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Enzo e il serpente

Post n°767 pubblicato il 16 Maggio 2014 da giuliosforza

Post 725

 

 

     Enzo M, detto l’ingegnere, figlio di colui che nel nostro borgo selvaggio  fu l’amico a me più caro in temporibus tribulationum (intendo sì le tribolazioni dell’anima, allora  tragicamente ferita, ma soprattutto le tribolazioni…enogastronomiche dell’Orto della Fonte, della cantina di Palaterra,  del domicilio dell’Ina casa,  dei cantieri di Monte Aguzzo, dei prati del Carecarone, della fattoria di Pontone e di mille altri luoghi); Enzo dunque pubblica su fb la foto di un serpentello (una vipera forse?) acciambellato sulla soglia di casa sua. Conosco quella soglia, Enzo non mente, perciò serio e sincero è il mio commento: ricorda, Enzo, che senza il Serpente e senza Eva la Conoscenza non avrebbe fatto il suo ingresso nel mondo. Eterna gratitudine ad ambedue. Avere la visita a domicilio del Serpente non è un privilegio da poco. Meno serioso il commento di Franco che  a sua volta, con il Witz che lo contraddistingue, maliziosamente chiosa: quindi seguirà presto la visita a domicilio di Eva.

(Enzo è uno scapolo incallito, se non misogino,  alias spregiatore di femmine).

 

*

 

     Terminato di rileggere Dio è nato in esilio di Vintila Horia, uno dei romanzi più semplici e nel contempo più complessi, più rasserenanti e nel contempo più conturbanti, di tutto il Novecento.

Tra le pagine liriche del romanzo  numerose son quelle che meriterebbero di essere condivise. Decido per una che mi consegna un autunno quale a me piace, quello che più di una volta anche su queste pagine descrissi, seppur con meno, o nessuna, arte:  la stagione preferita, perché quella in cui le cose si denudano ed appaiono nella loro essenza verace: la pacata tristezza che la primavera cela dietro una maschera ingannevole di profumi e colori, che l’estate affoga ed affoca nella luce ardente offuscante accecante, che l’inverno congela sotto la sua coltre funerea. L’autunno non inganna e non nasconde. E’ la verità di tutte le cose.

Scrive dunque Horia:

 

     Fa ancora chiaro e scrivo, davanti alla finestra spalancata. Alcune foglie, le prime in quest’anno, cadono nel giardino. Odo il loro lungo fruscio nella brezza mentre si posano. Il vento è calato  e un profondo silenzio regna sulla città. L’autunno conosce questi placidi istanti, nel momento in cui il vento sosta di colpo, come una bestia in agguato, e agli uomini sembra di udire, molto lontano, il passo felpato della neve futura. Sono le più belle giornate dell’anno, piene di colori e di attesa, imbevute di tristezza, piacevoli anche per la calma dolcezza che le anima, che somiglia alla buccia dell’uva, alle noci cadute sull’erba, al colore morato delle prugne, al volo degli uccelli verdi verso il Nilo. Si sente il tempo che passa, ma non se ne ha paura”.

 

*

  

     Da giovanissimo insegnai per alcuni anni, prima di intraprendere la mia modesta carriera universitaria, filosofia e storia in un liceo privato genovese molto elitario ed ebbi modo di verificare in più di una occasione il filisteismo e l’ipocrisia di molte dame impellicciate dell’alta borghesia. Un episodio in particolare ricordo che per certi aspetti fu molto divertente, ma che avrebbe potuto anche nuocere alla mia reputazione. Quella volta la giovanile esuberanza mi fece passare, lo confesso, un poco i limiti. Ma fu proprio ciò a render l’episodio simpaticamente memorabile, ed è perciò che lo narro. E poi in vecchiaia la memoria, contrariamente ai reni, filtra meravigliosamente, e sa trattenere e purificare molto bene ogni eventuale impurità.

La classe, un quinto liceo scientifico, è al primo piano di una antica villa nobiliare già appartenuta ad un Doria, al quale si accede per una ampia e solenne scalinata ricchissima di marmi pregiati e policromi nei gradini nelle colonne e nella balaustrata, e sovrastata da pareti e soffitti finemente affrescati. Bellissima anche l’aula. pur se deturpata dalla sua nuova funzione.

     Sono intento a (s)parlare di Immanuel (non amo il suo fermarsi, come Cartesio, a metà strada, nella sua  “rivoluzione copernicana”) quando vengo chiamato a rispondere al telefono per una comunicazione urgente. Prima di precipitarmi per le scale raccomando ai miei studenti di comportarsi correttamente, da quei bravi e raffinati giovani che sono e di intrattenersi civilmente come farebbero a casa loro.

Non faccio in tempo a raggiungere il piano terra che s’ode uno schiamazzo indiavolato, come di scomposte recrute in libera uscita. Mi volto risalendo a quattro a quattro gli scalini, raggiungo l’aula, ne spalanco violentemente la porta  ed urlo con tutto il fiato che ho in gola agli scalmanati: siete figli di madri o figli di puttane?

All’udire quella parola impronunciabile, gli scalmanati si bloccarono rimanendo nelle loro posizioni come al gioco delle belle statuine ed un gelo calò nell’aula. Come nulla fosse ridiscesi e nemmeno un fiato s’udì fino al mio ritorno.

Magia della parola impronunciabile, soprattutto dalla bocca di un professore.

L’episodio parve finito lì. Ecco invece dopo due o tre giorni il preside chiamarmi perché un gruppo di signore intende parlarmi. Avendo io già tutto rimosso non immagino di cosa si possa trattare. Ma non ho il tempo di salutare (senza essere contraccambiato) che la rappresentante del gruppo inizia con voce impostata: siamo qui, professore, anche a nome di tutte le altre madri, ad esprimerle la nostra indignazione per l’accaduto. Siamo deluse e scandalizzate, da lei proprio non ce lo saremmo aspettato. Cosa non vi sareste aspettato?, chiedo Che lei così volgarmente offendesse noi ed i nostri figli. Afferro finalmente e dopo un momento di perplessità: guardate, dico. che in realtà io vi ho onorato, esigendo dai vostri figli un comportamento adeguato al loro stato di figli di ottima  famiglia ma soprattutto di cotante madri. E la signora:lei non ci abbindola,  esigiamo pubbliche scuse, o chiediamo la sua espulsione.

     La cosa si fa seria e merita un poco di riflessione. E un poco, solo un poco, rifletto (e il mio silenzio forse appare imbarazzo ed un preludio alla  resa) per quasi subito, con calma ostentata, ben spiccicando le parole anzi le sillabe, uscirmene con una frase che una persona sensata mai si sarebbe sognato, in simile circostanza, di pronunciare: ebbene sì, chiederò pubblicamente scusa, ma alle puttane per averle paragonate con certe signore.

Aspettavo il finimondo ma non ci fu. Le signore non si fecero più vive ed io non fui scacciato: l’istituto non avrebbe potuto privarsi impunemente del “mitico” (si scusi  l’immodestia, ma è così che la vox populi studentesca lo proclamava). del mitico professor Sforza,  

Avrei mille altri episodi ancora più esilaranti (esilaranti al filtro del tempo) da narrare. Forse lo farò, se le Moire lo consentiranno.

 

 

 

 
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