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Debussy, 'Pelléas et Mélisande'. Inno a Roma di Puccini. Giovanni Macchia, 'I buoni selvaggi' di Montaigne

Post n°1077 pubblicato il 28 Aprile 2021 da giuliosforza

 

988

   Finalmente assisto, grazie alla TV, alla rappresentazione della favola tragica Pelléas et Mélisande di Débussy su testo di Maeterlink. Da una vita l’ho attesa, da quando, in occasione della mia tesi di laurea, ne lessi nell’autore sul quale mi stavo intrattenendo, Gabriel Marcel. Fu per me Gabriel Marcel, uomo e pensatore, col quale a lungo corrisposi, qualcosa di più che occasione fortunosa e fortunata di una ricerca accademica: un direttore spirituale vero e proprio fu che, pur destinato ad uscir presto dai miei successivi interessi, mi fu di sostegno nel momento più critico della mia esistenza. Dal 1973, quando morì, sono passati quasi cinquanta anni; ma la sua presenza e il suo pensiero sono ancor vivi in me, anzi via via egli va recuperando: le sue critiche alla in-civiltà della ragione oggettivante, a un certo tipo di scienza (quella boriosa tardopositivistica) e alla sua figlia maggiorata, la tecnica, sono ancora validissime e temo siano destinate ad esserlo sempre di più. Pe quanto riguarda Pélléas et Mélisande, il suo simbolismo e la sua musica fluttuante (traggo dalla mia tesi di Laurea nel frattempo pubblicata sotto il titolo ‘Metaproblematico e pedagogia, Motivi marceliani’), scrisse:

   Non è forse uno spirituale autentico che si incarna nelle espressioni musicali più alte che ci sia concesso comprendere, in un Bach, in un Beethoven degli ultimi Quartetti, nel Mozart più disimpegnato? Ma uno Schubert, un Brahms, un Fauré ci lanciano anche essi per folgorazioni i messaggi infiammati di questa spiritualità concreta che noi sappiamo riconoscere, nella nostra quotidiana esperienza, in una inflessione, in uno sguardo carico di non so qual tesoro immemorabile. Io ho trovato in un’infinità di musicisti, dai romantici tedeschi ai russi agli spagnoli, da Rameau a Fauré a Debussy ciò che nessuno scrittore m’ha mai dato. Così nessuno scritto filosofico, nessuna opera letteraria non ebbe su me l’influenza che esercitò il Dittico musicale formato da Pelléas et Mélisande di Debussy e Arianne et Barbe-bleu di Dukas. Al primo ascolto Pelléas et Mélisande non m’aveva dato che una sensazione generale molto indistinta. La rivelazione non si ebbe che quando ne studiavo la partitura al pianoforte. Non si trattò solamente di uno scotimento affettivo o d’una scoperta intellettuale; io mi trovai in presenza d’un mondo perfettamente individualizzato e nel quale entravo letteralmente de plain-pied . In nessun altro luogo più che in quest’opera ho preso coscienza dell’analogia tra questo elemento verginale dell’universo che ci rivela l’artista con l’esperienza del fanciullo e con quello che, a sprazzi, ci è dato ritrovare nell’amore”. (da Giulio Sforza, Metaproblematico e pedagogia. Motivi maceliani, La Goliardica editrice, Roma 1978, pp.100-101)

   Qualcosa di simile ho provato io a questo primo ascolto, e il desiderio di approfondire: nei miei studi di filosofia della musica il capolavoro debussyano non ha trovato il posto che si merita.

*

   Celebro il MMDCCLXXIV ‘ab Urbe condita’ in solitudine suonandomi e cantandomi il bellissimo (contrariis quibuscumque minime obstantibus) "Inno a Roma" composto da Giacomo Puccini su testo di Renato Salvatori nel 1919, richiesto dall'allora sindaco Principe Prospero Colonna di Paliano; testo a sua volta tratto (e reso come nell'originale in perfette strofe saffiche) dal "Carmen saeculare" oraziano che, eseguito da un coro di fanciulle sul Palatino e sul Campidoglio il 3 giugno del 17 a. C. , intendeva celebrare l'avvento dell'età dell'oro augustea preconizzata da Virgilio nella quarta 'Ecloga'. Il ritornello è la perfetta traduzione dell'originale "Alme Sol curru nitido diemqui / Promis et celas aliusque et idem / Nasceris possis nihil Urbe Roma / Visere maius", e sempre regolarmente in latino io ero perciò aduso in gioventù farlo eseguire.

