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Sono stato all'Inferno: il P. S. del Policlinico Umberto I di Roma.

Post n°1155 pubblicato il 29 Gennaio 2023 da giuliosforza

1054.

   Da ‘DIS-INCANTI. DIANOIE METANOIE PARANOIE D’UN VEGLIARDO DIARISTA VIRTUALE.   

   ORA SO COSA È L’INFERNO. CI SONO STATO IERI DALLE 03 ALLE 21: È IL P. S. DEL ‘POLICLINICO’ UMBERTO I DI ROMA.

   Mi sveglio intorno alle 02 col muscolo cardiaco in preda al solito periodico parossismo, e con un acuto dolore intermittente all’avambraccio destro, quello del melanoma. Potrebbe trattarsi di segnali d’infarto. E così io, che non mi sento ancora pronto per la barca di Caron dimonio con occhi di bragia e per il V Cerchio ove la bolgia dei superbi m’attende, io che a livello di hegeliana Ragione non temo quel rituffarsi nel grande magma del Tutto impersonale,  quel naturale ridisciogliersi nelle cose che dicono Morte, ma che a livello di Sensibilità mi sento come tutti (tranne forse l’incosciente ed il mistico, non-cosciente per definizione)  rodere, sì rodere, e pure tanto, quell’io son preso dal panico; e datosi che vanamente, vista l’ora, chiamerei il mio ‘caro’ cardiologo, telefono alla guardia medica la quale, con una voce sonnacchiosa e metallica e monotona come quella di una segreteria telefonica, mi consiglia il 118 e la conseguente ambulanza. No! urlo a me stesso nel silenzio della mia casa vuota colma di Presenze, l’ambulanza no! L’ambulanza mi ricorda quella che da Piazza del Sant’Uffizio (ove un 17 di febbraio, nell’iniziare la annuale ‘peregrinatio bruniana’ in occasione dell’anniversario del Rogo, quella che con un gruppo di allievi ed amici ci conduceva dal Sant’Uffizio d’infausta memoria al Campo il pomeriggio, e al garibaldino -garibaldinesco?- Gianicolo la sera e la notte per cantare e brindare sulla Roma addormentata dei ‘necropompi necrofori e tafei’), colpito nel bel mezzo della concione da improvvisa sincope, mi condusse al vicino antico ospedale di Santo Spirito in Sassia e quindi alla sua dipendenza di Villa Betania presso Villa Doria Pamphilj. Ma ahimé l’ambulanza viene, viene sollecita, con a bordo, lieta inattesa  rasserenatrice sorpresa, una dottoressa carina giovane e gentile che mi presta le prime cure psicologiche e cliniche, e mi chiede a quale ospedale gradirei esser condotto. Ne elenco due o tre sperando di non incappare nel Policlinico, quel grande ormai caoticissimo complesso nato agli inizi del Novecento come un gioiello liberty in una delle zone periferiche allora più verdi di Roma, la stessa dove sorgerà, con gli stessi criteri, negli anni Trenta ‘La Sapienza’, ora ambedue decaduti; ma proprio il Policlinico mi tocca, risulta il più disponibile, dice lei, ed è bene, caro prof (è la prima a non chiamarmi con l’antipatico ‘signore’) debbo rassegnarmi. Sotto un cielo notturno plumbeo popolato di tutti i fantasmi della plurimillenaria storia dell’Urbe, approdo dunque al nosocomio sorto ai primi del Novecento come un vanto dell’Italia unitaria umbertina, ora ridotto, tranne che nel pomposo ingresso neoclassico, a un coacervo di padiglioni più o meno decadenti, fra i quali ogni spazio verde divisorio è sparito, divorato com’è da miriadi di macchine, tante quanti sono i camici bianchi che vedi comparire come spiriti vaganti da ogni anfratto. All’ingresso del P. S. tutto appare insperatamente tranquillo. La dottoressa dell’accoglienza e il personale a lei affiancato si dimostrano di una gentilezza squisita, con sollecitudine e competenza compiono i vari riti dall’accoglienza previsti: registrazione, dichiarazione delle generalità, dialoghi distensivi, misurazione della pressione arteriosa, saturimetria, estrazione del sangue, elettro ed ecocardiogramma, palpazione, nulla viene trascurato ed i responsi sono incoraggianti: per il cardiologo tutto è a posto, posso essere dimesso. Ma perché ciò avvenga (credevo d’essere in paradiso e invece inizia l’inferno) è necessario attendere gli esiti dell’analisi del sangue, in caso di supposto infarto particolarmente laboriosa e lunga. Non potrò essere dimesso prima delle 15-16,30 e dovrò attendere in una delle corsie stracolme o in uno dei lunghi corridoi recuperati alla degenza, sdraiato su una scomodissima poltroncina tipo barberia o studio dentistico, massacrante per lo scheletro disastrato di un novantenne ormai allo sfascio.  È questa poltroncina a toccarmi, risultando i posti di corsia esauriti.  Non mi resta che attendere con stoica pazienza, leggendo alla scarsa luce (emergenza energetica!) qualche pagina delle Historiae Alexandri Magni Macedonis di Quintus Curtius Rufus (BUR  2005, traduzione e cura di Giovanni Porta, 1250 pagine con testo latino a fronte) o del mio amatissimo Giuliano, l’Apostata dico, nel volume di Gore Vidal (Giuliano, Rizzoli 1964, traduzione di Ida Omboni), tutt’altro personaggio, tutt’altro spessore, che ho portato prudentemente con me.

