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Napoleone nel "Giudizio universale" di Papini. "Il ragazzo del Risciņ" di Guo Wenjing

Post n°1082 pubblicato il 11 Maggio 2021 da giuliosforza

992      

  Come mio modesto contributo al ricordo di Bonaparte nel duecentesimo anniversario della morte, all’Uomo nel quale Dio“volle / del Creator suo Spirito / più vasta orma stampar” (Manzoni, 5 Maggio); a Colui “qui plus grand que César, plus grand même que Rome / absorbe dans son sort le sort du genre humain” (cito a mente da non ricordo quale poesia di Victor Hugo, che ebbe per Napoleone I il Grande tanta ammirazione quanto odio e disprezzo nutrì per il nipote Luigi Napoleone III, che lo obbligò all’esilio e contro il quale  si vendicò scrivendo il famoso pamphlet ‘Napoléon le petit’) riporto le pagine, sempre originali e vivaci e sempre provocatorie, come è nel suo stile, che Papini dedica al Corso nel suo incompiuto e postumo ‘Giudizio Universale’ (Mondadori 1966, pp.239-241) dalle quali il Personaggio Napoleone  emerge in tutta la sua complessità.

   “Angelo (giudicante):

   “Tu fosti il più grande capitano di eserciti dei tuoi tempi e uno de’ più famosi conquistatori d’ogni tempo. Molti videro in te un altro e maggiore Alessandro, qualcuno ti giudicò, invece, un battistrada dell’Anticristo.

   Ma dopo aver messo in moto e in lotta e in soggezione tutti i popoli, dopo aver sacrificato tante vite, ispirati innumerevoli amori, furori e terrori, del tuo turbinoso passaggio sulla terra non rimasero che fumacchi di sconfitte e fumosità di orgogli.

   Napoleone:

   Rimase una visione di gloria e un bisogno di grandezza. Le generazioni venute dopo di me non seppero e non vollero dimenticarmi; sulla mia vita furono scritte, in tutte le lingue del mondo, centinaia di migliaia di libri. Quando un semplice mortale ha saputo lasciare una tal fame di ricordo nei cuori degli uomini è segno ch’essi sentono di essere suoi debitori. Io smunsi i loro averi e li condussi a morire eppure molti di essi mi amarono appassionatamente fino all’ultimo e infiniti altri, dopo la mia morte, mi ammirarono, furono attratti dal mio nome e dalle mie gesta e le immagini della mia vita esaltarono in essi fantasia e volontà. S’io fossi stato soltanto un decimatore di giovani, un massacratore di folle, un usurpatore ciarlatano gli uomini mi avrebbero subito odiato e presto dimenticato. Essi hanno sentito, anche quando non potevano è sperare né temer più nulla da me, ch’io rappresentavo miti e principî cari al pensiero del genere umano: la gioventù vittoriosa di Alessandro, l’unità europea di Augusto e di Carlomagno, l’impero di giustizia e l’uguaglianza della Rivoluzione, la rivincita del genio sconvolgitore sui vecchi schemi, sui vecchi regimi, sui vecchi generali e i vecchi monarchi. E per tutto questo, nonostante che io abbia dissanguato tanti popoli, fui amato e adorato da quelli stessi che incalzavo verso la morte.

   Anche il mio cuore si turbava quando percorrevo, il giorno dopo, i campi di battaglia, tra i cadaveri degli uccisi e i gemiti dei moribondi. Ma pensavo che l’unica via che s’apre ai piccoli e agli oscuri di partecipare alla grandezza è quella di offrire oro, sangue e vita per le grandi idee e le grandi imprese. Quelli che inorridiscono all’idea degli uomini considerati carne da cannone non pensano che la maggior parte dell’umanità non è altro, per colpa di tutti, se non carne da fatica, da latrina e da bordello.

   Non nego le mie colpe, non rifiuto le mie responsabilità. La mia frenetica passione di gloria, la mia ambizione di sterminato impero, la mia pertinace volontà di comandare, di signoreggiare, di rifare e di vincere, il mio disprezzo per l’armento umano e per coloro che rappresentavano il potere spirituale, la mia indifferenza, la mia simulazione, la mia crudeltà furon tali che soltanto la divina generosità del mio Creatore potrà comprenderle e forse perdonarle.

   Ma già sulla terra ebbi una punizione ch’io non potevo immaginare, allora, più dura e severa. Una paradossale vendetta volle far sì ch’io ottenessi nella storia degli uomini tutto l’opposto di quel che avevo sognato e voluto.

