupi ululanti scesi dal Monte Croce o giunti dai monti carseolani,  turanensi, della  Duchessa e marsicani; ed io dalla mia casa paterna, prossima alla piazza principale che segnava  il confine nord dell’abitato, ne avevo i sonni turbati. Il lupo era allora per me quello cattivo di Cappuccetto rosso, non quello buono di San Francesco, anche se avevo avuto modo di giocare per qualche giorno con due lupacchiotti, catturati nella Macchia di Oricola da un boscaiolo, zio acquisito di mia madre. Per lo più nei racconti invernali la figura del lupo era predominante. Non passava inverno che i lupari, in gruppo o da soli, non si presentassero al paese con le loro pelli ricucite e impagliate a chiedere il contributo dei pastori: prassi in quei tempi ordinaria, rappresentando il feroce canino il maggior pericolo per le greggi al pascolo montano nei mesi caldi, al riparo delle stalle nei mesi freddi. Per tali motivi paradossalmente il lupo era per me bambino un animale familiare, temuto e amato insieme, non solo un animale da favola, ma presenza di cui la mia accesa fantasia era chiamata ad alimentarsi. Ogni sabato sera mio padre, che era solito tornare da Roma in bici, facendosi circa 75 km di cui una trentina (da Bagni di Tivoli a Tivoli, ma soprattutto poi da Arsoli  a Vivaro attraverso Riofreddo e Vallinfreda posta a 860 metri sul livello del mare) in forte salita, mi raccontava di un lupo, dopo i primi spaventi diventatogli amico,  che lo attendeva regolarmente al Cupaiu o al bivio di Orvinio: faceva già notte e il predatore, ormai  sazio o in attesa che qualche stalla si aprisse, se ne stava buono buono immobile con gli occhi rilucenti che trapassavano il buio e si fissavano su di lui obbligandolo ad arrestarsi, come si aspettasse un saluto, finché con un breve ululato gli dava il segnale di via libera. Quando papà narrava dei suoi incontri col lupo del Cupaiu, io i primi tempi, si può immaginare, tremavo dalla paura, poi finivo per pensarlo un amico che proteggeva il mio stanco papà imponendogli una sosta dopo la grande fatica della salita: da Vallinfreda a Vivaro, dopo il lupesco ‘via’!,  egli, abile ciclista fin da giovane, avrebbe avuto tutto il modo di recuperare, pericolosamente lanciandosi per una  strada tutta curve e tutta in discesa, imitando e superando spesso i tempi del suo idolo Fausto Coppi, ma più di una volta finendo, per la sua  temerarietà, fuori strada, quando non addirittura  sotto un ponte. Al qual proposito,

esilarante parentesi, fu storico un incidente che avrebbe potuto essere fatale a lui ed all’amico Emilio, custode di una diga dell’Aniene sotto Roviano, che talvolta, al ritorno da Roma, papà faceva sedere sul sellino posteriore e che, all’ultima salita doppiamente ormai improba, si alternava alla guida: arrivati al primo ponte di Vivaro, imboccarono male la svolta,  finirono sotto il ponte sul greto del torrentello della Scentella ed arrivarono in piazza che erano una maschera di sangue. Ho ancora nelle orecchie le urla, accompagnate da irripetibili improperi rivolti dalle consorti ai rispettivi mariti, strapositivi alla prova …dell’alito, e la spasmodica ricerca del medico.

   Con Uomini e lupi dunque mi sono svegliato stamane: invece che ambientato nei territori innevati di Scanno, Alfedena e Pescasseroli (gli stessi che cento volte nella mia vita ho ripercorso, solo o in compagnia, a piedi o in automobile) l’ho visto come fosse stato girato nei luoghi a me altrettanto familiari e cari del Preappennino abruzzese, fra i boschi i castagneti le stalle e le catapecchie del mio paese. Mi sono rivisto nel bambino (Pasqualino) che con un improbabile Ives Montand (Ricuccio), forse  inadeguato al ruolo chiamato a rivestire, Pedro Armendariz (Pietro), figura scialbetta e impacciata, Silvana Mangano (Teresa, più credibile in altri ruoli, vedi Riso amaro)  ne è il protagonista, e ho riudito gli stessi ululati che udivo nelle profonde notti invernali allorchè i lupi affamati si avvicinavano alle stalle delle ‘Cruci’ e del Querceto sotto le Coste della Lacciara.

   Mi piace in questa mia seconda infanzia Uomini e lupi, forse perché torna ad alimentare la nostalgia di quella mia prima di freddo e di guerra sì, ma calda di incantamenti di scoperte e di affetti, in una tragica fase dell’Essere, quella che ansiosamente stiamo vivendo, che sembra tendere al suo riannichilimento  nel non-Essere mediante una peste cosmica tesa ad inquinare definitivamente una  Creazione consunta, forse prossima alla sua definitiva implosione, senza speranza di rigenerazione.

   Pandemia senza Palingenesi.

 

        

 

 

 

 

 

 

 

 
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