   È a questo punto che comincia il vero inferno.

   Vengo scaraventato, è il verbo giusto, in uno dei corridoi stracolmi di miserabili: ‘quivi sospiri pianti e alti guai’. È quasi l’ora di pranzo. Assumo le medicine previste e m’accingo a consumare il parco pranzo scomodissimamente, non avendo ove poggiare il ‘cabaret’. Divoro d’un fiato il minimo per scongiurare l’ipoglicemia, m’impasticco e tento di chiudere gli occhi per qualche istante. Tentativo inutile. E allora  apro il mio Rufus vistoso e inizio con somma fatica a leggere. Sono appena le tredici e sono lunghe un’eternità le tre ore che mi attendono. Curiosità di degenti e infermieri (di un medico nemmen l’ombra), domande sull’argomento della lettura, sulle mie attività, ho tutta l’aria, si mormora intorno, di un intellettuale (pur se il colbacco di pelle d’orso nero del Canada in quel miserabile contesto potrebbe far pensare più a un cacciatore d’orsi che ad altro) e un intellettuale in quel contesto è per quasi tutti un evento. Sono ancora evidentemente nell’antinferno, nella selva oscura, ma senza leoni lonze e lupe, e le urla dei dannati sono ancora un’eco lontana.

Arrivano le sedici. Ho deciso di dimettermi autonomamente, ma un medico deve firmarmi la lettera di autodimissione e consegnarmi le cartelle cliniche che secondo le mie informazioni son pronte. Sono stanco e spossato, voglio uscire al più presto da questo inferno, ma inizia il fuggi fuggi attorno a me del personale sanitario cui è giunta voce della mia decisione. Ed ha inizio un vero e proprio complotto che non so quando avrà fine. Il medico di turno è irreperibile, è nei reparti, mi si dice, e lei deve necessariamente attendere il cambio di turno delle venti, mi si dice. Una infermiera grassoccia e supponente fa da spalla al medico (medico poi? Un tipo segaligno e allampanato alla Martufello, ma senza l’ingegno comico del simpatico setino o sezzese, che, come un’ombra iettatoria, appare improvvisamente e appena vede me come un’ombra scompare). Per far perdere le mie tracce vengo scarrozzato continuamente da un corridoio all’altro onde far posto, dicono, a nuovi arrivati. Ancora, dunque, quattro ore di questa straziante attesa, di questo straziante, se non fosse comico, gioco a nascondino? Ma se il medico mi fugge io lo rincorro. Non gli do tregua, l’innominato e innominabile (così la sua spalla infermiera locupletata d’abbondante ciccia), deve pur cedere. La stoica sopportazione non mi assiste più, sono ormai sveglio da circa ventidue ore e s’è esaurita la mia riserva di pazienza. Giobbe e Zenone mi abbandonano. Finite le scorte di ‘apàtheia’ e di ‘ataraxìa’. Ora sono un torrente che ha rotto gli argini e infuria attorno. Comincio ad alzare la voce, invoco i miei diritti (sorretto solo dai cenni di consenso dei tanti giovani tirocinanti), minaccio denunce, carabinieri, polizia, lettere alla stampa (ma se fossero tutti, come possibilissimo, conniventi e nel tritacarne finissi io?). Il corridoio è in subbuglio: ecco, vedete (da lontano una voce), è impazzito!

