Dis-incanti

Da Vintila Horia, "Dio è nato in esilio. Diario di Ovidio a Tomi"


Post 722 “Tornai a casa, la famiglia del mio ospite e gli schiavi si ritirarono subito e il russare empì l’aria soave del crepuscolo. Mi rinfrescai gli occhi e uscii dalla mia camera. La schiava Geta dagli occhi azzurri stava davanti alla porta della casa, seduta sopra una panca, le spalle appoggiate al muro. Mi sorrise e mi fece posto vicino a sé, sulla pietra ancora calda. Il sole era tramontato, ma l’aria era di un tepore profumato di rose, come a Roma, alla fine di maggio. Un’aria nella quale il corpo si muove con un piacere e con una scioltezza che stabiliscono rapporti di amicizia fra l’uomo e tutto quanto lo circonda. Dalla mia partenza non avevo più sentito quella dolcezza che dà ali ad ogni movimento e lascia tracce quasi visibili nel crepuscolo, come se si scivolasse sulla superficie di un’acqua placida e incantata.«Ti chiami Geta, per caso?» domandai alla giovane. Pensavo in quel momento al nome che Menandro dava a tutte le schiave di Atene. Ella accennò di s’ con la testa, senza aprire bocca. «Che cosa fai qui a quest’ora?» Ella alzò la spalla nuda in un gesto che voleva dire: «Nulla, e continuò a sorridere, dondolando i piedi nel ritmo di una canzone che canticchiava senza muovere le labbra. «Mi vuoi accompagnare? Andremo in riva al mare, troveremo un posto tranquillo e tu mi canterai codesta canzone». Ella si alzò di un balzo e mi tese la mano.Traversammo la città ronzante dei gridi della plebe.. Scendemmo verso il porto, dove Geta mi fece salire in una barca, e manovrando ella stessa i remi si diresse verso una spiaccia situata fuori delle mura. La luce rossastra del crepuscolo brillava sulle acque calme. Alcuni pesci guizzavano fuori dalla superficie del mare attratti dalla profondità sconosciuta dell’aria, si gettavano a testa avanti in questi abissi dell’alto che li tentavano, per rituffarsi nell’acqua con un rumore sonoro e musicale. Il ronzio della città si allontanava dietro a noi e sempre più lontani apparivano i lumi che già si accendevano alle finestre. Sbarcammo sulla spiaggia, Geta mi tese di nuovo la mano e mi condusse verso la collina dove la sabbia serica serbava ancora il tepore del giorno. L’aria sapeva di alghe. Ci allungammo sulla sabbia. Ella cominciò a canterellare una canzone che non conoscevo. Era la storia di un pastore, amico di una pecorella, che veniva ad annunciargli la sua prossima morte. Altri pastori volevano ucciderlo. Il pastore ringraziava la sua piccola amica e la pregava di dire alla sua vecchia madre che non piangesse sulla sua tomba. La morte era la sua fidanzata ed egli l’amava di grande amore. Le stelle, gli abeti, i cani fedeli sarebbero ormai i testimoni delle sue prossime nozze e della sua futura felicità.«Dove hai imparato questa canzone?»«E’ una vecchia canzone dei nostri posti, la canzone della pecorella. Hanno paura della morte, laggiù a Roma, non è vero? Da noi non la si teme. Mi hanno detto che da voi amate soltanto l’amore. Ma che cosa è l’amore senza la morte? Una cosa che passa come una stella che sim accende per scomparire subito dopo».Le risposi sorridendo: «Vuoi tu morire con me?»Ella pure sorrise, si piegò, coprì il cielo col suo sorriso e mi baciò. Chiusi gli occhi, ma vedevo sempre quel sorriso che passava in me e mi illuminava come una torcia.Rientrammo tardi. I fuochi si spegnevano sulle piazze e, dalla nostra barca, intravvedevo la facciata dei templi palpitare alla lkuce delle fiamme agonizzanti. Tutto era calmo. Gli ubriachi dormivano. Un soldato della guardia ci fermò all’ingresso del porto e poi ci lasciò passare. Geta mi diede la mano per guidarmi nell’oscurità che sapeva di fumo e di vino. Le Rosalie (festa nella quale le tombe venivano ricoperte di petali di rose, nota mia) erano finite. Davanti alla porta della mia camera Geta mi baciò di nuovo e mi salutò con la sola parola latina che sapeva: “Amor”, mi disse, e si diresse verso gli alloggi degli schiavi. Le risposi “Amor” semplicemente, come se questa parola avesse voluto dire: “Addio”. E l’immagine del pastore dacio e della pecorella mi si presentò davanti e mi accompagnò durante il sonno”.(Vintila Horia Dio è nato in esilio. Diario di Ovidio a Tomi, Le edizioni del Borghese, Milano 1961, pp. 115-117, trad. di Orsola Nemi)