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Del Silenzio

Post n°1010 pubblicato il 24 Luglio 2019 da giuliosforza

Post 932

La mia splendida solitarietà (non solitudine  - come disse di sé Goethe, Ich bin einsam, nicht allein)  oggi mi spaura. Troppo fitto è nel mio eremo al Frainile, dopo la pioggia attesa e abbondante, il silenzio: non un uccello canta, non un gatto miagola, non un cane abbaia, solo le urla, quasi ululati,  della povera C. risuonano e rimbalzano contro le case addormentate del borgo. Ogni vita canora tace: solo processioni di chiocciole, stanche di un troppo lungo letargo, escono a frotte ad infittire la quiete panica e a pascersi delle erbette già rinverdite ed umide, lasciando abbondanti bave vischiose  sul loro cammino. Ed io scrivo, compongo in cucina o strimpello all’organo malinconiche arie schubertiane e schumanniane per sedare omeopaticamente, non fugare, l’amica malinconia, ‘ninfa gentile’ cui dedicai la mia vita . Ma soprattutto leggo, ed evado dalla onofriana ‘triste obliquità che pensa’.

   Particolarmente ricco è questa settimana il supplemento de Il Sole 24 Ore domenicale, a cominciare dall’occhiello ravasiano a finire alle note letterarie, filosofiche, scientifiche, musicali dalle firme illustri. La prima pagina è dedicata tutta al Silenzio e ai suoi rumori, e pare Luigi Sampietro abbia scritto per me, per ed il mio attuale stato d’animo, il pezzo che trascrivo integralmente, sperando di non violare i diritti d’autore. Si intitola:“Storia del sensibile. Scrittori e artisti hanno raccontato negli anni qualcosa che non è solo assenza di suono, ma è sospensione davanti all’assoluto, luogo intimo che genera la parola. Come cambia il rumore del silenzio” .

   E così procede:

 

    «C’era una volta - cito a memoria – Il silenzio del mare di Vercors, e c’era Il silenzio, tout court, di Ingrid Begman. Un breve romanzo sulla resistenza francese (1942) e un film (1963) con una strana vicenda ambientata in un Paese altrettanto strano, e tanti primi e primissimi piani intervallati da pause interminabili. Erano gli anni della cosiddetta ‘alienazione’, di cui era maestro - a furor di campi lunghi  di lunghi silenzi, appunto  anche il nostro Michelangelo Antonioni. E poco importa se qualche sprovveduto spettatore finiva per appisolarsi sulla poltrona del cinematografo.

   Venne poi Il silenzio degli innocenti, un film horror (1991) tratto da un romanzo di Thomas Harris (1988), con un inarrivabile Anthony Hopkins nei panni di Hannibal the Cannibal. E quella volta, quasi a sconfessare il titolo, il silenzio in sala fu di frequente interrotto da gridolini di terrore.

   C’era anche Il silenzio (Chinmoku, 1956) del giapponese Shūsaku Endō, poi trasposto in film da Martin Scorsese (1971): e Silenzio (1961), una raccolta di saggi del compositore John Cage, oltre ad un libro di Francis Scott Fitzgerald, Silenzio per sveglia (1935) il cui titolo si riferisce all’assolo per tromba che in caserma segna la fine della giornata. Lo stesso, per intenderci, del famoso 45 giri fuori ordinanza  del nostro Nini Rossa (1966).

   Ora, anche se sappiamo tutti benissimo di cosa si tratta, c’è sempre qualcuno a cui non basta parlare del silenzio come si fa con un qualsiasi dato dell’esperienza, ma che vorrebbe definirlo sul piano ontologico. Comprendere che cosa sia in sé. Perché, afferma sempre qualcuno, il silenzio non è solo assenza di suono, cioè di energia, come direbbe un mio lontano parente ingegnere.

   Anni fa un filosofo-poeta o poeta-filosofo svizzero, Max Picard, si prese infatti la briga di indagare l’arcano in un libro, Il mondo del silenzio (Comunità,1951) di recente ritradotto da Jean-Luc Egger (2007) per la casa editrice Servitium: “La parola è nata dal silenzio: dalla pienezza del silenzio.  E questa pienezza sarebbe esplosa se non avesse potuto confluire nella parola, perché la parola che nasce dal silenzio è come investita di una missione: è legittimata dal silenzio che l’ha preceduta”.