   Verso le 20 l’ombra ricompare e par invochi una tregua. Mi rincuoro. Dice, mentendo per cavarsi d’impaccio e d’impiccio -la direzione potrebbe denunciarlo e licenziarlo?-, che la responsabile del reparto è ora una certa dottoressa che a controlli fatti mi risulta inesistente e, colmo dei colmi, inizia un interrogatorio, le stesse domande che ti fanno quando entri all’accettazione. Incredibile! Ma lei scusi, non s’è accorto che son qui da circa quindici ore? E che mi sono già sottoposto a tutte le ricerche? E che sono stato dichiarato dimissibile? Scherza o fa sul serio? Non sapendo cosa rispondere, o non volendo rispondere riprende il fugone, sparisce e dopo un po’, velocemente come un ladro, deposto il camice ed indossato il cappotto scompare nella penombra da una porta secondaria. Che il buio della notte lo ingoi, e l’uragano che frattanto imperversa sulla città dei Cesari, ora dei mafiosi e dei portaborse, lo trascini nei gorghi del Fiume come me infuriato, e nessun ‘barcarolo’ lo salvi, e nessun menestrello lo canti: non indossa un ‘vecchio frac, non ha un cilindro per cappello, due diamanti per gemelli, un bastone di cristallo, la gardenia nell’occhiello   e sul candido gilet un papillon di seta blu’…

   Alle 21 un miracolo. Alla mia paziente F. ormai come me rassegnata, chiedo, come ultimo tentativo, di affacciarsi alla sala medici a domandar nuove. Incredibile! Dopo qualche minuto F. esce con una gentile dottoressa affranta e meravigliata, dice, per non aver saputo nulla della vicenda: ho iniziato da poco il mio turno, dice, e nessuno m’ha informato di nulla. Chiestami scusa, in pochi minuti recupera le cartelle cliniche, scrive il documento di dimissione all’ordinateur (così amo alla francese, contro l’imperialismo linguistico albionico-yankee, chiamare il computer in omaggio a Blaise Pascal che ne fu il vero inventore qualche secolo fa), che m’avevano bugiardamente detto essere in tilt, lo firmo, mi alzo dalla poltroncina del martirio, e mi godo il…cambio di guardia: una schiera di stressati, ma non quanto me, che velocemente attinge i cancelli del carcere e si tuffa nella notte già fonda della città odiata e diletta. Ha smesso di piovere, ma nessuna stella brilla ancora nel cielo. Ed è freddo finalmente, il freddo che amo, all’approssimarsi dei giorni della merla. La dolce casa mi riapre le sue porte alle 22. E mi rià solitario il vasto letto antico intarsiato, e per la prima volta dopo decenni Morfeo regala al centenario, abituato alle concitate notti di prostatico al più alto livello, un sonno profondo (forse un coma?) ininterrotto fino alle 7,30 di un nuovo, generosità degli Iddii, luminoso Mattino.

   P. S.

   Due giorni per tentar di capire il mistero dello strano comportamento tenuto nei miei confronti dal personale medico e infermieristico al P. S. del Policlinico Umberto I. Un’amica cerca di illuminarmene.    L’ipotesi (ma più che di ipotesi per lei si tratta di certezza) è che in questo periodo di carenza di personale sanitario il governo, per tamponare un po’ gli effetti della crisi, abbia assunto personale medico e infermieristico alla rinfusa, non curandosi della preparazione specifica, culturale e operativa, che la gestione di un P. S. richiede, e lo abbia allettato con compensi a gettone pari a quelli di un parlamentare!

