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Ritorni... Laurea onirica. Il leccio antico. Varia

Post n°1137 pubblicato il 25 Agosto 2022 da giuliosforza

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   Tre appartamenti in uno  

   Si avvicina, come è naturale, ché ogni partire è un iniziare a tornare, il tempo del Ritorno. E rifanno capolino malinconie e turbamenti.

   Mi avrà ancora il sempre verde canoro Frainile, infilerò di nuovo la chiave nella toppa consunta, risuonerò il gigantesco Farfisa, ricontemplerò i mobili rustici, cimeli della mia casa avita, la culla che accolse i miei primi vagiti, la capace cassapanca di compatta rovere che contenne il ricco corredo di mamma, la mia croce intagliata a mano in ricordo  della santa Missione del 1936, i calendari di carta e di stoffa raccolti, con i preziosi manifesti delle mostre di ogni parte d’Europa, nei miei pellegrinari, mi riavranno i noci, i fiori, le ortensie, le lavande, i rosmarini, l’ibiscus, l’oleandro policromo e ingannatore, il timido gelsomino che distribuisce generosamente il suo aroma delicato all’intorno, le mie rose spinose, l’agrigoglio gigante dai mille aculei? Rivedrò…? Ma mentre nel recente passato ad ogni chiusura di porta mi sussultava in petto il cuore e un torrente di lacrime, non sempre trattenuto, premeva dietro le mie pupille antiche che troppo e troppo poco videro, ora mi appresso alla ripartenza con più serenità. Perché non lascerò, mi dico, una, anzi due, case, cambierò solo stanza, mi dico, come si dice colui che s’appresta al trapasso all’Eterno. Lo so che si tratta di una frase abusatissima e perciò me la dovrei vietare. Ma questa volta le conferisco un significato diverso. Cambierò stanza perché casa di Roma e case di Vivaro (quella paterna e quella del Frainile) le sentirò fisicamente una, per cui lo spostamento dall’una all’altra delle tre case sarà realmente un passaggio dall’una all’altra della quindicina di stanze che insieme le compongono. E poi, allargando, non è forse vero che ‘nessun luogo è lontano’, come titola l’altro piccolo capolavoro di quel Richard Bach autore del Gabbiano Jonathan? E un monista panteista come te non dovrebbe sempre tenerlo a mente e ogni luogo dell’universo ritener non-Luogo della tua Anima universa?

   Tranquillo, dunque, mio cuore, riserva ad altro i tuoi residui battiti. Non scordare mai che in te batte il cuore del Tutto. No hai più due miseri ventricoli, ma quindici stanze ove scorre e pulsa il sangue dell’Universo.

*

   Giuro. Dopo questo resoconto del mio ultimo onirico vaneggiamento tacero' a lungo. Il mondo della rete sentirà la mia mancanza, lo so. Ma persino Dio al settimo giorno si riposo', e fu un guaio per l'universo.

Dunque. Ho sognato di rilaurearmi, alla mia età reale, tra lo sconcerto di tutti, con una tesi su me stesso e i miei 'Dis-Incanti. Dianoie metanoie paranoie d'un vegliardo diarista virtuale'. Relatore e correlatore gli stessi di sessanta anni fa, rispettivamente Luigi Volpicelli e il filosofo Paolo Filiasi Carcano duca di Montaltino, opportunamente risvegliati dai loro avelli. Durante la seduta ridevano a crepapelle e mi chiedevano nuove sugli eventi mondani succeduti alla loro dipartita. Io rispondevo con la solita sfrontatezza: all' infuori di me nulla, nihil novi sub sole tranne me. A questo punto scattavano in piedi sogghignando, sogghignando e danzando: e per questa c.ta ci hai strappato a Belzebù? Niente laurea, ti farai rilaureare, se ci riuscirai, da Qualcun altro alla Valle di Josafat. E mi afferravano per i capelli e mi trascinavano con sé impenitente all'Inferno, come fa il Commendatore-Statua di pietra con Don Giovanni nell'omonimo Singspiel mozartiano.

   E sì. Mi succede di vaneggiare anche nel sogno.

*

   Tardo pomeriggio di un 6 di Agosto. Passeggiata al leccio tra i due ponti. Memorie antiche, ormai solo memorie (o presagi?)