    Se il timbro non è vibrante il tono è quasi sacrale, e quella di Picard è una voce che ha l’ambizione di imporsi sul piano dell’eternità. Dove il tempo -passato presente e futuro- implode nella rivelazione profetica, e solitudine e silenzio sono tutt’uno.

   Il mondo del silenzio si colloca infatti accanto ai libri di altri solitari del passato. Da Aurelio Agostino a Petrarca e da Leopardi a Machado, passando per il Timone di Atene di Shakespeare e il Robinson Crusoe di Defoe, fino a quella singolare figura di eremita che è stato il rumeno Costantin Noica, appartatosi in un paesino sui Carpazi durante la dittatura di Ceausescu “non per fuggire il mondo ma per conquistarlo da lontano”.

   Come la solitudine, il silenzio può essere doloroso; e tuttavia sono proprio i sovrumani silenzi e la profondissima quiete di cui parla Leopardi ne L’infinito a darci il senso dell’ineffabile; ovvero di quel momento di sospensione in cui “le cose / s’abbandonano / e sembrano vicine / a tradire il loro ultimo segreto” (e qui è Montale che parla di rincalzo) e “ci si aspetta  / di scoprire uno sbaglio di Natura, / il punto morto del mondo, l’anello che non tiene, / il filo da disbrogliare che finalmente ci metta / nel mezzo di una verità”.

   Una sorta di illuminazione interiore, del tutto secolare e non trascendente, che sancisce - sembra di capire - la percezione di quella identità tra sé e l’universo (uni-versus, il mondo inteso come dotato di direzione, cioè di senso) che a sua volta è la risposta della mente stupefatta sulle soglie dell’assoluto.

   Il silenzio che abbaglia e stordisce -ed è foriero di sensazioni estatiche- è anche l’argomento di due libri più recenti di Sara Maitland e Erlin Kagge, rispettivamente. Il primo, A Book of Silence (Graywolf Press, 2008), echeggia nel titolo quelle raccolte di preghiere che erano i libri d’ore, ed è una sorta di resoconto autobiografico delle esperienze vissute, a partire da un certo momento della propria vita, da una protagonista abbastanza abbiente da potersi permettere lunghi viaggi e l’acquisto di solitarie dimore in località sperdute della Scozia per vivere pienamente nella dimensione della solitudine e del silenzio. Con internet ma senza telefono.

   Il libro di Erling  Kegge appartiene invece al filone ecologico salutista. Il titolo, tradotto letteralmente dal norvegese in inglese, è Silence in the Age of Noise: The Joy of Shutting out the World. In italiano diventa un fin troppo ambizioso Silenzio. Uno spazio dell’anima (Einaudi, 2017). Si tratta di un vivace resoconto, introdotto da qualche banalità filosofica, di lontane esperienze di un esploratore -nonché avvocato, collezionista, imprenditore, uomo politico, scrittore ed editore-, panteista nella sostanza e attivo sotto tutte le latitudini, che si è spinto, negli anni ’90, prima al Polo Nord percorrendo 800 chilometri sugli sci, poi al Polo Sud, viaggiando in solitaria e senza radio per 50 giorni; infine in cima all’Everest, che è la terza estremità del pianeta. E poiché gli mancava l’esperienza del silenzio sottoterra, nel 2010 Kegge ha attraversato in cinque giorni la città di New York, dal Bronx a Manhattan fino all’Atlantico, lungo fogne, tunnel per l’approvvigionamento idrico e linee della metropolitana. Tendendo l’orecchio e turandosi il naso.

   Ultimo, l’Histoire du Silence di Alain Corbin (Éditions Albin Michel) ora tradotto con successo anche in inglese. Il sottotitolo è De la Renaissance à nos jours,  ma la suddivisione dei capitoli non è cronologica bensì tematica, e il libro è un thesaurus di citazioni (ne ho contate circa 350) che si dimostra vincente più di tanti discorsi. La pagina di un romanziere o di un poeta, infatti, riesce sempre  a fare “entrare” il lettore nella realtà virtuale che sta rappresentando, laddove i documenti e gli scartafacci d’archivio possono solamente offrire uno spunto dal quale partire per la rielaborazione storiografica.

   Corbin è un affermato “historien du sensible”, specializzato nell’indagine di fenomeni “inafferrabili”, come la mentalità o l’immaginario della gente in un certo periodo, o realtà fisiche quali gli odori e i rumori, la pioggia e il maltempo, con relativi commenti e previsioni, nelle case e nelle osterie. Nella Histoire du Silence si avvale di uno stuolo di scrittori, in maggioranza francesi - da Pascal  e Milton a De Vigny e Hugo; da Thoreau a Whitman a Baudelaire a Verne; e da Zola a Huysmans a Maeterlinck e Claudel, fino a Proust e Camus - come della fonte più sicura per dare al lettore un’idea di come il silenzio sia stato percepito nei secoli.