   Vero o no, restano il mio sconcerto e la mia spossatezza, irrecuperabili ed impagabili, nonostante i quali griderò per altro ancora (pazzo d’un Vegliardo impunito!) il mio nicciano-bruniano

   Chàirete Dàimones!

    Laudati sieno gli dei, e magnificata da tutti viventi la infinita, semplicissima, unissima, altissima et absolutissima causa, principio et uno (Bruno Nolano)

   Gelobt seist Du jederzeit, Frau Musika!

   *

 

   Molti sono stati, come era da attendersi, i simpatici commenti a questo racconto. Eccone alcuni:

Emilia Moglioni:

   Caro Giulio,

   Ho letto insieme ad Emilia la tua narrazione della notte trascorsa al Policlinico e devo dire che evidentemente nei momenti di panico e inquietudine dai il meglio di te.

   La descrizione delle vicissitudini che hai vissuto e le citazioni su Dante e Modugno mi hanno tranquillizzato e mi hanno fatto pensare comunque ad un esito positivo della storia infinita, tanto che non fai cenno alcuno della diagnosi finale! Un augurio di un pronto recupero dal marito di Pupa, nonché cognato di Bebbi...il mio nome di battesimo Giorgio è quasi superfluo. 

Giulio Sforza:

   Grazie dottore (avvocato, birbone?) il mio muscolo cardiaco è come un vulcano, sempre, ed imprevedibilmente, pronto ad esplodere. Ora è in quiete, nonostante l'Umberto I!

Cristina Serino:

   Giulio, ho letto la tua odissea in quel del P.S del Policlinico, nonostante le tue vicissitudini, l'importante è che la tua salute fisica e....mentale si siano riprese da un tale...peregrinare. Ti abbraccio Cristina.

 

Paolo Statuti:

   Caro Giulio, per tutta la lettura del tuo thriller ho tenuto il fiato sospeso e poi alla fine ho tirato un sospiro di sollievo, esclamando: grazie al cielo, ne sei uscito vivo!

Paola Margutti:

   Caro, amato Maestro, …ancora un’onirica avventura …reale!!! La tua penna guidata dalla robusta ironia, che ti caratterizza, ti ha salvato da una faticosa esperienza che tuttavia mi spaventa…!!! Sei per noi tuoi figli spirituali un’ancora in questo turbinoso mare del vivere! Grazie per la condivisione! Ti abbraccio con tanto affetto. 

Sabrina Paonessa:

   Sono dispiaciuta della disavventura, ma felice di sentire il suo spirito ribellarsi a tanta assurdità. Un grande abbraccio.

Marco Bertelli:

   Caro prof., sicuramente lei non è pronto per il V cerchio, ma intanto ha sperimentato il limbo, dove "sanza speme vivemo in disìo". A differenza del limbo Dantesco, purtroppo, là dove è stato, non ha potuto riferire di persone di pari "lignaggio" di quelli visti dal Sommo Poeta nel IV dell'inferno. Spero tanto che il suo muscolo cardiaco abbia imparato la lezione, così da astenersi in futuro dal farle qualche scherzo simile.

Giulio Sforza 

   grazie carissimo, che il...Divino continui a tenerle compagnia!

Maria Rita:

   Caro Professore, che avventura assurda!  Abito a poca distanza dall‘Umberto I, avrei organizzato un piccolo esercito e sarei corsa a liberarlo dalle grinfie dei medici incompetenti se avessi saputo! Stia bene, Lei è una forza della Natura.

Leone Lupo:

...e tu, con tutta la tragedia che stavi vivendo, hai trovato le energie e la concentrazione per scrivere tutto questo?? SEI MAGICO !

Giulio Sforza:

   scrivere per me è una necessità, una fatica liberatrice.

Lorenzo Fortunati:

   Vedi che sai farti ispirare anche da una simile vicenda, e ispirare noi!

 

 
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