Auguri, Roma nostra cara bella, su cui non brillano più, pro pudor, i raggi dell'Almo Sole apollineo!

*

   I buoni selvaggi di Montaigne

   I Giorni della Memoria non passano mai, ed è bene così, Ma ogni giorno mi aspetto invano notizia di un Giorno  dedicato ai milioni e milioni di morti ammazzati dal compagno Stalin, o dal compagno Mao, o ai milioni e milioni di morti fatti dai conquistadores, ai milioni e milioni di morti fatti dai mercanti di schiavi (o magari, perché no, alle  atrocità commesse da Giosuè, e testimoniate dalla stessa Bibbia, nella conquista della ‘Terra promessa’, per non dire di tutte le altre perpetrate dai grandi Condottieri in ogni tempo e in ogni latitudine). Niente da fare, attesa vana. Mi rifugio in Montaigne.

   Sì, per riposarmi, soprattutto dalle trasmissioni terroristico-ansiogene dedicate al movid e al suo muoversi nel mondo, e alle vergognose vicende mercantili ad esso intorno ruotanti, nulla di meglio che rifugiarsi e rituffarsi per l’ennesima volta negli Essais montaigniani (la cui saggezza, la cui ironia, il cui sereno disincanto, il cui pacato pessimismo rappresentano l’antidoto più efficace contro le tentazioni di depressione perennemente in agguato) che stanno sempre, inamovibili, sul mio tavolo di lavoro in compagnia dei numerosi altri classici del cuore antichi e moderni di cui i miei amici lettori dovrebbero ormai essere essi pure confidenti. E aprendo a caso a pagina 1151 (Libro III cap. V ‘ove si dice di alcuni versi di Virgilio’, trovo un ritaglio di terza pagina del Corriere della Sera datato domenica 19 Aprile 1992 in cui Giovanni Macchia, forse il più grande francesista umanista che abbiamo avuto, scrive un articolo anch’esso di memoria dedicato, in occasione del quinto centenario della scoperta dell’America, a Montaigne e ai suoi “buoni selvaggi”. Ed io qui, per ammazzare, come suol dirsi, il tempo - cui io aggiungo: aspettando di essere dal tempo ammazzato - richiamato dall’odor di bruciato che invade non solo le mie stanze ma, immagino, tutto il palazzo (si tratta del mio parco pasto regolarmente dimenticato sui fornelli), spalancate le finestre, nonostante che Persefone abbia ripreso le vie dell’Ade per affrettarsi a scaldare il letto a Pluto, e faccia un freddo cane, corro a copiarlo. E mi rigodo dopo tanto tempo anche l’insigne Giovanni Macchia, che ebbi docente, e per un poco collega, all’Università, e forse anche qualche lettore se lo godrà grazie a me.

  

   “Anniversari. Il grande umanista francese moriva un secolo dopo la scoperta dell’America. I buoni selvaggi di Montaigne. Il fascino del Mondo Nuovo e gli orrori della ‘Conquista’ cristiana.

 

    “Montaigne morì nel settembre 1592, cent’anni dopo la scoperta dell’America, e noi in questi mesi ci troviamo contemporaneamente a celebrare un avvenimento così clamoroso e la scomparsa di un modesto signore di provincia, che spirò tranquillamente nel suo letto, mentre nella sua camera si diceva una messa, e spirò, sembra, al momento dell’elevazione.

