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'Agnese' di Ferdinando Paer. 'Chicchignola' di Petrolini. Ancora del 'Trittico' pucciniano

Post n°1133 pubblicato il 25 Luglio 2022 da giuliosforza

 

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   Una vera sorpresa per me, una bella Opera di cui ignoravo persino il nome: Agnese  di Ferdinando Paёr, un’opera semiseria andata in scena in prima rappresentazione moderna al Regio di Torino nel marzo 2019 con la regia di Leo Muscato e la direzione di Diego Fasolis e trasmessa oggi da Rai5.

   Una sorpresa piacevolissima per quanto riguarda la musica, la regia e il testo di Luigi Buonavoglia, e i motivi, che tutti condivido, li lascio esporre a Francesco Bertini, autore della lunga recensione che trascrivo.

   “Ci si interroga con sempre maggiore insistenza sull’importanza storico-musicale di quel periodo impropriamente definito “di transizione” tra la fine del Settecento e l’inizio dell’Ottocento, quando s’impone a livello internazionale l’astro rossiniano. Pochi lustri segnati dall’ascesa repentina e dall’altrettanto rapida caduta di Napoleone. In quegli anni di raccordo, in cui è in realtà ravvisabile una placida continuità, mossa dalle turbolenze politiche, operano numerosi autori che rilevano l’eredità italiana, prima fra tutte dell’illustre scuola napoletana, ma si aprono alla scoperta delle sperimentazioni sinfoniche d’oltralpe. Tra i compositori più attivi è ravvisabile Ferdinando Paër, uno dei migliori esempi della fortuna di cui godono gli operisti italiani nell’Europa d’allora.
   Nato a Parma, in breve tempo Paër diventa direttore musicale al Kärntnertortheater di Vienna, quindi maestro di cappella a Dresda fino a raggiungere il massimo riconoscimento come direttore e compositore della musica privata al servizio di Napoleone che lo nominerà, nel 1813, direttore musicale del Théâtre-Italien, carica mantenuta, con alterne fortune, fino al 1827. A ripercorrere, seppur a grandi passi, una carriera così fulgida ci si chiede come mai una simile personalità artistica, apprezzata dai contemporanei, possa essere stata completamente e ingiustamente dimenticata dai posteri. Sorte purtroppo condivisa da molti colleghi, celebri e onorati in vita ma presto dimenticati per il rapido mutamento dei gusti e del repertorio. Tra le oltre cinquanta partiture liriche composte da Paër, un ruolo particolare è rivestito dall’opera semiseria.         Proprio in questo genere, grazie a una fervida immaginazione e all’abilità di intrecciare elementi di varia natura, il compositore raggiunge i risultati migliori.
   Per l’immediato successo e per la pregevole fattura ne è esempio Agnese: concepito nel 1809 su libretto di Luigi Buonavoglia e su commissione del conte Fabio Scotti, per il suo nuovo teatrino privato appena fuori Parma, il dramma semiserio in due atti unisce alle tematiche amorose, miste ai tratti comici, il tema della pazzia, sul quale in quegli anni gli studi si concentrano con maggiore accuratezza. La critica sociale esibita senza filtri ed evidenziata da uno stato mentale alterato, particolarmente suggestivo e impressivo per il pubblico d’inizio Ottocento, garantisce una completa caratterizzazione, consueta nella pièce à sauvetage con un finale lieto e speranzoso. Dopo un’esecuzione in forma concertante a Lugano nel 2008, ora l’opera è rappresentata per la prima volta in epoca moderna al Teatro Regio di Torino grazie all’edizione critica e all’approfondito lavoro di ricerca di Giuliano Castellani. La possibilità di vedere l’azione consente anche di afferrare l’innovativa portata della vicenda musicata: dall’abbandono del tetto coniugale di Agnese, in fuga dal marito fedifrago, si passa alla pazzia del padre dovuta alla scelta di vita della figlia. Tra questi due ingredienti, particolarmente nuovi e quasi intollerabili nel panorama artistico di inizio Ottocento, s’inserisce da un lato chi mostra una moderna sensibilità verso la situazione e la patologia di Uberto, dall’altro, al contrario, chi fatica ad accettare il comportamento della donna e la possibilità di affrontare con maggiore libertà di vedute la follia.

