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Messaggi di Luglio 2020

Giulio Giorello, Luciano Pranzetti. Antonio Scurati

Post n°1041 pubblicato il 28 Luglio 2020 da giuliosforza

 

960

  Man mano che procedo nella lettura di M. Il figlio del secolo, il suo autore, Antonio Scurati, autore pluripremiato (forse unico suo neo) sale nella mia stima. Il suo modo di avvicinarsi ai principali personaggi, dell’una e dell’altra parte politica, del romanzo storico (ché tale, più che semplice romanzo, esso m’appare) protagonisti dei primi turbolenti e tragici anni post-bellici (1919 -1924), è il più distaccato, oggettivo, imparziale (nello stile di un De Felice), infine scattante e vivace nello stile e documentatissimo nei contenuti (si intuisce al suo interno una sconfinata bibliografia). Finalmente non perdo il mio tempo né alla lettura mi si arrovellano i visceri.  

*

   Due parole di premessa a LUOGHI COMUNI, FALSI E BUFALE, di Luciano Pranzetti.

   Di tutte le decadenze, gli svilimenti, le degradazioni, gli involgarimenti, infine gli scempi di cui sono stato nella mia interminabile vita e sono tuttora testimone, la progressiva perdita di senso della Parola è quella che più mi ha ferito e ferisce, poiché attenta direttamente ai semèia, ai simboli di cui la Parola fu al suo inizio sostanza (ἐν ἀρχῇ ἦν ὁ λόγος, καὶ ὁ λόγος ἦν πρὸς τὸν θεόν, καὶ θεὸς ἦν ὁ λόγος, un Logos creante - la prima Parola come Fiat), coincidente perciò con l’Azione, la faustiana Anfang che all’Inizio del poema il Francofortese predica sostitutiva del Logos -che di fatti un Idea che non si faccia Azione, che un azione che non sia idea incarnata? A superare l’impasse penserà l’Atto gentiliano). Attentando alla Parola si attenta alla radice stessa della comunicazione dell’uomo con se stesso, dell’uomo con le cose che le parole sono, dell’uomo con la natura-idea-naturata, dell’uomo con l’uomo-natura-idealizzata, dell’uomo con Dio Natura naturans e Natura nec creata creans Senza la Parola non resta che il silenzio dell’Essere, anzi non resta che il vuoto del non-Essere,

   La denuncia che Luciano Pranzetti, in questo suo secondo volume di rilievi vivaci  ai limiti della stroncatura, con fine analisi filologica fa delle insensatezze, delle approssimazioni, delle volgarità, delle insignificanze trapassate nel linguaggio comune per ignoranza o negligenza, ed anche per vile resa alle loquele “barbariche” imperanti (soprattutto quelle imposte dall’imperialismo linguistico albionico nella sua corrotta versione yenkee), aliene allo spirito della nostra lingua che è poi lo spirito del nostro proprio essere-al-mondo in quanto esser-con (Sein come Mitsein), tale denuncia si fa più profonda e particolareggiata, e, se fosse possibile, più capillarmente attenta a cogliere nei singoli lemmi e nella loro tessitura grammaticale e sintattica un colpevole tradimento della storia della nostra lingua quale si è andata evolvendo, sia nell’uso comune che in quello togato, ma soprattutto in quello della comunicazione massiva dei ‘media’ (latine, quaeso!). L’evoluzione della lingua, fenomeno normale in tempi normali, va ora assumendo sempre più i caratteri di un tradimento e di una capitolazione. cause fatali del suo sempre più veloce svuotamento di senso. E così fatalmente un fenomeno che potrebbe, e vorrebbe, apparire puramente e astrattamente formale, si fa etico: allorché una lingua si corrompe e si depaupera, si corrompe e si depaupera il popolo che ad essa fa riferimento e attraverso la quale si pone dicendosi; fatalmente decadono i suoi valori e i suoi costumi, fatalmente si autonega quale soggetto morale. E fu forse questo il motivo che spinse Kung-fu-tzu, alias Confucio, nella sua duplice veste di filosofo e di legislatore, a porre al centro del suo sistema di regole civili (delle celesti si preoccupava il Tao-Te-Ching del contemporaneo Lao-tzu) la questione linguistica. In uno dei suoi più celebri Aforismi egli avrebbe affermato: “Se fossi imperatore della Cina per prima cosa restituirei al loro senso primigenio le parole”.

Non credo esista migliore, più radicale e profonda, più originale riforma.

    

*

Dopo l'''Edgar" di Puccini (opera forse ingiustamente sottovalutata), riascoltato, nella interpretazione di Placido Domingo, il suo 'Inno a Roma', vittima di una stupida damnatio memoriae da parte di chi, oltretutto, non sa che fu scritto prima dell'avvento del Fascismo. Io ero solito farne cantare il ritornello ("Sole che sorgi libero e giocondo - sui colli nostri i tuoi cavalli doma. - Tu non vedrai nessuna cosa al mondo - Maggior di Roma") nei perfetti versi saffici dell'originale oraziano del 'Carmen saeculare': "Alme sol curru nitido diemqui - promis et celas aliusque et idem - nasceris possis nihil Urbe Roma - visere maius".

