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Messaggi di Maggio 2019

Peppino Tomassi. Al Campo. Shelley

Post n°1005 pubblicato il 21 Maggio 2019 da giuliosforza

Post 926

   “Fannomi onore e di ciò fanno bene”.

   “Biondo era e bello e di gentile aspetto”.

   Penso sì al Virgilio che si autoloda, ma par non si imbrodi, nel Limbo. Ed al Manfredi (lo sfortunato rampollo, con Corradino adolescente radioso e radioso martire, dell’immenso Svevo Federico II) che il Poeta sommo nel suo viaggio …interplanetario  così presenta in Purgatorio. Ma ci penso pensando a Peppino Tomassi, come Virgilio saggio, come Manfredi bello (ancor oggi, se non di più, nei suoi quasi cent’anni) alias ‘principe’ di Palestrina, tale de jure autoincoronatosi (io ne presi giocosamente, ma senza celia, solo atto), per  la sua immensa opera di scavo nelle memorie secolari della Praeneste nobile e contesa: opera immane composta di una trentina, se non di più, di grossi tomi dedicati alla città della Dea Fortuna, alla sua terra e alla sua storia  che egli narrandone ricostruisce con la “maestria” del mastro muratore (progenie di mastri egli è), con la perizia e la tenacia dell’imprenditore che nessun reperto trascura e d’istinto intuisce dove i più bei tesori sono nascosti, infine il fiuto e la partecipazione simpatetica dello storico unita, e non  è contraddizione, all’acribia di fondo che l’opera dello storico rende credibile; al gusto, infine, del grande collezionista che con immagini uniche tratte dal suo archivio senza fondo illustra arricchisce abbellisce i testi della sua epopea.

   Recentissima, auspicabilmente, anzi sicuramente  non ultima, una ricerca sulla famiglia di sua madre, quella Giuseppina Zucchi che egli ebbe la sventura di mai conoscere perché morta di parto, del suo parto; evento luttuoso che avrebbe condizionato tutta la sua vita, sulla sua vita pesando quasi coma sua colpa e sua responsabilità;  nefasti sentimenti acuiti da improvvidi, crudelli, beceri, dissennati interventi diseducativi. Con quest’opera egli si sente, confessa, come liberato, come se finalmente sua madre l’avesse ormai perdonato. Il libro si intitola La famiglia Zucchi di Gallicano. Memorie e luoghi di insediamento. Autore della presentazione è Vittorio Perin, anima gemella di Peppino (nell’Inferno li vedremo, come Diomede e Ulisse, e un po’ anche come Paolo e Francesca, avvinti nella stessa fiamma), suo consigliere e collaboratore nella vita e nella gestione del fu glorioso Circolo Culturale Simeoni che per tanti anni ha onorato con mille iniziative la città di Pierluigi. Dalla penna molto più della mia sagace ed efficace di Vittorio Perin rubo parte dell’introduzione perché egli molto meglio di me dice quanto io avrei in animo di dire.

   «C’è una progressione quasi naturale nei libri di Peppino. Dopo le ricerche sulla sua (nostra) città, tanto amata (ma anche quanto irriconoscibile e “sconvolta” in questi ultimi anni!), dopo gli studi su chiese, conventi e strutture religiose che l’hanno visto all’opera sia come costruttore sia come ‘interprete storico”, dopo gli affondi nei grandi eventi storici e di costume di Palestrina, ora abbiamo libri diversi: più intimi, autobiografici, ma non per questo meno completi o intensi. Abbiamo insomma libri di “ritorno alle radici”, di uno sguardo “dentro di sé”, che si configurano - soprattutto quest’ultimo - come ricerca di un mitico approdo, abitato per poco tempo, ma non per per questo meno desiderato: quello materno. Seguire le orme dei genitori (entrambi, ahimè, destinati a una vita tragicamente segnata da sorte crudele e imprevedibile), non è stata per Peppino una impresa facile e scevra dai rischi in cui si incorre quando si opera sul rimosso, ma sicuramente necessaria, indispensabile, quasi il coronamento spirituale di tutta la sua ormai quarantennale attività di studioso di memorie patrie. Un’evoluzione dell’amore, che passa dalle cose alle persone, dalla città (che sembra non averne più bisogno - ahi città ingrata!) al domestico, ai suoi genitori, a sua madre in particolare. A una desideratissima madre non conosciuta - ma che, almeno essa, non potrà mai essere ingrata (di questo Peppino è certo!).

   La mamma di Peppino, che il papà aveva sposato in seconde nozze, morta di parto, proveniva da una cospicua e nota famiglia “borghese” di Gallicano nel Lazio: gli Zucchi. Un cognome (un casato) come tanti altri, che probabilmente per molto tempo non ha detto molto a Peppino, impegnato a costruire la sua vita di imprenditore e di uomo socialmente impegnato nel contesto cittadino, ma la cui importanza era ben presente nella considerazione e nei legami tra famiglie, che non si interrompono neppure nel caso di eventi traumatici. Legami che proseguono negli anni, anche se non in maniera brillante, e che magari sono più intensi con alcuni membri e meno con altri. Una normale dinamica esistenziale e storica, insomma, di famiglie che si sono accidentalmente incontrate (per l’amore intercorso tra due suoi membri) e che poi la sparizione del personaggio che faceva da trai-d’union, ha reso forse meno assidua e coinvolgente, ma che i Tomassi hanno sempre coltivato.