   Un tale accostamento, dovuto ai capricci della storia, avrebbe fatto piacere al grande umanista. Egli si era nutrito per tutta la vita di libri, che gli avevano insegnato cosa erano state le civiltà del passato. Ma aveva anche molto badato a quel mondo nuovo. L’aveva guardato con gli occhi degli altri, di coloro che lo avevano descritto, e l’aveva anche sognato con i colori della fantasia, ed era divenuto uno dei grandi temi della sua vita. Egli sentì che quel continente rappresentava la giovinezza del mondo. E un vento fresco entrò nella sua libreria, per insegnargli che la nostra madre terra era ancora capace di offrirci una immagine di forza, di limpida luce, non ancora oscurata dalla corruzione della storia.

   Si chiedeva se quel mondo di cui nessuna Sibilla aveva mai parlato fosse davvero l’ultimo. E cominciava ad argomentare che non era tanto distante il giorno in cui il nostro universo sarebbe stato preso da paralisi. Il continente nuovo aveva aperto gli occhi alla luce quando il nostro stava forse per chiuderli. Ma, per saperne di più su quelle genti, non bastavano i libri e le relazioni dei viaggiatori, che pur conosceva.  Chi scrive non racconta le cose come sono, ma le modifica o le maschera per dar credito alla sua opinione e, per convincere gli altri, aggiunge volentieri qualcosa alla materia originale, e l’allunga e l’amplifica. Egli non di colti viaggiatori o di topografi aveva bisogno, ma di uomini semplici. E deve destare chissà quale curiosità in casa di Montaigne l’arrivo di un uomo semplice e rozzo che era vissuto dieci o dodici anni in Brasile ove era sbarcato il protestante Villegagnon. Non potendo partire verso il Nuovo Mondo Montaigne si portò così il nuovo mondo in casa. E non può non colpire la nostra immaginazione la scena in cui quell’uomo si aggirava nella libreria di casa Montaigne, tra autori di cui non conosceva neanche il nome, e il padrone di casa lo interrogava ansiosamente, dando più valore alle sue parole che a quelle di Platone, quando parlava dell’immensa Atlantide.

   Poiché dunque la parola scritta non è il luogo della verità, Montaigne assume la parte del moderno intervistatore. Non vuole idee, vuole informazioni. Ed è felice qu8ando il suo uomo gli presenta marinai e mercanti che aveva conosciuto nel suo viaggio. Ma, preso da non so quale sete di notizie, non accontentava di quelle informazioni, ed altre desiderava averne. E si recò a Rouen quando seppe che tre ‘selvaggi’ (si era al tempo di re Carlo IX, ancora fanciullo) erano giunti in quella città. E sta lì, ad osservarli, con pietà e commiserazione., non ignorando quanto sarebbe costata alla loro tranquillità e alla loro felicità la conoscenza di noi europei. A chi chiedeva a quei ‘selvaggi’ che cosa avessero trovato di più ammirevole nella nostra civiltà, essi risposero che era molto strano vedere forti uomini barbuti ubbidire ad un fanciullo e uomini sazi fino alla gola vivere con altri dimagriti dalla fame.

   Riuscì finalmente ad avvicinare una figura di notabile che i marinai chiamavano re. Pur aiutato da un interprete, non riuscì a farsi capire, meno quando chiese quali vantaggi egli avesse avuto dall’essere un capo. Null’altro – rispose se non marciare dinnanzi a tutti durante un combattimento. Fuori della guerra la sua autorità era finita.

   Tacito, nella Germania, non nascose le virtù dei popoli, il loro coraggio, la loro fedeltà coniugale, ma in quegli elogi c’era come un avvertimento, un misto di attesa e di pericolo per l’avvenire di Roma. E si fermava sulle lotte intestine che dividevano quei popoli come per allontanare il senso di quel pericolo. Nulla di meglio poteva offrire la fortuna se non la discordia dei nemici. In Montaigne la posizione è rovesciata. Siamo noi a rappresentare il pericolo per i buoni selvaggi, noi vecchi civilizzati. Non saranno essi i nostri conquistatori. Siamo noi che portiamo i nostri vizi, le nostre malattie, la nostra fame dell’oro, tra quelle popolazioni che bisognerebbe lasciare imbatte, fuori della evoluzione e dei disastri della storia. L’esistenza di quelle terre lontane rendeva più mobile il suo sguardo che era rimasto fisso a scrutare epoche scomparse, le civiltà di Atene e di Roma. Da una parte si ergevano le vestigia di un mondo distrutto e che nessuno potrà mai rimettere in piedi; dall’altra c’era la vita. Ma quale vita?