Il giovane Orazio, studente ad Atene, s'era arruolato (tranne poi a gettare, per sua ammissione, lo scudo) nella battaglia di Filippi coi repubblicani di Bruto e Cassio, testardi difensori di una Repubblica corrottissima e ormai agli sgoccioli, assassini (giustizieri?) di Cesare, finiti dopo la sconfitta suicidi. Il fatto non impedì ad Orazio di scrivere per i 'Ludi saeculares' del '17 a. C., indetti da Cesare Ottaviano, nipote e figlio adottivo di Gaio Giulio Cesare, il Carmen.

Propongo una bella damnatio memoriae anche per il Venosino.

*

   Ritrovo nella mia casetta di campagna, ove trascorro piacevoli giorni di solitudine e di frescura, uno dei libri più interessanti di Giulio Giorello, di quelli che dirò da riposo della mente, uno dei tanti da lui dedicati ad argomenti non strettamente legati alla specifica riflessione filosofica (divagazioni e distrazioni salutari per lo spirito, che da taluno gli sono state subdolamente rimproverate, con pessimo gusto e supponente sorniona ipocrisia, in occasione della sua recente scomparsa): Il tradimento. In politica in amore e non solo (Longanesi 2010). Lo ritrovo interrotto alla pagina 86, alla fine del capitolo “Filosofi armati e pronti a tradire”, e lo riprenderò immediatamente, alternandolo col Dictator. L’ombra di Cesare (Newton Compton 2010, RSC Mediagroup 2019). Non ricordo il motivo dell’interruzione (forse semplicemente la fine della vacanza e il ritorno alle frenesie cittadine) di una lettura che deve avermi molto interessato se sono molte le sottolineature e le annotazioni a matita di cui trovo martoriate le pagine. Riprendo, sub tegmine…caelebis platani ultracentenario (quello dei due che guarda l’altipiano del Cavaliere, i monti sabini e carseolani e il dominatore Velino) se già bambino lo ricordo in tutta la sua attuale imponenza), al capitolo “Trenta denari per l’immortalità. Teologia”, non senza prima avere ridato uno sguardo, per rinfrescarmi la mente, alla presentazione in bandella, ove si legge:

   “Peggio di Caino e di Abele, due loschi fratelli della Toscana medievale si fronteggiano, il pugnale nella destra celata dietro le spalle. E riescono a uccidersi contemporaneamente. Questi due tragici spettri introducono Dante nel posto più sozzo dell’Inferno, ove i traditori sono collocati nel centro geometrico dell’universo…Oggi è tornato di moda trattarsi reciprocamente come dei Giuda, pronti a vendere la famiglia o il partito per trenta denari. Eppure manca, in tutto questo caleidoscopio di accuse e di insulti, la dimensione epica del tradimento, come sfida a Dio e agli uomini insieme, intreccio indissolubile di malafede e di orgoglio, di crudeltà e di invidia.

   E dire che può esserci persino un uso geniale, creativo e finanche ‘virtuoso’ del tradimento: ce l’hanno insegnato tipi insospettabili come Machiavelli, Shakespeare e Leopardi, per non dire di Mozart e Da Ponte. Negli affari di cuore come in quelli di politica: ma perché tutto non ricada nel conformismo, occorre che traditi e traditori ‘abbiano fermo il cuor nel petto’, cioè diano prova di quel coraggio che spazza via le ipocrisie dei moralisti d’ogni colore. Il coraggio che spingeva Bruto e Cassio – i due ‘arcitraditori’ di Cesare – a proclamarsi ‘liberi e armati’”.

   Avvezzo alle Wanderungen e alle flâneries, non solo intellettuali, riprendo il cammino senza meta con l’ombra recente di un Uomo che avrebbe potuto essermi amico (e che per un solo intenso pomeriggio ebbi in un estemporaneo colloquio a Nola da Bruno familiare) come me ‘traditore’ dei suoi maestri, e per questo forse di essi testimone non indegno.

 

__________________

  

Chàirete Dàimones!

   Laudati sieno gli dei, e magnificata da tutti viventi la infinita, semplicissima, unissima, altissima et absolutissima causa, principio et uno (Bruno Nolano).

   

 

 

 
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Acqua di Colonia 4711 ed altri sparsi pensari

Post n°1040 pubblicato il 11 Luglio 2020 da giuliosforza

 

959

  Ante Scriptum. Se spesso uso 'pensari' invece che 'pensieri' non lo faccio certo per un vezzo, ma per fedeltà alla mia antica fede attualistica. Pensiero è 'fatto', pensare è 'atto'. Tra i due concetti è un abisso.

 

   Solo sparsi e disordinati pensari nella beata solitudine (sola beatitudine) finalmente recuperata del mio borgo selvaggio che ormai solo amati fantasmi inabitano. Eccone alcuni.