Mattino e pomeriggio afosissimi. Cielo plumbeo. Ma non pioggia. Solo cappa di piombo. Ma la cappa di piombo non pesa sul cervello a obnubilarlo o sulla memoria a cancellarla. Anzi. Mentre il borgo impazza tra botti, fuochi d’artificio, rumori assordanti che dicon musiche urlanti dagli altoparlanti, dionisiaci thiasi cui un pur minimo afflato apollineo è alieno, gare ludiche (unica lieta nota tra le insopportabili baraonde festaiole) di bambini in Piazza Nuova, io passeggio solitario nel breve tratto di strada che va da piazza della Peschiera alla ‘Macera Noa’ non più ravvisabile (come più non si ravvisa la sovrastante ‘Roccia del Gufo - anfratto benedetto per solitarie effusioni amorose), e che, dopo Ponte secondo, scorre come un ruscello d’asfalto che la Lacciara antica, già arida terra di semine e pascoli, ora folta macchia riparo a stuoli di cinghiali, sventra, e permea nel seno profondo tra due folti verdi ormai quasi foreste. E, fra un saluto e l’altro ai rari volti antichi e nuovi incrociati, come me promeneurs ma non, alla Rousseau, solitaires, o alla Novalis Wanderer ma non pellegrini a Sais, o alla Heine reisende ma non allo Harz, o alla Hӧlderlin viatori ma non ‘viandanti che ascoltano l’essere’, penso e penso, rammento e rammento.

   L’antico leccio della mia infanzia sta, immortale, ancora lì, fra i due ponticelli indistruttibili di pietra dura splendidamente innalzati da mastri antichi alla foggia classica e sovrastanti gli ormai invisibili – le erbacce li soffocano - torrentelli della Scentella e della Nocchia che a valle si riuniscono per confluire nel fosso del Sesera e poi nel Turano; il leccio sta, solenne più di un monumento, pronto ad affrontare un altro tragico secolo, quello che i mille profeti di sventura (s’è mai visto un profeta che non sia di sventura? Non son le sventure gli eventi più certi e sicuri da prevedere? E i nuovi aruspici lo sanno. E se ne impinguano, e di nascosto ridono: Catone non si meraviglierebbe più “quod non rideret haruspex harupicem cun vidisset”). Sta il leccio antico. Alla sua ombra nei pomeriggi affocati (ben più di adesso, nella mia memoria, affocati), nell’ora che il gran satiro Pan riposa e le sue greggi ammusano negli stazzi fra nenie infinite di cicale, ranocchie, merli acquaroli, noi bambini settenni-decenni ci si dava convegno per giocare ai primi giochi di carte e di sesso, a dis-educarci al quale pensava, con volgare maestria, un appena adolescente sfrontatissimo D.

   Nella mia memoria due sono le ultime (sarei presto partito appena undicenne per il crudele esilio) immagini del leccio antico: nella prima esso è attorniato da camion tedeschi mimetizzati, quasi sepolti, da foreste di rami verdi (una shakespeariana foresta di Birnam in miniatura in attesa di muoversi non verso la vittoria su un Macbeth assassino ed usurpatore ma verso un disastroso destino) in attesa dell’ordine di ritirata, che sarebbe giunto nel primo pomeriggio del 4 giugno allorché la radio avrebbe annunciato l’ingresso dei ‘liberatori’ a Roma mentre i ragazzi della Compagnia del giovane capitano umanista e artista Stopfler danzeranno con la gioventù del luogo, e un silenzio di morte scenderà tutto intorno, e un brivido correrà per l’aria, e fiumi di lacrime scorreranno dall’una e dall’altra parte, e baci e abbracci saluteranno la partenza dei ragazzi della Hitler Jugend che mai più rivedranno le loro case.

   Nella seconda immagine è una grossa serpe rospara che ingolla lentamente, sotto il leccio, come il protagonista de Le veglie di Neri di Renato Fucini alias Neri Tanfucio, il suo rospo quotidiano.

   Due immagini non esaltanti davvero. Tornerò al leccio fra i due ponticelli a evocarne di migliori.

 *

Röslein, meine kleine Liebe, che hai sfidato vittoriosa, per aspettarmi, l'infernale soffocante calura!

*

   Due acquazzoni e son rifiorite le Rose (ed io in esse, ed esse in me...), Allegata foto di un folto cespo miracolosamente rifiorito in due giorni.

*

   Dopo un mese e mezzo di arsura desertica sul terrazzo in Roma, il kumquat ha per tre quarti resistito e sta già rifiorendo. Non è un buon segno?

* 

  Condivisione di Dunia Asha:

    Voglio piantare un frutteto.

   Con le tue braccia intreccerò una vite

   e quando la pioggia verrà

   non ti lascerò sola,

   appena il sole sarà alto

    ti canterò nelle vene.

   Ogni sera verrò a bere

   ai tuoi grappoli,

   poi l’alba verrà.

Non conoscevo l’uomo politico e poeta lucano Rocco Scotellaro, morto a trent’anni nel 1953, autore di questa lirica. Merita approfondimento.

__________________  

 Chàirete Dàimones!

   Laudati sieno gli dei, e magnificata da tutti viventi la infinita, semplicissima, unissima, altissima et absolutissima causa, principio et uno (Bruno Nolano)

 

 
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