   M’ero proposto di ricostruire l’impero dei Cesari e di Carlo Magno, cioè l’unità europea che mi pareva gradino necessario verso l’unità del pianeta, e invece suscitai e promossi le passioni di indipendenza nazionale. Volli esser l’apostolo armato della Rivoluzione e invece nei più nobili popoli del continente: Grecia, Italia, Spagna e Germania. Mi proposi di abbattere la potenza piratesca della piratesca e mercantesca Inghilterra e dovetti lasciarla più potente che mai, mentre agonizzavo nelle mani di aguzzini inglesi.

   Volli esser l’apostolo armato della Rivoluzione e invece, dopo la mia caduta, prevalse per lunghi anni la Santa Alleanza, cioè la restaurazione del vecchio despotismo e la reazione contro i principi che avevano trionfato nella mia anima giovanile.

   Desiderai di fondare una nuova e duratura dinastia ma l’unico figlio morì oscuramente, senza avere regnato, nelle mani dei miei nemici e quel mio nipote che riuscì un momento a risollevare le mie aquile e a diventar padrone della Francia fu travolto dalla disfatta e morì in esilio.

   In me si videro riunite quelle grandezze che di rado vanno insieme: grandezza d’intelletto, grandezza di volontà, grandezza di fortuna, di potere, di fama. Eppure dopo tante vittorie, dopo tanti sacrifici, dopo tante imprese e tante glorie, dopo aver mosso e commosso metà della terra abitata dovetti confessare a me stesso, laggiù nella remota prigione oceanica, ch’io ero soltanto, alla fine un fallito e un vinto. Un uomo che era riuscito soltanto a ottenere il contrario di quel che l’anima sua aveva vagheggiato e agognato. Il succo di tutte le mie gesta, che pure sembrarono meravigliose, è questo: la piccolezza dei grandi, la sconfitta dei vittoriosi, la miseria dei conquistatori, l’impotenza dei potenti. E Dio mi volle, forse, grande e infelice perché fossi un ammonimento e un castigo per gli uomini”.

   Qui il Papini ‘convertito’ ad un radicale suo personalissimo fondamentalismo ‘cattolico’, fa terminare la confessione di Napoleone di fronte all’angelo giudicatore. Ma si tratta di una confessione, caro il mio Papini, che Napoleone, che aveva il senso della storia, e sapeva che la storia ha tempi lunghi, talvolta lunghissimi, non avrebbe mai fatto, almeno nella sua integralità: Napoleone sapeva d’aver svegliato  l’Europa e il mondo dal loro secolare torpore, che il risveglio politico e culturale delle nazioni era  la premessa necessaria per una eventuale unificazione dell’Europa e del mondo che non fosse un affastellamento senza senso, un mucchio, un puro ‘coudoiement’, come avrebbe detto il mio Maestro Gabriel Marcel, una massificazione globalizzante e disumanizzante, come avviene in una qualsivoglia società, dalla più piccola alla più grande, i cui membri non siano prima maturati, come ‘in-dividui’, in scienza e coscienza, in Conoscenza e Cultura. E era cosciente, Napoleone, di aver dato uno scossone da sisma cosmico alla secolare potenza e prepotenza albionica, come poi la storia dei due scoli successivi avrebbe dimostrato (Wellington a Waterloo vinse una fortunosa battaglia, non la Guerra). Si può essere grandi condottieri e grandi uomini insieme? Si è mai avuta grande rivoluzione ‘sine sanguinis effusione’? (Paolo scrive ‘remissio’, mai i due termini sono in più di un senso controvertibili). Non sembra esser la guerra una terribile legge di natura, non solo della natura umana? Si può essere efferati e insieme amare sconfinatamente, e ai suoi luoghi umilmente pellegrinare, l’uomo più pacifico e pacifista del mondo, Jean-Jacques Rousseau? Si può riportare alla luce intere civiltà, come quella egiziana, creare un codice più illuminato di quello giustinianeo, posseder una immensa biblioteca …itinerante come i suoi eserciti, si può avere, prima dell’autoincoronazione, la stima incondizionata del Gigante autore dell’Eroica, ed essere un tiranno oscurantista? Si può sconvolgere le sterili maggiatiche dell’Europa e del mondo, seminare semente LEF (leggi ‘Légalité Égalité Fraternité’) senza di lui destinata a rimanere a marcire negli scantinati di una Francia a quel punto inutilmente rivoluzionaria? Domande, domande, sempre più domande. E la domanda definitiva: fu vera gloria? Manzoni affidò nella stessa Ode ‘ai posteri l’ardua sentenza’. Noi siamo di due secoli oggi posteri, ma la risposta è ancora, come due secoli fa, controversa, se non contraddittoria: immenso Uomo e Condottiero Napoleone per gli uni, immenso criminale per gli altri. E, c’è da giurarlo, sempre ardua la risposta resterà nei secoli a venire. Da quale parte io, con qualche riserva, stia, non ha importanza. Ma non è difficile intuirlo. E ancor meglio lo si intuirebbe se avessi la faccia tosta e l’impudenza di ripubblicare qui, provocando l’ira di molti miei amici, i due sonetti in francese che in lode del Corso scrissi davanti alla sua tomba nella Cappella dell’Hotel des Invalides tanti anni fa con l’esuberanza dei giovani, ai quali tutto si perdona. Una cosa è certa: Napoleone continua e continuerà ad essere un Signum contradictionis, come dei grandi Rivoluzionari fu e fu detto. Più segno di grandezza e di gloria di questo?