   …………

   «Questo libro ridà una madre a Peppino, una terra (Gallicano) e una parentela a sua madre, uno sfondo laborioso (la Maremma) a un vasto e articolato parentato, una memoria duratura per nipoti e nipoti che verranno (ai quali Peppino tanto tiene (umanamente)».

  

   Ed ora un po’ di fuori testo ma non di fuori contesto..

   Si dà il caso che mio cugino Ermanno, per anni responsabile dell’Ufficio sanitario delle Ferrovie dello Stato. fosse nato a Canino, presso il lago di Bolsena, in Maremma, latamente intesa,  appunto. Ed io me ne chiedevo sempre il perché, essendo suo padre, uno dei fratelli di mia madre, un Pafi di Vivaro Romano, un paesello amministrativamente laziale ma culturalmente già abruzzese (ecco spiegato il mio …attonimento panico dannunziano!). Gli è che il padre di Margherita Zucchi, madre di Ermanno, fosse amministratore dei beni maremmani di non ricordo in questo momento quale principe romano, e che una volta sposata ad Ugo Pafi a Canino avesse partorito, quella stessa Canino che alcuni anni prima aveva dato i natali a Eugenio Pacelli, il futuro Pio XII. Diamine, che contesto e che lignaggi! In Peppino ritrovo tutti i tratti, da quelli più aristocratici a quelli prassici, di cotanta progenie. E se lodo tanto Peppino ora si può capire anche il perché: nelle nostre vene  scorre sangue in parte comune e la comune zia Margherita Zucchi, sorella di sua mamma Giuseppina e moglie di mio zio Ugo, esalò l’ultimo respiro al mio paese appena trentanovenne, ed io ne fui quasi testimone: uno degli ultimi affettuosi suoi gesti fu l’atto di donarmi, e la scusa  era un compenso per un piccolo servizio che dal sua letto di morte m’aveva chiesto di farle, dei soldini perché mi comprassi delle caramelle alla festa della Madonna Illuminata, che proprio in quei giorni d’affocato Agosto si celebrava.

   Quanto è piccolo, Peppino, e quanto grande il mondo! In quanti nel tuo libro di memorie ci ritroviamo! Ora m’attendo, come tuo parziale consanguineo, come tuo quasi perfetto coetaneo, che nella prossima opera celebri i tuoi stessi fasti, in una autobiografia esplicita che nulla ignori della tua vita di ex seminarista, imprenditore, presidente di banche e di circoli, espertissimo di monache frati  canonici e vescovi, premiatissimo e titolatissimo, da Vaticano e Quirinale, Personaggio di una epopea che non ha pari e che in tanti momenti ci vide implicati;  ma soprattutto cugino di mio cugino e perciò per legge transitiva tu stesso mio cugino, destinato ad aggiungere ai tuoi blasoni, ai tuoi meriti, o alle tue sfortune, anche, ti piaccia o no, la parentela (favete linguis, prego, chapeau), con uno Sforza, un tal Giulio dalla vita, più di quella dello stesso Vate, inimitabile.

Chàirete Dàimones!

 

 * 

   Approfitto di uno dei pochi pomeriggi di sole di questo maggio birichino per recarmi al Campo.

Alle 17.00 di oggi venerdì 17, 519 anni e cinque mesi dalla sua assunzione all'immortalita,' io e Lui vi salutiamo dal Campo alla presenza discreta di Goethe: Sagt es niemand, nur den Weisen, weil die Menge gleich verhoenet, das Lebend'ge will ich preisen das nach Flammentod sich sehnet. Non ditelo a nessuno, solo ai sapienti, perché la plebe ne riderebbe: voglio lodare il Vivente che aspira alla morte tre le Fiamme.

