Dis-incanti

Poe, "Dialogo tra Monos e Una"


958   Sogno imbarazzante per uno che, per dirla con Goethe, da decenni ormai si inginocchia solo per raccoglier fiori da offrire alla fanciulla amata. Mi sveglio ginocchioni davanti ad una immagine di Edgar Allan Poe, sì, di fronte ad uno nei cui riguardi evidentemente mi sono un po’ troppo esposto. Lo stimo, sì, ed anche molto lo amo. Ma di qui ad inginocchiarmi, io le cui ginocchia da decenni, a differenza di ogni altra parte del corpo ormai avvizzita e appassita, hanno recuperato la levigatezza infantile! Nella mia vita dopo la fase della teolatria (l’adorazione di un Dio personale trascendente in versione cattolica niceno-costantinopolitana) mi è avvenuto di passare (o tornare?) a quella idolatrica, mai a quella che dirò antropolatrica. A meno che non si faccia corrispondere antropolatria con egolatria. In questo caso non solo i ginocchi dinnanzi alla mia icona piegai, ma la schiena, fino a servilmente (e non v’ha servitù peggiore di quella dell’ego) deformarmela.     Dovevano passare 87 anni perché mi innamorassi di  lui del suo mondo del suo stile della sua raffinatissima cultura delle sua visionarietà della sua alienazione della sua ironia del suo tormento delle sue angosce dei suoi incubi e infine della sua non ben camuffata brama d’assoluto; m’innamorassi di lui di uno strano eros che eros non è e qualcosa di più è, come quello di lui per le sue Berenice Eleonora Igieia Morella, e per  tutte le altre, reali o immaginarie, donne della sua letteratura e della sua vita. E lo venerassi tra i più grandi Ministri dello Spirito. Maudit certo, distrutto dal genio e dall’oppio, morto a quarant’anni in poco chiare circostanze, ma come Whitman Baudelaire e gli altri del mio Parnaso destinato a vivere d’una vita senza più interruzioni né soste. Credeva nelle rinascite, la più credibile, anche se non la più consolatoria, delle fedi: rinascere uno degli enti in cui l’Essere, in una incessante sarabanda di autoposizioni e frantumazioni, gioca a trasformarsi e reinventarsi per poi, tramite l’evento che pronunciamo lugubremente Morte, riassorbirli nella sua unità donde nuovamente, incessantemente, rilanciarli nello spazio-tempo uomo o animale, fronda farfalla bruco angelo alito di vento o onda di mare. Questa, sì, è una bella fede!   Nello stralcio di racconto che qui riporto, Il colloquio di Monos e Una, è tutta la ‘metafisica’ del Nostro circa le rinascite e le metamorfosi. Il temine metafisica qui non è un abuso e non è un oltraggio. Tutto è meta-fisico non sopra od oltre ma sotto la scorza delle cose, ove ha sua sede il Mistero. Tutto in Poe è metafisico, nella sua antimetafisica dell’immanenza visionaria. Il colloquio in questione avviene al tempo della rinascita, un secolo dopo la prima Morte.     Una:    Ti capisco, Monos. Entrambi abbiamo imparato che l’uomo ricerca nella Morte la definizione di quanto è indefinibile. Non dirò quindi, comincia dalla cessazione della vita… ma comincia da quel triste, tristissimo istante in cui, avendoti abbandonato la febbre, tu sei sprofondato in un torpore senza respiro e movimento e io ti ho chiuso le candide palpebre con un gesto di amore disperato delle dita.   Monos: Innanzi tutto, Una mia, una parola sulla condizione umana in quell’epoca. Ricorderai che uno o due saggi tra i nostri antenati – saggi nei fatti e anche se non tali nella stima del mondo – avevano azzardato il dubbio circa la proprietà del termine “miglioramento” applicato al progresso della nostra civiltà. Ci sono stati periodi, in ciascuno dei cinque o sei secoli immediatamente precedenti la nostra dissoluzione, nei quali insorse qualche vigoroso intelletto per battersi coraggiosamente a favore di quei principi che ora appaiono verità assolutamente ovvie alle nostre mentalità non più condizionate…principi che avrebbero dovuto convincere la nostra razza a sottomettersi alle leggi della natura piuttosto che tentare di dominarla. A lunghi intervalli talune apparvero menti superiori che consideravano ogni