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Messaggi di Giugno 2018

In memoria di Jean d'Ormesson

Post n°986 pubblicato il 21 Giugno 2018 da giuliosforza

 

Post 907

    Sono alle ultime righe del romanzo-saga  A Dio piacendo (un manniano Buddenbrook francese, ed una sorta di zoliano Rougon-Macquart in sedicesimo) del conte Jean d’Ormesson, dell’Accademia francese, l’autore che mi ha fatto più compagnia negli ultimi due anni, e solo ora apprendo che se ne è andato in pace nella notte del 5 dicembre 2017 a novantadue anni. Non gli è bastato essere stato seduto fra gli Immortali per non morire. Quasi suo coetaneo, ma senza il suo ingegno, ne sono distrutto, sono in grande lutto, lo sentivo un fratello di sangue e come un fratello di sangue lo piango. E questo lutto voglio  condividere coi miei lettori, per essi traducendo la commemorazione fattane su  Le Monde, il giornale progressista competitore del conservatore Le Figaro che egli per quattro anni diresse e col quale tutta la vita collaborò, da  Josyane Savigneau.

«Pur appartenendo  alla stirpe dei conti d’Ormesson, egli si era fatto per celia il suo proprio nome, che rifletteva bene il suo carattere faceto: Jean d’O. Più invecchiava, più Jean d’Ormesson, che è morto la notte tra il 4 e il 5 Dicembre a 92 anni, era incantevole e incantatore, coi suoi occhi azzurri e la sua aria sempre birichina. “ Ha sempre detto che se ne sarebbe partito senza aver detto tutto, e quel giorno è venuto. Ci lascia libri meravigliosi”, ha dichiarato sua figlia, Héloïse d’Ormesson. Egli pensava con ragione che la gaiezza è un atto di cortesia e voleva meritare un qualificativo quasi perduto, “in un secolo in cui domina il risentimento”: delizioso.

    Delizioso egli lo era. E buon scrittore. Ma, ammiratore dei grandi autori, guardava con disincanto alla sua opera, senza dubbio aspettandosi di essere smentito. Ha spinto questo gioco sulla letteratura  fino a scrivere un romanzo intitolato Quasi niente su quasi tutto (Presque rien sur presque rien, Gallimard, 1996). Quando gli si chiedeva se questo “quasi niente su quasi tutto” non fosse il contrario di ciò che deve essere la letteratura, “quasi tutto su quasi niente”, scoppiava a ridere, lasciando  al lettore il compito di concludere.

    Praticava a meraviglia un’arte in via di sparizione, quella della conversazione. Era brillante, mai noioso, parlava veloce e bene. Si desiderava averlo ospite in tutte le platee televisive. Non se ne esimeva, ci aveva preso gusto.

    A lungo  mi sono domandato cosa avrei fatto della mia vita”, affermava nell’incipit del C’était bien”, nel 2000 (Gallimard): un ritorno sui suoi trascorsi e sulle contraddizioni della sua vita. Poiché, benché appartenente a una grande famiglia”, non tutto era stato per lui facile. Nasce nel 1925. Suo padre, Andrè d’Ormesson, è un diplomatico, presto (nel 1936) ambasciatore di Francia. Sua madre, nata Marie Anisson du Perron, discende dai Le Peletier. Come ricorda in Au plaisir de Dieu (Gallimard 1974), ha trascorso una parte della sua infanzia nel castello di Saint-Fargeau, che apparteneva a sua madre. Seguendo la famiglia suo padre nelle varie destinazioni, anch’egli vive in Romania e in Brasile.

    Per sfuggire a Scienze politiche, Jean d’Ormesson dopo il liceo entra alla Scuola normale superiore di rue d’Ulm, appena dopo la seconda guerra mondiale. Supera l’aggregazione in filosofia e decide di passare all’insegnamento . Gli si propone un posto nell’università americana di Brin Mawr, presso Filadelfia, università per sole giovani, cosa che lo diverte parecchio. Ma cade gravemente malato.