   E così allacciando il mito al presente fa una scoperta eccezionale. Forse l’età dell’oro di cui parlano i poeti era esistita. Quei popoli chiamati barbari, in quanto erano stati modellati in scarsa misura dallo spirito umano, molto vicini alla semplicità naturale, erano di quell’età un esempio vivente, ed egli, pur senza muoverai da casa sua, aveva avuto la fortuna di incontrarla nel suo stesso secolo. Erano uno spettacolo straordinario e si rammaricava che Platone e Licurgo non ne avessero avuto conoscenza. Ciò che egli sapeva di quei popoli oltrepassava non soltanto le descrizioni con cui la poesia aveva abbellito l’età dell’oro con tutte le immagini che raffiguravano una condizione felice dell’umanità, ma anche la concezione e il desiderio medesimo della filosofia. La realtà ci offriva ciò che quei grandi non erano neanche riusciti ad immaginare. Egli aveva davanti a sé un popolo nel quale non esisteva, diceva, nessuna sorta di traffici, né conoscenza delle lettere, né scienza dei numeri, nessuna gerarchia politica o contratti di successione, nessuna occupazione se non dilettevole. Questo avrebbe detto a Platone. E nella lingua di questi popoli infine non esistevano parole che significassero menzogna, tradimento, dissimulazione, avarizia, invidia, diffamazione, tutte parole che avrebbero riempito i palcoscenici del teatro tragico europeo e i libri dei moralisti, nella loro terribile scienza dell’uomo.

   Ovidio, relegato nel Ponto, veniva chiamato barbaro dalle popolazioni tra cui viveva perché non capivano quel che diceva: Ciascuno dunque chiama barbaro ciò che non rientra nei propri usi e costumi. Ma Montaigne va oltre. Tende a distruggere il concetto di barbarie e oppone la sua critica a ciò che noi moderni chiamiamo civiltà.

   Quel che di più idilliaco egli scrisse su quei popoli fu ripreso, è noto, da Shakespeare nella Tempesta. Il sognatore, il vecchio utopista Gonzalo, pensa di creare nell’isola disabitata dove la tempesta l’ha gettato, una comunità perfetta, una repubblica eccellente retta sulla legge naturale, ove tutti sono felici. Ma il pensiero di Montaigne allontana ogni utopia. E proprio lui che aveva vissuto tra i fantasmi di una vita eroica irraggiungibile, i fantasmi della Grecia e di Roma, vide la nostra civiltà, nella sua volontà di potenza, esplicare la sua forza soltanto nella distruzione. Aveva guardato le rovine di Roma. Dinanzi a quelle colonne rovesciate come guerrieri sconfitti, aveva congetturato che il mondo, nemico del lungo dominio di Roma, ne aveva fracassato il suo corpo ammirevole. E poiché morto e sfigurato qual era, gli faceva orrore, aveva sepolto la sua stessa rovina.

   Ora assisteva immoto, impotente, alla distruzione di un’altra civiltà di cui aveva intuito la grandezza, e ne fu come ossessionato. In vari luoghi degli Essais, anche quando parla d’altro, accanto ai romani gli accendono la fantasia quei puri e onesti fantasmi barbarici. Aveva fatto di tutto per conoscere le loro poesie, e i loro canti d’amore li trovava belli quanto quelli d’Anacreonte. E se pensava alla noia e ai fastidi che gli avevano arrecato gli incarichi amministrativi che aveva ricoperto, tutto quel pasto disgustoso di atti giudiziari, di verbali, di interrogatori, di deleghe e glosse giuridiche, miseri modelli, secondo l’Ariosto, della moderna Discordia, constatava con sollievo che i popoli del Nuovo Mondo vivevano senza magistrati e senza leggi. Aveva scritto e sognato sulla ‘épouvantable’ magnificenza delle città di Cuzco e di Messico, ma non aveva insistito abbastanza sulla storia, altrettanto ugualmente ‘épouvantable’, della conquista europea. E nella terza e ultima parte del suo libro scrisse su quel tema le pagine più vibranti e coraggiose.