   Le frotte dei turisti per lo più vestono, approfittando del presumibilmente breve intervallo meteo, fogge già estive, io avanzo distratto pei vicoli che da Piazza Venezia conducono al Campo ancora intabarrato nei miei caldi maglioni di finissima lana azzurro blu su jeans pesanti, ho caldo e col mio passo ormai lento impiego più del solito a raggiungere la piazza, che finalmente in fondo a via dei Giubbonari mi si offre allo sguardo e al cuore in tutto il suo caotico e mistico guazzabuglio di colori e di voci, ancora invasa dalle bancarelle del mercato ormai multietniche (che è bene, ma io vedo per miracolo riapparire un banco  di verdura e uno di pesce e fra essi le Ombre di Aldo e di Anna battibeccare nel loro bel romanesco ancora incorrotto). Il clima è  animatissimo pur essendo il mercato al termine, ma i netturbini ancora non sono all’opera per ripulire ed è necessario, per avanzare, fare il gimkana tra i cumuli.  Lui è lì, come sempre immobile nel suo pensoso corruccio. Il tempo di velocemente salutarlo, di farmi scattare una foto da un simpatico giovane marocchino che vende non so che cianfrusaglie, di un decaffeinato in un tenebroso caffè d’angolo, di uno squisito gelato nel breve tratto di strada che separa il Campo da Piazza Farnese  (una piazza Farnese quasi vuota, con Ambasciata pattugliata da polizia e carabinieri e in buona parte transennata) ed eccomi nella piccola chiesa  annessa al convento delle brigidine che custodisce la memoria della heilige Brigitte, la Rita da Cascia teutonica. Il tempietto è immerso nel silenzio, vi si tiene l’adorazione perpetua, alcune suore (tutte ormai di colore, tranne una novizia bella e slanciata di mezza età che ginocchioni alla prima fila di banchi intensamente prega narrando al buon Dio di chissà quale somma di passati turbamenti e  struggimenti, di quale vita di peccato e di sofferenza da redimere e da offrire per la pace della sua anima e per la salvezza del mondo) pregano tacitamente, il capo reclino e coperto dal simpatico caschetto crociato nero e bianco sorreggi-velo. A suo modo prega anche il Viandante, in piedi presso l’androne al cospetto del prezioso ostensorio che al credente mostra il corpo di Cristo transustanziatosi in pane, al diversamente credente uno dei più alti simboli della divina Unità del Reale. E un po’ di pace anche nella sua anima discende. 

 

*

   Casa di Shelley

   Il pellegrinaggio al Campo mi ha consentito di imbattermi nuovamente in Percy Bysshe Schelley, con Byron il poeta romantico inglese da me  più frequentato e amato. A Lui e al suo  Prometeo liberato, alla tragedia I Cenci e al suo pensiero filosofico, così’ ricchi di spunti prossimi alla mie concezioni filosofiche e pedagogiche, dedicai un anno accademico che gli studenti amarono particolarmente, quelli almeno ai quali il vitalismo panteistico del Cor cordium non dispiaceva per motivo di pregiudiziali chiusure mentali che li escludevano a priori dal godimento del suo prometeismo ribelle. Ignoravo che la maggior parte del Prometeo  e della tragedia  I Cenci fosse stata scritta a Roma, nel palazzo che lo ospitava nell’estate 1819 e che ho scoperto per caso curiosando dal finestrino dell’autobus al momento del suo svoltare da Via San Claudio in Via del Corso (la stessa strada che quasi al suo sbocco in Piazza del Popolo  ospita il museo goethiano): una targa posta ad altezza dell’appartamento che abitò il poeta inglese me lo ricordava. Debbo scoprire se l’appartamento è visitabile: se ancora vi alita lo spirito del Poeta il cui cuore, come tutti sanno, ridotto a un grumo dal rogo che, per suo desiderio e della moglie Mary, ne bruciò il corpo rinvenuto sulla spiaggia di Viareggio dieci giorni dopo il naufragio della sua barca nelle acque di Lerici, fu poi sepolto a Roma nel cimitero acattolico impropriamente detto ‘degli inglesi’ nei pressi della Piramide Cestia. Cerco il testo della lapide in rete e la trovo. E’ scritto:

A

PERCY BISSHE SHELLY

CHE NELLA PRIMAVERA DEL 1819

SCRISSE IN QUESTA CASA

IL PROMETEO E LA CENCI

IL COMUNE DI ROMA

CENTO ANNI DOPO LA NASCITA DEL POETA

SOSTENITORE INVITTO DI LIBERTÀ POPOLARI

AVVERSATE AI SUOI TEMPI

DA TUTTA EUROPA

POSE QUESTO RICORDO

1892

 

   Mi sovviene ora che anche Firenze rivendica  la composizione del Prometeo,  e dell’Ode al vento dell’Ovest, come ricorda una targa posta su una parete della  Stazione di Santa Maria Novella, e che recita:

 

TRA IL 1819 E IL 1820

IN QUESTI LUOGHI

GIÀ DI VIA VALFONDA

PERCY BISSHE SHELLEY

LAVORÒ AL ‘PROMETEO LIBERATO’

COMPOSE L’’ODE AL VENTO OCCIDENTALE’.

 

   In ambedue i casi le meningi degli amministratori non si spremettero troppo. Ma più di tanto non ci si poteva attendere, in epoca di imperanti positivismo in filosofia e realismo in arte, a celebrazione di un poeta romantico che più romantico non si può.

Una curiosità. Osservando bene la lapide romana, si nota che all’articolo ‘la’ premesso a Cenci una mano zelante ha frapposto, come abbia fatto ad arrampicarsi fin lassù non so, una I in vernice nera che io non ho potuto qui riprodurre perché si sarebbe letto LIA, tra  L ed A, ed a ragione perché il titolo della tragedia è ‘I Cenci’ e non ‘la Cenci’. Che non sarà una pasquinata ma una sferzatina al rozzo prassapochismo del dettatore se non dell’incisore, questo sì, e ne godo, ad perennem rei memoriam.

   ___________________

   Chàirete Dàimones!

   Laudati sieno gli dei, e magnificata da tutti viventi la infinita, semplicissima, unissima, altissima et absolutissima causa, principio et uno (Bruno Nolano)

 

 

 
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