    Nel 1950 entra all’Unesco, dove diviene l’assistente di Jacques Rueff al Consiglio internazionale della filosofia e delle scienze umane di nuovo creato, che più tardi dirigerà. Crea anche, con Roger Caillois, la rivista di scienze umane  Diogène, il cui primo numero appare nel 1953. Dichiara di detestare le riunioni e i comitati di redazione, il che non gli impedirà di dirigere il Figaro  tra il 1974 e il 1977.

    Diventa dunque direttore del giornale e, alle sue cronache, s’aggiungono degli editoriali politici che non mancano di suscitare polemiche a sinistra. Quando Robert Hersant –che era stato epurato per dieci anni per fatti di collaborazionismo- ricompra Le Figaro, nel 1975, Jean d’Ormesson, come Rymond Aron, resta. Ma tutti e due lasceranno dieci anni più tardi.

    Finalmente Jean d’Ormesson potrà consacrare più tempo alla sua opera letteraria, iniziata nel 1956 con fortune diverse. René Julliard aveva amato (e pubblicato), il suo primo testo, L’amour est un plaisir. Ma, dopo parecchi smacchi, non provando molto piacere per il masochismo, dà addio alla letteratura pubblicando Au revoir e merci, nel 1966 (riedito da Gallimard nel 1976).

     Un anno più tardi sopravviene un evento drammatico: egli deve decidersi a vendere il castello materno di Saint-Fargeau. E, agli inizi degli anni ’70, tutto cambia nella sua esistenza: scrive  La gloire de l’Empire, un pastiche di resoconti storici. Roger Caaillois  ne è entusiasta e porta il manoscritto  a Gallimard, che lo pubblica (1971). Per questo libro, Jean d’Ormesson riceve il gran Premio del romanzo dell’Accademia francese. Nel 1973, a 48 anni, entra sotto la Cupola occupando la poltrona di Jules Romain e diventa il più giovane accademico di tutti i tempi.

    Lo si ritrova nel 1974 con un testo più impegnativo, Au plaisir de Dieu, che narra la fine di un mondo, quello della sua famiglia. Il successo, d’allora in poi, non lo abbandonerà più. Dieci libri in quindici anni –sempre nella classifica dei più venduti-, fino a quella Histoire du Juif errant, nel 1990, seguito da La Douane de mer nel 1994 e poi da Presque rien sur presque tout, nel 1996, tre romanzi (Gallimard) nei quali Jean d’Ormesson tenta una spiegazione del mondo.

    Si sa, coi suoi articoli del Figaro – ha continuato a collaborare dopo aver lasciato la direzione- Jean d’Ormesson non ha mai disdegnato  scontri e polemiche. I suoi attacchi contro coloro che a destra venivano designati come i ‘social-comunisti’ , gli sono anche valsi, durante la guerra del Vietnam, ad essere bersaglio di una canzone di Jean Ferrat, Un air de liberté  (1975). Si dimentica talvolta quello che egli ha meravigliosamente scritto sugli scrittori. Tra le sue migliaia di articoli, ne sono stati scelti alcuni per riunirli in volumi.

    Nel 2007, a ottantadue anni, fa dono di una nuova raccolta alla figlia Héloïse, che ha creato una sua casa editrice. In questo Odeur du temps (ed. Héloïse d’Ormesson, si misura tutto il suo amore della vita, si capiscono meglio le sue passioni e i suoi entusiasmi. Non è che una sorta di autobiografia sviata, con quanto basta di ricordi di famiglia e di viaggi.

    In questi articoli si ama lo stile energico, il senso delle formule, degli schizzi, dei ritratti acuti, rapidi. E si scopre che Jean d’Ormesson possiede un’altra qualità molto rara: sa ammirare. Così, François Mauriac occupa un largo spazio, forse perché in lui “s’incarnavano tutti i talenti di uno spirito nel contempo classico e moderno e il genio della lingua portata alla sua perfezione. E’ questo incontro così raro a dare a François Mauriac , scrittore e giornalista, tutte le sue garanzie di eternità”. Paul Morand, al contrario detestava il giornalismo. Sorprendente, quando si sono scritti libri su città, “così tanti servizi geniali in cui il mondo moderno brillava di tutti i fuochi nuovi delle auto sportive, del cinema e del jazz”.