  L’unico atto di ossequio alla sua tradizionale timidezza su quello di celare le sue accuse sotto un titolo futile: le carrozze. È uno dei capitoli più slegati degli Essais, ma dietro quelle carrozze, dietro quel bisogno di fuga che è in noi passando agevolmente da una considerazione all’altra, egli riuscì a scrivere cose che nessuno dei suoi contemporanei, né Jodelle, né Ronsard, né Bodin, aveva denunciato.  E sarebbe stata degna di Voltaire la sua considerazione che la religione non aveva per nulla migliorato la nostra morale e i nostri costumi e che i pagani del Messico e del Perù valevano molto di più dei loro conquistatori.

   La sua prosa, sempre così dimessa, prende accenti della più alta eloquenza. Noi ci siamo serviti, diceva, della loro ignoranza e inesperienza per indurli al tradimento, alla lussuria, alla cupidigia e a ogni sorta d’inumanità, sull’esempio e sul modello dei nostri costumi. “Chi mise mai a tal prezzo – si domandò, e mi servo della traduzione ormai classica di Fausta Garavini, autrice di un bellissimo libro su Montaigne uscito recentemente presso il Mulino – l’utilità del commercio e dei traffici? Tante città rase al suolo, tante popolazioni sterminate, tanti milioni di uomini passati a fil di spada, e la più bella e ricca parte del mondo sconvolta per il commercio delle perle e del pepe! Vili vittorie”.

   I discorsi che gli Spagnoli rivolgevano ai popoli che volevano sottomettere, bene dissimulando sotto la loro alta munificenza i fini vergognosi che perseguivano, sono degni di un capolavoro contemporaneo: La Satyre Ménippée. Anche il Papa era dalla loro parte, e Montaigne non ha alcun timore di asserirlo. E si lancia contro il capo della Cristianità che in una sua bolla aveva accordato agli Spagnoli il diritto assoluto sulla libertà e sulla vita delle popolazioni delle Indie Occidentali e aveva riconosciuto il loro diritto di proprietà su tutte le terre conquistate.

   Negli Essais il nome di Cristoforo Colombo non compare. Ma nel processo che (leggo nei giornali) sarà celebrato il 12 settembre prossimo nel Minnesota contro l’Ammiraglio per ben dieci reati, che vanno dal genocidio al saccheggio, dal sequestro di persona allo stupro, se verranno allegate anche le opinioni dei grandi scrittori, l’imputato non avrà certo in Montaigne un suo difensore. E non sarà dalla parte di Colombo neanche un altro grande scrittore francese: il parigino Baudelaire.

   Nel suo violento antiamericanismo Baudelaire, che pure non amava Rousseau, organizzò un’appassionata difesa del selvaggio. Se dalla parte del selvaggio c’era, secondo lui, il sangue (con la protezione degli antichi retaggi dell’onore, del coraggio, del dovere), dalla parte dell’uomo civile c’è l’oro. L’uomo civile inventa la filosofia del progresso, per consolarsi della sua abdicazione, mentre l’uomo selvaggio, sposo temuto e rispettato, poeta delle ore melanconiche in cui il sole declinante invita a cantare il passato, sfiorava ii confini dell’ideale. Per Tocqueville l’America era l’Avvenire. Ma quale? Non una nazione il poeta colpiva, ma un sistema, una filosofia, un’economia, una cultura. E per Baudelaire l’industrialismo, che in modi infiniti scorreva lungo un’idea illimitata di progresso, era una forma di autodistruzione”.

_________________

    Chàirete Dàimones!

   Laudati sieno gli dei, e magnificata da tutti viventi la infinita, semplicissima, unissima, altissima et absolutissima causa, principio et uno (Bruno Nolano)

   Gelobt seist Du jederzeit, Frau Musika!

 

 

 
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