pregresso tecnologico come un regresso ai fini della vera utilità. Occasionalmente l’intuizione poetica -quella forma di intelligenza che consideriamo ora più elevata di tutte, - in quanto quelle verità, che sono per noi della massima duratura importanza, possono essere comprese solo con questa analogia che parla in termini adatti alla sola immaginazione e non ha peso per la ragione non illuminata – occasionalmente tale intuizione poetica fece un passo avanti nell’evoluzione dell’idea vaga del filosofico e trovò nella parabola mistica che parla dell’albero della conoscenza e del suo frutto proibito che reca la morte, la precisa allusione al fatto che la conoscenza non poteva essere raggiunta dall’uomo nella condizione infantile in cui era la sua anima. Questi uomini, i poeti,  vivendo e morendo in mezzo al disprezzo degli ‘utilitaristi’ – dei rozzi pedanti che si arrogavano un titolo che solo i disprezzati avrebbero meritato – proprio questi uomini, i poeti, meditarono con rimpianto ma con saggezza, sui tempi andati quando i nostri bisogni non erano più semplici di quanto intense fossero le nostre gioie, tempi nei quali gioia era una parola sconosciuta, tanto era solenne ma dimessa la felicità – santi, augusti, felici tempi. Quando i fiumi azzurri scorrevano senza argini, tra colline, non scavate, entro sconfinate foreste primeve, solitarie, odorose, inesplorate.   Eppure, queste nobili eccezioni alla generale ignoranza non servirono ad altro, combattendola, che a rinforzarla. Ahimè! Eravamo caduti nel più infausto degli infausti nostri giorni! Il grande ‘movimento’ – era questo il termine del gergo in uso -avanzava: una morbosa confusione morale e fisica. L’Arte - le Arti - raggiunsero valori supremi, e, una volta salite sul trono, strinsero catene intorno all’intelletto che le aveva portate al potere. L’uomo, che non poteva ignorare la grandezza della Natura, si tuffò in una sorta di infantile esultanza per avere acquisito un crescente predominio sui suoi elementi. Perfino quando volle nella sua fantasia avvicinare Dio, cadde preda di un’infantile stupidità. Come poteva prevedersi fin dall’origine del suo disordine mentale, si ammalò di sistemi e di astrazioni, si avvolse sempre più in genericità. Tra le altre idee strane guadagnò terreno quella dell’uguaglianza universale; contro l’analogia e Dio – a dispetto della possente voce ammonitrice delle leggi della gradazione che così visibilmente permea tutte le cose in Terra e in Cielo – furono fatti insensati tentativi per attuare una Democrazia prevalente su tutto. Anche questo male germogliò dal male principale: la conoscenza. L’uomo non poteva conoscere e soccombere. Nel frattempo, sorsero in gran numero immense città fumose: le verdi foglie caddero per il soffio bruciante delle fornaci. La bella faccia della Natura fu deformata come per la devastazione di una repellente malattia. Medita, mia dolce Una, perfino il nostro deformato senso del forzato, dell’eccessivo, avrebbe potuto fermarci a quel punto. Ora ci accorgiamo che avevamo provocato la nostra distruzione con il pervertimento del gusto, o più ancora nel cieco abbandono della sua cultura nelle scuole. In realtà in una così grave crisi solo il gusto - cioè la facoltà di tenere una posizione intermedia tra il puro intelletto e il senso morale, che non potrebbe mai essere impunemente trascurato - il gusto solo, ripeto, era ciò che poteva gradualmente riportarci alla Bellezza, alla Natura, alla Vita. Rimpianto per il puro spirito contemplativo, per la grandiosa intuizione di Platone! Rimpianto per la mousiké che egli giustamente riteneva una educazione del tutto sufficiente per l’anima! Rimpianto per lui e per questa! – perché entrambi erano disperatamente necessari quando vennero entrambi completamente dimenticati e disprezzati*. Pascal, un filosofo che noi due amiamo, ha detto - e quanto è vero! - «que tout notre raisonnement se réduit a céder au sentiment; ed è possibile che, se il tempo lo avesse consentito, il sentimento del naturale