    Capire, amare: due parole che sono il motore di Jean d’Ormesson in tali articoli, Celebra Aragon. Del tutto immune  dalla gelosia e dal dal risentimento che fanno detestare i suoi contemporanei, egli sa anche rendere omaggio ai suoi epigoni. Patrick Besson, che ha “più talento degli altri, e forse come nessun altro”. Gabriel Matzneff,  “un saltatore latinista, un seduttore intellettuale, un dialettico metafisico”. E chi è “questo classico ribelle e burlone, dotato come nessun altro”? Forse d’Ormesson stesso? No, Philippe Sollers, che, come lui, si rifà a queste parole di Stendhal: “L’essenziale è fuggire gli sciocchi e mantenerci nella gioia”.

    Egli ha anche aiutato Marguerite Yourcenar a forzare i portoni dell’Accademia francese, con “quell’opera esplosiva scritta in quello stile supremo che rigetta nella preistoria le falesie e le leziosaggini della pretesa scrittura femminile”. Non si è trattato di una affaire da poco. Si è nel 1979, et Jean d’Ormesson, che era allora, cinquantaquattrenne, un ‘giovane’ all’Accademia, ha l’idea, all’epoca stramba, di far entrare una donna sotto la Cupola. Gli accademici perdono il controllo.  Abbondano le battute oscene- Yourcenar è davvero una donna?, con allusione alla sua vita sessuale. Forse la si può eleggere perché scrive come un uomo. Contro ogni attesa, Marguerite Yourcenar viene eletta il 6 marzo 1980 sulla poltrona di Roger Caillois. Nel gennaio 1981, è Jean d’Ormesson che la riceve.

    Negli ultimi anni della sua vita, Jean d’Ormesson ha conosciuto una consacrazione che gli ha fatto certamente più piacere della sua elezione all’Accademia francese. Nel “015, la prestigiosa ‘Biblioteca della Pléiade’ di Gallimard ha pubblicato un volume dei suoi romanzi. Ne ha fatto la scelta lui stesso. Ma non per questo egli ha smesso di scrivere. Nel gennaio 2016 appare da Gallimard un eccellente Jean d’Ormesson, senza alcun dubbio uno dei suoi migliori, Je dirai malgré tout que cette vie fut belle: una traversato, non del secolo ma dei secoli,, da Racine a Paul Morand, da Saint-Simon a François Mitterand e molti altri. Un libro testamentario? Jean d’Ormesson lo ammette nelle ultime pagine Tuttavia nell’ottobre 2016, edito insieme da Gallimard e da Héloïse d’Ormesson, egli ha pubblicato un breve Guide des égarés.

    Tutte le sue lotte, come tutti i suoi libri, sono dominate da una passione che orienta un destino, quella della lettura. Jean d’Ormesson sapeva che ci saranno sempre dei folli capaci di astrarsi dal gioco sociale ed entrare  nell’universo di uno scrittore. Allor, “finché ci saranno dei libri, gente per scriverne e gente per leggerne, non tutto sarà perduto in questo mondo che a dispetto delle sue tristezze e dei suoi orrori noi abbiamo tanto amato.”.

    Così Josiane Savigneau. Ma quant’altro ci sarebbe da scrivere su Jean d’Ormesson, che qui non è accennato! Del suo sviscerato amore per l’Italia, per esempio, delle sue città, dei suoi luoghi, soprattutto quelli ignorati dal turismo organizzato, dei suoi amori capresi. E dell’origine della sua famiglia, imparentata con San Francesco di Paola, per via della di lui sorella che, seguitolo alla corte di re Luigi XI, aveva sposato un nobile cortigiano  (questo spiega uno dei Nomi dello scrittore, François de Paule appunto); e del motto araldico, diventato il titolo del suo più noto romanzo, Au plaisir de Dieu, già presente  dal secolo XVI nella chiesa di San Giovanni a Porta latina. Ma ora lo lascerò in pace, immaginandolo ancora a me vicino sorridente e ammiccante, mentre leggo in originale due dei suoi deliziosi libricini, acquistati per l’occasione alla Librairie française di Piazza San Luigi dei Francesi: uno dei primi, Un amour pour rien, ambientato a Roma, nell’edizione Julliard del 1960 ripresa da Gallimard (gennaio 2018), e uno degli ultimi, Un jour je m’en irai sans avoir tout dit (Editions Robert Laffont, Paris, 2013).

