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Riflessione filosofico-poetico-musicale

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quiete alcionia. Vittorio Peruzzi. Jochum dirige Bruckner ed altro

Post n°1152 pubblicato il 19 Dicembre 2022 da giuliosforza

 

 

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   Bello bello bello perché buio buio buio temporalesco poi piovoso poi piovigginoso senza tregua senza tregua senza tregua questo 3 di Dicembre.

   Stanco dell’anacronistico sole novembrino mi possiede un’Attesa da iniziato. Bramo di esporre la mia Anima al Sole Mithraico, al Fuoco e al Sole Zarathushtriani dei Giorni della Quiete Alcionia. Che poi essi si sposino a quelli in cui da una Capanna di Giudea tre Magi-Maghi Zaratushtriani videro dal loro Oriente un altro Fuoco accendersi un altro Sole spuntare non fa che rendere più intensa l’Attesa della più agognabile delle Estasi.

   M’appresto ad ardere di mistico Sole di mistico Fuoco al mistico Solstizio d’Inverno.

   (Per scrivere queste quattro cavolate senza virgole ho impiegato tre ore). 

   Alcuni dei compiacenti commenti:

   Marco Bertelli:

   Tre ore non sprecate 

   Anna Fonio:

   Benedette cavolate

   Lorenzo Fortunati:

   Amen

   Paola Margutti:

   E dopo le tue parole maestro …tanta luce dentro e fuori di me! 

   Angela Simonetti:

   Stupendo...come sempre

*  

   Bebi ha pubblicato due poesie di Vittorio Peruzzi in dialetto vivarese tratte dal volume Sòle ranena e pennecchie, del quale io scrissi l’introduzione, da lui stesso curato-.

   Questo il mio commento:

   “La vis 'poietica' (leggi creativa'), l'ingegno polimorfo, l'elaborato linguaggio 'iuaranu' classico ormai nella prassi purtroppo perduto ed 'involgarito', la perfezione ritmica fanno della poesia dialettale dell'amatissimo, compianto e mai abbastanza celebrato Vittorio Peruzzi, un 'unicum' nella storia della poesia dialettale italiana. Il grande merito di averci creduto va in massima parte al nostro generale Bebi, anch'egli squisito poeta, che alla vera e propria traduzione (compito arduo) e al commento della vasta opera di Vittorio ha dedicato anni ed ingegno”.

*

   A rasserenarmi oggi una deliziosa donizettiana Fille du Régiment la mattina, un Rock Hudson al suo meglio al pomeriggio nel film Lo sport preferito dalle donne. La Fille soprattutto mi godo, perché la prima volta che l’ascolto in francese, e per il cast nel quale figura nel ruolo di protagonista quel prodigio vocale rappresentato dal peruviano Juan Diego Lopez, per il quale i numerosi do di petto della partitura non sono di certo un problema, e risultano di una naturalezza e purezza cristalline.

   Poi c’è stato Eugen Jochum a dirigere Bruchner e a dire della sua vita e della sua opera.

   Jochum dirige da dio la Nona Sinfonia dedicata confidenzialmente « dem Lieben Gott », all’amato Dio;   perché a Bruckner egli somiglia nella vita e nell’opera e nella concezione musicale, e con lui condivide la profonda spiritualità e il profondo sentimento del sacro. Io che non sempre amai Brucker, in vecchiaia mi sono con lui riconciliato, per motivi, sia ben chiaro, soprattutto musicali, anche per merito di Jochum, che sa del wagnerismo bruckneriano e con lui lo condivide senza riserve. Il Bruckner da Jochum restituitomi è un Bruckner musico robusto e non il piagnone bigotto  che io gli rimproveravo di essere (o credevo fosse). Fu soprattutto con i Berliner Philarmoniker, di cui fu numerose volte direttore ospite, a riuscirgli di celebrarlo al meglio con esecuzioni rimaste storiche. Sono felice di aver concluso in tempi non sospetti il mio Hymnus an das Leben che apre i Canti di Pan e ritmi del Thiaso con un riferimento al Genio di Ansfelden e al suo Te Deum in do maggiore per coro di quattro voci miste, solisti, orchestra e organo ad libitum, una delle più belle cattedrali vocali innalzate dall’uomo alla Divinità.  

 *  

   Altre trasmissioni degne di nota.

   Innanzitutto il Fidelio, l’unica sofferta Opera lirica di Beethoven, che troppo raramente viene riproposta, nella versione con la terza famosa ouverture. Solo celebrazione dell’amor coniugale da parte di un che vanamente tutta la vita sogna una famiglia? Molto, molto di più. Solo celebrazione della libertà e condanna di ogni assolutismo prevaricante? Molto, molto di più, come viene ben messo in evidenza dal direttore Baremboim, l’uomo dalla quadruplice nazionalità, nell’intervista introduttiva rilasciata al Presidente dell’Accademia di Santa Cecilia Michele Dall’ Ongaro. Per me col Fidelio Beethoven definitivamente esce dal classicismo e si tuffa nel Romanticismo, già implicito in tutta la sua precedente produzione, ma un romanticismo robusto, come quello degli Hegel, dei Fichte, degli Schelling, che fa trapassare la musica dal ruolo di pura motrice di sentimenti a quello di motrice di riflessione. Col Fidelio definitivamente la musica diventa pensante, senza per questo inaridirsi, se mai conferendo ai sentimenti ancor maggiore robustezza.