avrebbe ripreso il suo antico ascendente sulla fredda razionalità matematica delle accademie. Ma questo non si è verificato. Influenzata dalla intemperanza di una prematura conoscenza, la vecchiezza del mondo crebbe. Questo la massa degli uomini non vide, oppure, vivendo con cupidigia ma senza felicità, mostrò di non vedere. Quanto a me, al contrario, le cronache del mondo mi avevano insegnato che le più grandi rovine sono il prezzo delle più raffinate civiltà. Avevo avuto il presagio del nostro Destino, dal paragone con la semplice, paziente Cina, con l’Assiria culla dell’architettura, con l’Egitto astrologo, con la Nubia, più scaltra degli altri, turbolenta madre di tutte le Arti. Nella storia di queste regioni trovai una illuminazione sul futuro. Le si9ngole artificiosità di queste ultime tre erano malanni locali della terra e alla loro caduta abbiamo visto applicare rimedi locali; ma per l’infetto mondo nella sua globalità non prevedevo rigenerazione se non attraverso la morte. Perché l’uomo attuale, come razza, non si estinguesse, capii che doveva «rinascere».   E fu così, mia carissima e bellissima, che rivestimmo, ogni giorno, i nostri spiriti di sogni. Fu così che, al crepuscolo, discutemmo dei giorni avvenire, quando la superficie della terra, sfregiata dall’Arte, avendo subito quella purificazione che sola poteva cancellare le geometriche oscenità, si rivestirà di nuovo di verde, di dolci declivi, di ridenti acque da Paradiso terrestre, e tornerà ad essere una degna dimora per l’uomo: - per l’uomo purgato dalla Morte - per l’uomo al cui intelletto, in alfine liberato, non porterà più veleno la conoscenza, per l’uomo redento, rigenerato, felice e infine immortale, seppure sempre materiale”.   Qui m’arresto dal copiare, anche se il resto del racconto meriterebbe la lenta attenzione che l’atto del trascrivere, più lento di quello del semplice leggere, consente di portare al testo e alla sua corretta interpretazione. Mi pare chiaro il carattere ecologico ultramoderno che esso riveste, toccando temi come la responsabilità che l’Arte (qui grecamente techne, latamente scienza e tecnologia) riveste nella distruzione dell’ambiente naturale, così trasformandosi in denuncia dei danni che la scienza in generale e la sua figlia maggiorata, la tecnica, in particolare, vanto dell’Uomo moderno, procura accelerando, e non è un paradosso, con l’oltraggio manipolatore della Natura il declino stesso dell’Umano. Tutti temi marceliani che con sorpresa ritrovo in un artista americano di due secoli fa e che, con ancor maggior sorpresa, ritrovo in un autore contemporaneo, Yuval Noah Harari, al quale già diedi una fuggevole attenzione riferendo del suo libro Homo Deus. Breve storia del futuro, che a questo punto è d’obbligo faccia oggetto di più approfondita riflessione.____*«Sarà difficile scoprire un migliore metodo di educazione, di quello che le esperienze di molte epoche hanno già scoperto: esso può essere sintetizzato in ginnastica per il corpo e musica per l’anima» (Repubblica, libro 2°). «Per questa ragione è proprio essenziale una educazione musicale, in quanto essa consente il Ritmo e l’Armonia di penetrare nell’anima, prenderne il pieno possesso, riempiendola di bellezza, arricchendo così l’uomo di una mente bella…Egli loderà e ammirerà il bello: lo riceverà con gioia nel suo animo, si pascerà di lui, ad esso assimilerà la propria condizione» (Ibid . lib. 3°). La musica, mousiké, aveva in realtà un significato più esteso per gli Ateniesi che non per noi. Includeva non soltanto le armonie del tempo e del tono, ma anche la dizione poetica, il sentimento e la creatività nel senso più lato del termine. Lo studio della musica era per loro la generale educazione al buon gusto, quello che riconosce il bello, in netta distinzione dalla ragione che tratta solo del vero.________________  Chàirete Dàimones!   Laudati sieno gli dei, e magnificata da tutti viventi la infinita, semplicissima, unissima, altissima et absolutissima causa, principio et uno (Bruno Nolano).