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Riflessione filosofico-poetico-musicale

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Il Dante di Harold Bloom, seguito e fine

Post n°1081 pubblicato il 11 Maggio 2021 da giuliosforza

991

   (seguito)  

   “Per il comune lettore che può assimilare la Commedia in lingua originale, Beatrice è di rado un enigma, perché i critici italiani sono molto diversi dagli studiosi angloamericani, nell’accostarsi a Dante, e la loro mondana percezione del poeta è percolata fino a lui. Faccio tesoro dell’osservazione di Giambattista Vico, che perfino Omero avrebbe ceduto il primato a Dante, se il toscano fosse stato meno dotto in teologia. Come Freud (e tutti i mistici) Dante credeva possibile la sublimazione dell’eros, ben lontano in ciò dal Cavalcanti, che considerava l’amore una malattia da cui guarire. Dante, che dannò Paolo e Francesca come adulteri, era noto per l’inclinazione per donne assai diverse (nella sua prospettiva) dalla sacralizzata Beatrice. Quasi il solo luogo in cui lui e Shakespeare si incontrano è nella comune supremazia nell’esprimere i dolori dell’eros, propri e altrui:

   Ma ben ritorneranno i fiumi ai colli

   prima che questo legno molle e verde 

   s’infiammi, come suol far bella donna,

   di me; che mi torrei dormir in petra

   tutto il mio tempo e gir pascendo l’erba,

   sol per veder do’ suoi panni fanno ombra.

   È la sestina Al poco giorno, una delle ‘rime petrose’ che Dante appassionatamente dedicò a tale Petra, Se Beatrice è poco shakespeariana, Pietra lo è, e non stonerebbe accanto alla park lady dei Sonetti:

   Sciupio vitale in scempio di vergogna

   È lussuria in azione, e lì, lussuria

   È spergiura, di sangue e infamia sozza,

   brutale estrema incredibile cruda.

   Goduta appena, subito si spregia (…)

   Le letture pie di Dante non sono così chiaramente immotivate come i tentativi di cristianizzare le tragedie di Amleto e Lear, ma nuocciono alla Commedia più del risentimento femminista, che si scaglia contro l’idealizzazione di Beatrice. Le lodi che Dante le rivolge sono d’intensità struggente; la sua esaltazione di un amore non ricambiato è più problematica, a meno di risalire alle strane visioni di quando, ancora bambini,  ci si invaghisce di qualcuno che a stento si conosce, e forse non si vedrà mai più. Finemente, T. S. Eliot ha congetturato che l’esperienza di invaghirsi di Beatrice sia stata vissuta da Dante prima dei nove anni; e il paradigma numerologico può in effetti averlo indotto a post-datarla di un anno o due. Noi, comunque, che non siamo lui, poco riceveremmo da un’analoga epifania, ed è suo merito esclusivo essere da lì partito per realizzare quello che sappiamo.

   Se è universale nell’origine, beatrice diventa nella Commedia un simbolo esoterico, il centro della personale gnosi del poeta, essendo per suo tramite che questi asserisce un sapere assai meno tradizionale di quanto molti esegeti siano disposti ad ammettere. L7’intramontabile fama dell’Inferno non ha oscurato l’eloquenza drammatica del Purgatorio, i cui lettori sono ancora un numero apprezzabile. L’immensa difficoltà è del Paradiso, benché proprio tale difficoltà sia il marchio indisputabile del genio di Dante, che dilaga oltre i limiti della letteratura di immaginazione. Non possediamo nulla che gli assomigli, tranne, chissà, certe sequenze delle Rivelazioni della Mecca del sufi andaluso Ibn Arabi (1165-1240), che aveva conosciuto la sua Beatrice alla Mecca. Nizam, la Sofia della Mecca, come la Beatrice fiorentina è il centro della teofania, e converte Ibn Arabi a un amore sublimemente idealizzato.

   A settantun anni, non sono forse ancora pronto per il Paradiso (in cui, comunque, in quanto di fede ebraica non sono destinato a entrare), e ho cominciato a distaccarmi dall’Inferno, terrificante ancorché sublime. Continuo invece a visitare il Purgatorio, per ragioni magnificamente espresse da W. S. Merwin nella prefazione alla propria eccellente traduzione della cantica mediana della Commedia.

    Delle tre sezioni del poema, solo il Purgatorio è sulla terra, la terra in cui viviamo, e sulla quale posiamo i piedi, attraversando una spiaggia, arrampicandoci su un monte… E fino alla suprema cima del monte, la speranza si mischia al dolore, avvicinandosi ancor più alla vita presente.

    Tutti i miei amici dissentono su quale canto del Purgatorio sia da preferire. Personalmente, scelgo il XXVIII, con la sua visione di Matelda che coglie i fiori del Paradiso terrestre.

    Vago già di cercar dentro e dintorno

   La divina foresta spessa e viva,

   ch’a li occhi temperava il novo giorno,

   sanza più aspettar lasciai la riva,

   prendendo la campagna lento lento

   su per lo sol che d’ogni parte auliva.