   Solo con la messinscena può essere tangibilmente compreso il dipanarsi della narrazione. In questo senso si muove efficacemente il lavoro di Leo Muscato, regia, Federica Parolini, scene, Silvia Aymonino, costumi, e Alessandro Verazzi, luci. Lo spettacolo è arguto e ben congegnato: sul palcoscenico sono adagiati dei grandi contenitori, che richiamano i box medici o le scatoline di caramelle, nei quali vengono ricreate ambientazioni collegate alle diverse situazioni e ai vari personaggi. La vivacità coloristica e la possibilità di movimentare lo spazio, con spostamenti e mutazioni frequenti, rende fluido l’allestimento e particolarmente appetibile e chiara una prima esecuzione. Suggestiva l’iniziale realizzazione del bosco, sapientemente ideato con lo sfruttamento di tecniche digitali in grado di rendere la tridimensionalità dello spazio. Altrettanto immaginifiche risultano le varie stanze che in una superficie ristretta offrono un’ideale scenografia nella quale dar vita ai quadri dell’opera. Il lavoro registico contribuisce a sottolineare gli aspetti caratteriali delineati dal libretto. Si manifestano dunque atteggiamenti compulsivi che ci danno la cifra delle problematiche sociali diffuse, spesso erroneamente confinate solo nell’alveo di una dichiarata malattia mentale. Muscato evita soluzioni macchiettistiche e fuorvianti, riuscendo a non calcare troppo la mano, in perfetta sintonia con l’intendo edificante e benevolo dell’opera semiseria.

Assieme al citato Castellani, Diego Fasolis è l’altro artefice della riproposta di Agnese. Il direttore svizzero, già venuto a contatto con la partitura, porta in dote la lunga e approfondita frequentazione dei repertori barocco e classico, diretti antecedenti delle composizioni che s’affacciano timidamente ai seguenti sviluppi romantici. La sua lettura, attenta alle esigenze vocali e al contempo prodiga di colori, valorizza la scrittura di Paër che dal Settecento europeo eredita il gusto per gli impasti orchestrali e per gli strumenti concertanti (in particolare flauto, clarinetto, corno). In questa operazione di recupero e di ricerca delle sonorità più adatte al formulario primo ottocentesco, il direttore è affiancato dall’Orchestra del Teatro Regio capace di affrontare con piena padronanza un repertorio ibrido per certi versi e particolarmente insidioso per la molteplicità di linguaggi adottati. Valido anche l’apporto del Coro istruito da Andrea Secchi. È inoltre ascrivibile al lavoro congiunto di Castellani-Fasolis il recupero di tutto il materiale musicale finora rintracciato: alla versione parmigiana del 1809 sono affiancate le varianti apportate dal compositore stesso per le riprese parigine del 1817 e 1824 (quest’ultima con Giuditta Pasta), nel dettaglio due nuove arie, una per Ernesto, tenore, e una per Agnese, soprano, e un lungo duetto per entrambi. È particolarmente interessante notare, nell’ambito di questa operazione, la modernità di Paër che fa propri ed elabora con personalità gli stilemi rossiniani, ormai indispensabili al favore del pubblico.

   Omogeneo e ben preparato il cast vocale. María Rey-Joly, Agnese, è dotata di uno strumento duttile, capace di affrontare compiutamente le multiformi esigenze espressive del genere semiserio. Il controllo dell’emissione e la padronanza tecnica le consentono di affrontare tanto i temibili passaggi belcantistici (specie nell’aria alternativa), quanto i momenti d’intenso lirismo dove emergono il timbro suadente e la musicalità. Parimenti efficace risulta la prova di Markus Werba. Il ruolo di Uberto offre ampie possibilità interpretative, in particolare per le sfaccettature umane delineate da libretto e musica. Paër adotta spesso il declamato con repentini cambi umorali per tratteggiare appieno il disagio mentale del padre sofferente. Il baritono austriaco padroneggia il fraseggio che acutamente piega alle sfumature emotive per dar corpo alle varie scene di pazzia concepite dall’autore. Ne risulta un personaggio vivo, inserito nell’azione e allo stesso tempo efficace agli occhi dell’uditorio odierno.
    La parte di Ernesto si avvale della vocalità tenorile abbinata al carattere controverso di un marito infedele ma realmente pentito. Edgardo Rocha ha uno strumento cristallino, a proprio agio nelle forme protoromantiche ma ancora fortemente influenzate dal classicismo tardo settecentesco. Al cospetto di una parte che prevede una seppur minima evoluzione interiore, il cantante esprime con convinzione le proprie potenzialità attoriali fa risaltare, attraverso una sicura espressività e una linea canora perlopiù precisa, le peculiarità evidenziate dalla scrittura paeriana.
   La vis comica di Filippo Morace si adatta alla parte buffa di Don Pasquale, pauroso intendente dell’ospedale dei pazzi. L’artista, vero e proprio animale da palcoscenico, tratteggia efficacemente la parte del direttore senza cedere a effetti di dubbio gusto, atti a sollecitare facili consensi. Ne emerge una figura ben delineata, comica ma non caricaturale.
   Efficaci gli apporti di Andrea Giovannini, Don Girolamo, protomedico illuminato che suggerisce nuovi percorsi di cura, e di Lucia Cirillo, Carlotta, figlia di Don Pasquale. Non del tutto inappuntabile la prestazione di Giulia Della Peruta, Vespina, che denota qualche asprezza in zona acuta pur risolvendo la parte con spigliatezza e brio. Completano la compagnia Federico Benetti, il custode dei pazzi, ed Esmeralda Bertini, Una bambina di sei anni, figlia di Agnese.
   Il pubblico, seppur non numeroso, ha seguito con attenzione la recita mostrando di apprezzare, al temine, tutti gli interpreti per quest’attesa prima riscoperta del lavoro di Paër".