    Cap. XXIV, Preghiera a Dio

    E’ a te ora che io rivolgo, Dio del cielo e della Terra. Origine e sostegno delle idee e delle cose, padrone del tempo e dell’eternità. Ho sempre pensato che io ti dovevo tutto e in primo luogo il mio passaggio in questo mondo di cui ho con forza creduto che sei stato tu a crearlo e che e che non continuerà ad esistere che per tuo volere.

    Non è escluso, così debole io sono e così stupido, che io mi sia sbagliato e che tu non esista. Si sia trattato di un bel sogno che mi impedito di affondare nell’assurdo e nella disperazione, perché, leggenda o realtà, tu mi avrai fatto vivere un po’ al di sopra  della mia bassezza inutile, non per questo io benedirò di meno il tuo grande e santo nome.

    Ma se tu esisti, in un modo o in un altro, nella tua eternità… ah! se tu esisti… allora, quando comparirò davanti a te e alla tua gloria nascosta, lo spirito ancora tutto pieno di Maria e prostrandomi ai tuoi piedi, ti dirò solamente:

־ Grazie  

    E tu, se esisti e se lo vorrai, nel tuo amore senza limiti per tutto ciò che è stato, ti chinerai verso di me che non sarò più che un ricordo e mi dirai con bontà e forse con un sorriso: ti perdono. (Un jour je m’en irai sans en avoir tout dit, pp. 264-265)

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Chàirete Dàimones!

Laudati sieno gli dei, e magnificata da tutti viventi la infinita, semplicissima, unissima, altissima et absolutissima causa, principio et uno (Bruno Nolano)

 

 

 

 

 

 
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Di Federico II der Grosser, della musica, della guerra e d'altre cosucce.

Post n°985 pubblicato il 11 Giugno 2018 da giuliosforza

Post 906

    La figura di Federico II Der Grosser di Prussia, politico e guerriero spietato e nel contempo raffinato musicista, compositore e flautista, convinto illuminista, amico fraterno di Diderot e di Voltaire, mi ha sempre  rappresentato un problema. Mi son chiesto e mi chiedo come possa un intimo di Euterpe, un frequentatore delle stanze segrete di Frau Musika, amico e confidente delle nove Sorelle, chiaro spirito apollineo, tutte cose che secondo il comune sentire  son fatte per ingentilire gli animi, dirozzare e raffinare  caratteri e ingegni, ammansire le belve (quello spirto guerrier ch’entro ci rugge), addolcire asperità, flectere quod est rigidum, fovere quod est frigidum, regere quod est devium, come possa un cotale personaggio essere inabitato da istinti così contraddittori, alimentare passioni tanto tra sé cozzanti. Non mi do risposta né in fondo più di tanto mi cale. Grande è il mistero di Frau Musika, che può lenire affanni, consolare e rasserenare ma anche alimentare ed accompagnare in forma di canto o di squilli di tromba gli assalti alla baionetta. Da Tirteo in qua molti politici, i ritenuti tra i più efferati, erano, Stalin escluso, amanti della musica e di essa  nutrivano i propri riposi, una volta abbandonati agli ozi di Marte. Un poco, anzi tanto, puttana può esser Frau Musika e nel contempo non smettere di interpretare, meglio di filosofie, religioni ed arti consorelle, i sensi più riposti del reale, violare con Orfeo persino i confini degli inferi,  profondare (ertrinken, versinken, unbewusst, höchste Lust!)  con Isotta nel gran Mare dell’Assoluto, sondare il  poly’  pèlagos tou kalou’.