   Un’aura dolce, sanza mutamento

   avere in sé, mi feria per la fronte

   non di più colpo che soave vento;

   per cui le fronde, tremolando, pronte

   tutte quante piegavano a la parte

   u’ la prim’ombra gitta il santo monte;

   non però dal loro esser dritto sparte

   tanto, che li augelletti per le cime

   lasciasser d’operare ogne lor arte;

   ma con piena letizia l’ore prime,

   cantando ricevieno intra le foglie,

   che tenevan bordone alle sue rime,

   tal qual di ramo in ramo si raccoglie

   per la pineta in su ‘l lito di Chiassi,

   quand’Eolo scilocco fuor discioglie.

   Già m’avean trasportato i lenti passi

   Dentro a la selva antica tanto, ch’io

   Non potea riveder ond’io mi trassi;

   ed ecco più andar mi tolse un rio,

   che ‘nver sinistra con sue picciole onde

   piegava l’erba che ‘n sua ripa uscio.

  Tutte l’acque che son di qua più monde,

   parrieno aver in sé mistura alcuna

   verso di quella, che nulla nasconde,

   avvegna che si mova bruna bruna

   sotto l’ombra perpetüa, che mai

   raggiar non lassa sole ivi né luna.

   Coi pié ristetti e con li occhi passai

    di là dal fiumicello, per mirare

   La gran varïazion d’i freschi mai;

   e là m’apparve, sì com’elli appare

   subitamente cosa che disvia

   per maraviglia tutto altro pensare,

   una donna soletta che si gia

   e cantando e scegliendo fior da fiore

   ond’era pinta tutta la sua via.

   ‘Deh, bella donna, ch’a raggi d’amore

   ti scaldi, s’i vo’ credere a’ sembianti

   che soglion esser testimon del core,

   vegnati voglia di trarreti avanti’,

   diss’io a lei, ‘verso questa rivera

   tanto ch’io possa intender che tu canti.

   Tu mi fai rimembrar dove e qual era

   Proserpina nel tempo che perdette

   La madre lei, ed ella primavera’.

   In un’indimenticabile versione inglese, Shelley mantiene la ‘terza’ rima dantesca al prezzo di qualche forzatura del senso originale, ma cogliendo la sorpresa e lo splendore dell’apparizione di Matelda, che ha capovolto la caduta di Proserpina ed Eva, e prefigura il ripresentarsi a Dante della visione di Beatrice. Possono esservi stati in Shelley anche echi del Racconto d’inverno, di Shakespeare, Perdita essendo l’equivalente shakespeariano di Matelda.

   Oh, se avessi i fiori che tu, Proserpina, spaventata, lasciasti cadere sul carro di Plutone! Narcissi che precedono gli ardimenti delle rondini e affascinano di loro bellezza i venti di marzo (,,,)”.

   Perché Dante abbia chiamato Matelda la fanciulla canterina del ripristinato Eden è un enigma, per il quale studiosi diversi propongono diverse soluzioni. L’apparizione di Matelda è effimera, ma perversamente preferisco lei a Beatrice, che spiega e rabbuffa, e per Dante è in eterno irraggiungibile. Come la Perdita shakespeariana, Matelda ci incanta. Chi, che son l’indomito Dante, avrebbe potuto restar fedele alla paradisiaca Beatrice? Chi, a parte Dante, non s’innamora di Matelda, come ci appare in queste altre terzine?

   (…) E avvegna ch’assai possa esser sazia

   La sete tua perch’io più non ti scuopra,

   darotti un corollario ancor per grazia;

   Né credo che ‘l mio dir ti sia men caro,

   se oltre promession teco si spazia.

   Quelli ch’anticamente poetaro

   L’età de l’oro e suo stato felice,

   forse in Parnaso esto loco sognaro.

   Qui fu innocentel’umana radice;

   qui primavera sempre e ogne frutto;

   nettare è questo di cui ciascun dice’.

   Bella e gentile, misteriosa epitome di ogni giovane donna innamorata, Matelda cammina con Dante sull’erba come se l’età dell’oro fosse ritornata. Il suo passo è di danza, e non è il caso di appesantirlo gravandola di allegorie e collegandola a nobildonne realmente vissute e celebri contemplative. Notoriamente sensibile al fascino femminile, Dante si sarebbe certo invaghito di Matelda se la trasfigurata Beatrice, un po’ madre e un po’ istitutrice, impossibile oggetto del desiderio, non lo avesse atteso nel canto seguente.

   William Hazlitt, superbo critico letterario del romanticismo britannico, reagì a Dante in modo più ambivalente di Shelley e di Byron; cionondimeno ha colto una delle ragioni della sua originalità, uno degli stratagemmi del suo genio:

   Egli ci avvince solo in quanto suscita in noi per simpatia le emozioni dalle quali è preso egli stesso. Non colloca davanti a noi gli oggetti dai quali l’emozione è suscitata, ma cattura la nostra attenzione, mostrando l’effetto che producono sui suoi sentimenti; e perciò la sua poesia genera spesso la reazione intensa, quasi soverchiante, che siha guardando il volto di chi ha scorto qualcosa di terribile.

   Hazlitt pensava all’Inferno, non alla Matelda del Purgatorio, in cui l’emozione sarebbe semmai quella suscitata dal volto di chi contempla una causa di suprema delizia”.

 

 
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