 *

   A maggiore mio scorno e a dimostrazione della mia ignoranza (e io che pensavo di aver nella mia lunga vita quasi tutto visto e appreso, e non solo in campo musicale), un “Chicchignola” petroliniano piacevolissimo, di cui ignoravo perfino l’esistenza. Nel ruolo del protagonista Mario Scaccia, uno dei più grandi attori della nostra scena di vecchia scuola, che non è esagerato dire ormai classica, e comprimari all’altezza. Divertentissime, ma come in poche altre pièces comiche anche in grado   di far profondamente pensare, le vicende dei due ‘becchi’ che vicendevolmente si cornificano, ognuno con l’amante dell’altro; e non manca nemmeno il colpo di teatro con Chiccignola che rivela di avere, da parte sua, finto il tutto . Mi sono, ripeto, molto divertito, e ho immaginato cosa avrebbe potuto essere una registrazione originale con Petrolini in persona protagonista.

   E che dire di quel capolavoro, e qui si respira altra aria, rappresentato dal Trittico pucciniano per l’ennesima volta dalla Rai riproposto? Bello il tragico Tabarro, incomparabilmente comico Gianni Schicchi, ma ai limiti del sublime Suor Angelica, che giustamente Giacomo, oltretutto fratello di una suora, riteneva dei tre episodi il suo prediletto. Io mi spingo oltre e dico essere Suor Angelica non solo del Trittico il mio prediletto, ma dell’intera produzione pucciniana, ove altri momenti, seppur meno profondamente, mistici, non mancano. Sarà per un certo tipo di formazione ricevuta (poi rigettata: ma quanto di una formazione ricevuta si può rigettare? Quanto, se non di contenuti, di forma plasmante, di radice, è destinato a permanere?); sarà per il mio innato romanticismo che nessun recuperato Illuminismo è riuscito, né mai riuscirà,  a soffocare, se mai a correggere nelle sue forme più estreme ossianiche; sarà per l’umanissima vicenda narrata, per il modo della narrazione (in essa si danno solo protagoniste suore biancovestite -voci maschili si percepiranno solo nel coro misto finale che accompagna in lontananza la salita di mamma e figlio in cielo - una statua di Madonna riversa a terra sul cui corpo mastodontico la vicenda si snoda, il fantasma del figliolo morto, la sadica principessa zia che reca  ad Angelica freddamente la notizia, il suo scopo essendo solo quello di ottenere una firma di rinuncia all’eredità); sarà per tutto questo che Suor Angelica mi giunge ogni volta nuova e antica, straziante e letificante, terrena e mistica, laicamente mistica e latamente, umanissimamente, ‘religiosa’, immanentisticamente terrestre. La laica ‘religiosità’ pucciniana più che in qualsiasi altra creazione trovo espressa, e profondamente sento di condividerla. Essa mi tocca cuore e mente. Essa mi attraventa violentemente, tragicamente ma liricamente ed estaticamente nell’intimo del Sacro, nell’intimo del Mistero. Come posso non prediligere Suor Angelica?

_________________

  Chàirete Dàimones!

   Laudati sieno gli dei, e magnificata da tutti viventi la infinita, semplicissima, unissima, altissima et absolutissima causa, principio et uno (Bruno Nolano)

 

 

 
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