    Ancora più fitto il mistero Federico II. Ma tutto ci si può attendere dal supremo umorista progettatore di quel capolavoro dello spirito illuminato in pietra che è la sua residenza postdamiana. Tutto ci si può attendere da chi spinge la sua provocazione e la sua irriverenza fino a far imprimere sulla facciata uno dei più divertenti e concisi calembours della storia: sans, souci. Dove la virgola dopo sans (niente) non è un refuso: virgule, virgola, è un diminitivo di virga, che sta nel latino popolare, per pene. Né un refuso è il punto (point, niente, significato passato nel toscano punto) dopo soucis. “Senza preoccupazioni”, certo, ma  solo …senza c. niente (point) preoccupazioni! Birbone d’un Federico, flautista eccelso!

*        

    Quelle che seguono sono note sparse di diario già note agli amici di fb. Le ripubblico qui per i lettori del blog non frequentatori di quel salotto virtuale, che si sta giorno dopo giorno trasformando in una piazza cosmopolita (talvolta con dignità di agorà, ove, insieme a tante sciocchezze, volgarità e liti incivili dettate da livori ‘politici’,  si ha il piacere di leggere discorsi che nulla hanno da invidiare, in acume, ironia, lepidezza, a quelli dei frequentatori delle antiche agorài) che molti, io stesso, sono stati tentati sprezzantemente, ma stupidamente,  di snobbare. Lo so che Dio parla nel silenzio e nella solitudine. Ma quale più profondo silenzio, quale più vasta solitudine del silenzio e della solitudine delle segrete stanze dalle quali attraverso l’etere l’anima spicca un volo che nessun Icaro avrebbe mai potuto immaginare ed entra in comunicazione con l’Universo, con esso ri-fondendosi, riconquistando l’Unità primigenia?

*

    Chiedo l'aiuto di un tecnico del suono. Mi si verifica un fenomeno strano, per altro assai piacevole, una vera e propria sorpresa. Il mio stereo è sempre acceso, sintonizzato sul canale rai classica. Oggi ho voluto provare ad accedere contemporaneamente allo stesso canale via tv 'per vedere l'effetto che fa'. Ebbene, è successa una cosa per me straordinaria: i suoni delle due fonti non combaciano, ma si inseguono, a distanza di una battuta, a effetto 'canone', o eco. E il mio orecchio non li avverte cacofonici o discordanti, ma semplicemente più pieni e robusti, e quasi inseguentisi in una gara di perfezionismo e di velocità a chi arrivi prima al traguardo. E che quiete allorché si raggiungono e stanno!

    A questo punto rinuncio anche a conoscere il motivo tecnico del fenomeno. Svanirebbe l'incanto

    P.S. Il mio orecchio sinistro è da anni completamente spento, ma terribilmente rumoroso, forse a causa forse di un microtrombo. Chissà quale ancor più meraviglioso effetto...a due orecchi!

*

    Ciclisti: tra tutti gli sportivi la categoria più sventurata. Passano da forsennati tra i più bei panorami, città monti e valli, ma non vedono né si godono nulla, intruppati come sono, gli occhi fissi a terra come quadrupedi, tutto l'essere teso, anima e corpo, con sforzi sovrumani alla conquista di un traguardo che, pur se raggiunto, è sempre, per la maggioranza di essi, deludente o inadeguato. Ho pietà dei ciclisti, peones delle due ruote.

*

    Riflettevo: il mite e dimesso, così dicono, Mattarella, ha fatto scherzando scherzando un vero e proprio colpo di stato ... leonino (il gioco mi è consentito per essere egli stato alunno, per chi non lo sapesse, dalle elementari alla maturità, dell'istituto religioso romano "San Leone Magno") autoproclamandosi presidente di una repubblica presidenziale, abolendo de facto quella parlamentare. E non c'è un cane di "resistente" che se ne adonti. Chapeau.

*

    Io a Giancarlo Gidaro, che chiede la mia opinione sulla vexata quaestio della presunta italianità di Shakespeare.