*           

   “Guida TV

   Il ragazzo del risciò

   In onda Il ragazzo del risciò (Luotuo Xiangz), opera del compositore cinese Guo Wenjing registrata al Teatro Regio di Torino nel settembre 2015 per il Festival MiTo SettembreMusica, commissionata dal National Centre for the Performing Arts di Pechino ed eseguita in prima mondiale a Pechino il 25 giugno 2014 nell’ambito del 2014 NCPA World Opera Forum. Leggo nella presentazione: “L’opera in due atti, su libretto di Xu Ying, è tratta dall’omonimo romanzo di Lao She (1899-1966), uno dei massimi rappresentanti della letteratura cinese moderna. Il protagonista è Xiangzi, un ragazzo di campagna giunto a Pechino all’inizio del 1900 in cerca di fortuna. Il suo obiettivo è avere un risciò tutto suo; nonostante la sua buona volontà e il duro lavoro, la guerra, i rovesci della fortuna e una società dura governata dal denaro capovolgeranno i suoi progetti. Pechino, la città «sporca, bella, decadente, vivace, caotica» fa da sfondo non casuale alla storia, vibrando di una vita che pare partecipare alle sofferenze degli umili: «L’unico amico che Xiangzi aveva, era questa antica città». Punto centrale della drammaturgia dell’opera è il rapporto tra Xiangzi e il suo veicolo, con il quale il protagonista intrattiene un legame quasi viscerale: i due si muovono dentro un gigantesco affresco, cupo e senza speranza. Il risciò è simbolo di anelata libertà ed è, nel contempo, giogo crudele: il servo vuole affrancarsi dal proprio padrone ma è, in qualche modo, vinto dall’oggetto del suo sogno. Questo perché, in una società dai rapporti così iniqui, ai più miseri e deboli non è neanche consentito sognare. Autore della partitura è il compositore Guo Wenjing. Nato a Sichuan nel 1956, Wenjing si è formato presso il Conservatorio di Pechino decidendo, a differenza di altri suoi illustri colleghi quali Tan Dun, Chen Yi o Zhou Long, di vivere e lavorare in Cina. Tra i suoi lavori spicca Chou Kong Shan (Montagna mesta e desolata), un concerto per flauto cinese di bambù e orchestra, eseguito per la prima volta dall’Orchestra Sinfonica di Göteborg in Svezia con la direzione di Neeme Järvi; Sound from Tibet (2001) per ensemble di strumenti cinesi e occidentali e il Concerto per ehru, il tradizionale violino cinese a due corde, commissione congiunta dell’Orchestra Sinfonica di Singapore e della Radio Bavarese, eseguito anche nell’importante festival di musica contemporanea ‘Musica Viva’ di Monaco. Proprio il gusto per la contaminazione caratterizza il percorso artistico di Wenjing, teso a rinnovare il linguaggio musica”.

   La mia impressione è che di nessuna contaminazione né di nessun rinnovamento del linguaggio musicale si tratti. Di gradevole musica occidentale pura e semplice si tratta, e senza la specificità del racconto, dei protagonisti, dei costumi, delle scenografie, vedendo l’Opera rappresentata in uno dei nostri teatri non avrei proprio saputo immaginarla come cinese. Forse è un mio limite.

 

 
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