   Altre trasmissioni degne di nota l’abusatissimo Don Giovanni, e, soprattutto, l’Orfeo ed Euridice monteverdiano, il capolavoro che apre al melodramma nuove stagioni inaugurando l’epoca che Gabriel Marcel chiama dell’Inglobant, l’atmosfera che scopre “des champs nouveaux d’expérience et de méditation où peut-être il sera possible de recueillir un jour le éléments d’une Mystique et, qui sait, d’une sagesse”. Marcel, il filosofo su cui mi laureai e col quale mantenni un lungo rapporto epistolare, nell’introduzione a Présence et Importalité scrive: “Le mythe d’Orphée et d’Euridice est au coeur même de mon Existence”. Affermazione che io, nella prefazione alla mia tesi di laurea, stampata poi col titolo di Metaproblematico e Pedagogia. Motivi marceliani, io commentai:

   “L’Orfeo che è nel cuore stesso dell’esistenza di Marcel deve chiaramente individuarsi nell’Orfeo metaproblematico della più genuina tradizione misterica: l’Orfeo che vivo scende nel regno dei morti e vivo ne torna (risolve cioè il tempo nell’eternità): l’Orpheus orphanòs, ‘solo’, ‘privo’, figlio di Ỏiagros, ‘colui che vaga nella solitudine dei campi’; il cantore solitario che sulle rive dell’Ebro, nella patrie regioni tracie, effonde la sua pena cantando, commuove col canto le fiere e soggioga la natura inanimata (funzione educativa, etica, dell’arte e della musica in particolare); l’Orfeo che il dolore trasfigura in melodia e la melodia in puro spirito, la cui morte è tenue dissolvenza e naturale trapasso ad una eternità già conquistata nel tempo. Non l’Orfeo misogino straziato dalle Menadi, dunque, ma l’Iniziato destinato a diventare il simbolo dell’uomo che lascia bruciare la propria materia, il tempo, dal fuoco interiore.

   “Nella delicata leggenda di Orfeo sono illuminati i tratti della personalità marceliana, nella quale assumono risalto le qualità di cantore e di musico poeta che recupera alla riflessione filosofica in termini di linguaggio d’arte ed all’esercizio estetico in termini di riflessione contenuti nuovi e, di conseguenza, motivi e principi nuovi alla ricerca pedagogica. Matrice di una pedagogia più ‘umana’ ritiene Marcel la dottrina dell’Inglobant. Essa è in grado di rivelarci un mondo di realtà spirituali attingibili, ‘sperimentabili’, con sensi diversi: mondo spirituale ove la materia stessa è immersa, sfera infuocata di cui le cose son prigioniere, realtà plus habens aperta alla comunicazione delle realtà tangibili minus habentes. Essa è la dottrina della comunicazione orfica del tempo con l’eternità, possibile per quel fenomeno chiamato da Marcel intuizione accecata o ‘ riflessione alla seconda potenza’ che è in grado di condurre senza mediazioni al centro stesso dell’essere, all’anima riposta della realtà: strada al noumeno, dunque, vietata alla ragione oggettivante” (Metaproblematico e Pedagogia. Motivi marceliani, la Goliardica editrice, Roma 1978, pp. 24-25).

   L’Orfeo ed Euridice monteverdiano oggi tutte queste considerazioni mi rievocano e confermano. Trovo nell’Orfeo del Cremonese una anticipatrice suggestione “metaproblematica” che ogni dualismo metafisico risolve nella concezione unificatrice di una immanente sacralità della vita e del mondo, della vita nel mondo, visti e vissuti sub specie aeternitatis.

*

   Così è (se vi pare). Un Pirandello che i nostri grandi classici attori degli anni Cinquanta ci sanno restituire in tutta sua potenza drammatica.

   La Fiaccola sotto il moggio.

   Di questo dramma, che si svolge tutto ad Anversa degli Abruzzi sulle rive del Sagittario che scende precipite tra le gole di Scanno, che dire di più di quanto ne dice l’Autore stesso: essere la perfetta delle sue tragedie? Per quanto mi riguarda la colloco al secondo posto,  dopo la Figlia di Iorio e prima della Francesca da Rimini. Ma che senso ha fare classifiche di capolavori?

   La descrizione degli ultimi istanti di una stirpe, i Di Sangro, vissuta direttamente dal Poeta con la solita partecipazione emotiva affidata ad un linguaggio raffinatissimo che non ha pari in tutta la storia del farsi del nostro idioma, ti afferra e ti coinvolge facendoti co-protagonista di una vicenda che è anche metafora di decadenza di un’epoca. Chi scenda da Scanno ed entri in Anversa, come in Cocullo e in Luco, i due altri luoghi evocati, respira ancora l’atmosfera che nella tragedia si respira e si interiorizza. E s’avverte egli stesso come un Di Sangro.

*

Festa dell'Immacolata

   Ricordate, miei cari Metanoetici, il bel mottetto a quattro voci dispari di Lorenzo Perosi (il Pierluigi da Palestrina e il Vivaldi insieme - per le tribolate vicende della sua vita e non solo - dei nostri giorni) " Neve non tocca"? Lo intono e suono nostalgicamente per voi e con voi sul mio piccolo Farfisa romano, essendo quello grande ad oziare al Frainile (ma so che un coro invisibile d'angeli musicanti oggi vi si aduna a celebrare suonando e cantando).

"Neve non tocca la tua veste appare,

cingi una zona del color del mare.

E a Quei che a tanta altezza t'ha levata

volgi gli occhi soavi, o Immacolata.

Più te contemplo, e dal caduco limo

più libero mi sento, E MI SUBLIMO.

_______________

 

Chàirete dàimones

 

 
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