    Caro Giancarlo, da secoli se ne discute e la questione resta aperta. Ma non mi tange. A me basta sapere che Giovanni Florio, italiano anglicizzato, era amico e discepolo e protettore di un tal Giordano Bruno nel suo periodo londinese, e traduttore, fra gli altri, di Boccaccio. E che Shakespeare fu uno strumento dello Spirito Universale, a quell'epoca paludato di rinascimentale italianità. Tutto il resto, diceva il grande scespirista Melchiori, ch'ebbi l'onore e il piacere di rispettare collega, tutto il resto è inutile chiacchiericcio.

*

    Ad Alessandra Carfagna, dottissima e polemicissima amica.

    Cara Alessandra, io, anarchico e libertario, da giovane (non mi tolga amicizia e saluto) fui gollista, e con gli amici pacciardiani (ex di ogni colore, compreso il fondatore di Paese Sera Smith e il generale antifascista Raffaele Cadorna, già comandante partigiano dei Volontari della Libertà) mi auspicai una Repubblica presidenziale di tipo gollista, per la quale ancora adesso, sempre più (paradossalmente?) anarchico e libertario ( e ne ho pagato il fio in questa repubblica degli stracci) non proverei particolare ripugnanza . Mattarella è presidente di una repubblica parlamentare (o mi sbaglio?) e non può assumersi poteri e prerogative che sono di un presidente di repubblica presidenziale. Ciò detto mi taccio, lasciando a voi esperti di diritto costituzionale l'ultima parola, se mai ci sarà. L'aquila dell'Assoluto, come diceva lo Stoccardiano (o stoccardese?), cambia di tanto in tanto nido. Ora se l'è rifatto in Germania fra le capaci braccia della Merkel, e Mattarella non può che prenderne atto. e comportarsi (vilmente, donabbondianamente?) di conseguenza. Buona giornata, pasionaria Ale!

*

    Questo è un libero pensiero di pensatore libero che mi procurerà qualche antipatia.

    Deve essere proprio tanta la strizza che quei due ragazzoni (soprattutto uno di essi) stan facendo venire ai poteri forti se una così furiosa canea si va scatenando nei loro confronti in alcuni ben individuati settori della politica e della finanza italiana, europea (soprattutto tedesca) e persino mondiale. Finirà che mi diventeranno simpatici e suggerirò loro il grido che fu di quel papa gigantesco, Giulio II Della Rovere (nomen omen) che osò confrontarsi col titano dei titani Michelagnolo Buonarroto: "Fuora i barbari"! (dove i barbari non sono per me, a scampo di equivoci, gli immigrati -"Chairete xenoi!"- ma i ripugnanti adoratori dello sterco del diavolo).

*

    Condivido non immaginate con quanto piacere una riflessione all’acido di Anton Monti dalla Finlandia. Non solo ‘chi vede dall’alto vede giusto’ (Victor Hugo) ma anche, direi soprattutto, chi vede da lontano.

     Io ho avuto la fortuna di vivere da ragazzino in Italia un periodo quando i presidenti della repubblica non contavano nulla. C'era Saragat che era pagato dalla CIA, c'era Leone - che peraltro era molto simpatico - che era pagato dall'industria militare americana e c'era quel vecchio rincoglionito di Sandro Pertini che l'unica cosa buona che fece fu quella di andarsi a vedere la finale del mundial del 1982. Essere del PSI ed essere peggio di Berlinguer: ce ne vuole. Pertini riuscì pure su quello. Però non contavano nulla i presidenti all'epoca. Poi arrivò il buon Cossiga, ma io me ne stavo già andando. Cossiga aveva capito tutto perché era la nostra faccia speculare. Non sopporto tutte le menate del Kossiga con la kappa e le SS. Facevamo sul serio noi e faceva sul serio lui. Finita la storia riconobbe la realtà storica e probabilmente era per l'amnistia. Poi sono arrivati quelli del mondo di mezzo e dopo di loro Napolitano e adesso Mattarella. Sarcofaghi, mummie di un centro ed un centrosinistra morente. Gente che dovrebbe solo farsi da parte. E come al solito questi dell'ex-PCI o i democratici-cristiani di sinistra sono i peggio”.

 

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