   C’è il silenzio che avvolge gli oggetti famigliari e i luoghi solitari - chiostri, chiese, cimiteri e carceri - e il silenzio delle strade deserte e delle foreste impenetrabili. Il silenzio come rifugio o come minaccia. Come scelta tattica in società e nella vita privata. Il silenzio che accomuna gli amici e il silenzio ambiguo degli amanti. Il tutto contenuto nella parentesi del silenzio biblico precedente la creazione e l’apertura del settimo sigillo nell’Apocalisse. Quando suoneranno le trombe che tutti sappiamo».

  

   Fin qui Sampietro. L’accenno finale al silenzio biblico mi fa pensare a quello che lungo tutto il tempo della trascrizione ho pensato: esserci un brano del Libro della Sapienza, ripreso dalla Liturgia cattolica, che meglio di tutti esprime la natura divina e la forza creatrice del Silenzio, e di cui paradossalmente  pare Corbin, almeno nel resoconto di Luigi Sanpietro, non si ricordi. Eccolo: 

   Dum medium silentium tenerent omnia et nox in suo cursu medium iter haberet, omnipotens sermo tuus, Domine, de caelis a regalibus sedibus venit”.

   En archè en o Logos. Nascita della Parola dal primigenio Silenzio cosmico.

 

*

  Molto interessante mi pare un trafiletto redazionale, posto a spezzare la compattezza del testo del Sampietro. Si intitola Mephisto Waltz, Complexio oppositorum, con chiaro riferimento alla famosa composizione  lisztiana,  e accenna al rapporto Musica-Silenzio.

   C’è un che di rituale e magico nel far musica. Lo si percepisce all’entrata sul palcoscenico degli orchestrali e ancor più nel momento in cui un pianista in recital, da solo sul palco, si trattiene per qualche istante - Michelangeli sublime anche in questo – prima di alzare le mani e iniziare il concerto. Se la platea degli ascoltatori è attenta, come accade sempre in Germania, in Austria o in Israele, o ancor più in Giappone, se è competente e conosce il linguaggio musicale, il pubblico ‘partecipa’ e l’esecutore percepisce all’istante il ‘climax’. Se genio, lo diventa ancora di più. Si tratta di un vero e proprio rito, a volte satanico, che ci viene nelle forme più primitive chissà da quando tramandato, e sempre presente in ogni aggregato umano. E’ l’uso di celebrare con suoni, ritmi e canti ogni accadimento, per esorcismi, riti nuziali o funebri, vittorie e conquiste. Finanche a sostegno terapeutico, psicologico. Come nella pratica della tarantella, la pizzica, per il tarantismo soprattutto femminile, apparsa nel Sud nel ‘600. L’intelligenza artificiale, pur negli sviluppi sempre più fantasmagorici che sta raggiungendo, non arriverà mai ad apprendere o inventare questi fenomeni, perché non tiene cuore né anima. Da buon diavolo qual sono debbo riconoscerlo, arrossendo. Il robot è in grado di realizzare in un istante ogni alchimia del suono, come il temperamento. Con uno sguardo può  decifrare e memorizzare qualsiasi partitura, trasporla in ogni tonalità, riproducendo senza sporcare una nota anche il pezzo più trascendentale. Ma sempre meccanicamente, senza quel sentimento, quella energia travolgente di suggestioni magiche e voluttà del suono, che fan sentire il ‘pezzo’. Conserviamoci dunque il nostro ‘hortus conclusus’, il  nostro ‘axis mundi’ attorno al quale tutto ruota. Il Bello. La leggerezza con cui l’arte in tutte le sue forme ci incanta. Confucio chiedeva a Dio una casa piena di libri, e un giardino di fiori. Nell’atrofia cerebrale di oggi pochi lo imiterebbero. In questi giorni una tragedia: un ragazzo cui la madre ha tolto il computer si è gettato dal balcone. Un nudge negativo, una falsa luce suggerita da Lucifero.

   ________________

   Chàirete Dàimones!

   Laudati sieno gli dei, e magnificata da tutti viventi la infinita, semplicissima, unissima, altissima et absolutissima causa, principio et uno (Bruno Nolano)

 

 

 

 
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