   La compagnia teatrale Frosini-Timpano non conosce crisi, anzi la crisi sfida. Si direbbe che sua Maestà beffarda la Peste non  le faccia un baffo, la renda al contrario sempre più effervescente, sempre più vivace e presente e provocatoria, come forse mai fu nei tempi non infestati dal Mostro, diversamente da noi comuni mortali che, per quanto retoricamente e testardamente e niccianamente vitalisti si sia stati e si sia, anche, forse soprattutto, per motivi anagrafici stiamo perdendo colpi ed energia e siamo seriamente tentati, per la prima volta in vita, di depressione (ma a 87 anni ci si può stare). Gli effluvi della loro Acqua di Colonia (la loro pièce, leggo, con Gli sposi, di maggior successo da noi e all’estero) mi raggiungono anche nel mio fresco verde e coloratissimo eremo del Frainile confondendosi con quelli delle rose delle lavande delle ortensie degli ibiscus dei rosmarini  dei bossi dei gelsomini del piccolo giardino che l’ombra del noce secolare e del suo più giovane rampollo protegge dall’ardenza canicolare. Insomma, alla la Daniele-Timpano la crisi sembra aver molto giovato in risonanza, ha di molto accresciuto la sua già vasta e meritata visibilità, ha permesso alla coppia, soprattutto a Daniele, di condurre civilmente vivaci  battaglie polemiche che hanno visto protagonisti anche molti non addetti ai lavori, fra i quali con queste due chiacchiere  oso collocarmi anch’io, entrando non nel merito del giudizio estetico al quale mi reputo inadeguato, ma di quello politico storico sul quale penso di poter dire la mia senza troppo sfigurare, pur se la mia riflessione, come sempre fuori dagli schemi, potrà attirarmi la solita accusa becera (da parte di chi non gradisce, o non conosce, la mia anarchia mentale, pagata con l’emarginazione e l’esclusione dai banchetti e dalle laute prebende riservati agli appigionati) di revisionismo. ‘Comunista’ per i fascisti, ‘fascista’ per i comunisti, io continuo a divertirmi imperterrito a pensare con la mia testa, attento a non distruggere proprio in questi estremi giorni di mia vita la mia faticata nomea. E imperterrito continuo a sfottere con Formiggini: Amor labor vitast, risus quoque vitast, et mihi confricor.

   Ciò su cui intendo dire la mia è la damnatio memoriae, ciò di cui si tace e ciò di cui ossessivamente non si smette mai di tacere, fino a generare nel testimone disincantato un rifiuto totale dello stile e del merito. Ne sono prova i dibattiti occasionati dai più recenti fatti di stupida iconoclastia, di cui in questi giorni quasi più del covid si è parlato. Anche Daniele ha detto intelligentemente la sua, soprattutto in riferimento ai fatti di cui drammaticamente si dice in (e più felice titolo non avrebbe potuto scegliersi) Acqua di Colonia.

   Amo l’acqua di colonia, soprattutto nella sua versione 4711, e non solo perché fu la preferita di Goethe, di Beethoven, di Napoleone. L’amo perché fu creata nel secolo diletto del barocchismo e del rococò in Kӧln dall’emigrato italiano Giovanni Maria Farina. L’amo per la sua fragranza leggera, da donne e uomini raffinati che non hanno bisogno di versare sul proprio corpo litri di forti profumi per coprirne i fetori. L’amo perché mi evoca giornate indimenticabili vissute, solo o in discreta compagnia, nella valle del Reno, alla ricerca dei doni di Natura e d’Arte di cui quelle beate terre gli dei vollero colmare, e proprio all’ombra del Duomo per antonomasia concluse. E la amo perché è il titolo, metaforicamente azzeccatissimo, della pièce frosiniano-timpanea.

   Non è la memoria Memoria se non è memoria spazialmente e temporalmente totale. Se non le sono connaturali distacco e disincanto critici. E sospetta è la sua damnatio se serve a sorvolare, se non a sottacere,   sugli eccidi di ogni genere, talmente criminosi da far rabbrividire ogni  animo minimamente sensibile, commessi in ogni parte, e in ogni tempo, dell’orbe terracqueo (colmati di cadaveri furono e sono gli oceani, resi deserti d’umanità interi continenti, estirpate genie dal cinque volte secolare imperialismo anglo-franco-ispano-lusitano-olandese, per tacere di tutti gli altri eccidi) compresi quelli dati per ordinati, epperciò benedetti (Nobiscum Deus, Gott mit Uns) dalle varie divinità: gli Zeus, i Juppiter, i Jehovah, i Brahma, i Wohtan- nei capolavori delle varie  mitologie (poemi omerici,  Bibbia,  Bhagavad Gita, cicli nibelungici e saghe varie…)  per le conquiste delle ‘terre promesse’: ordini da esse divinità impartiti all’homo da allora sempre più sapiens, vale a dire più raffinato, sapiente in ferinità.      

   Se si rinuncia al criterio dell’arte per l’arte, che essa almeno equanimemente riservi le sue attenzioni alle infamie commesse non solo dai vinti, ma anche, direi soprattutto, dai vincitori, non dimenticando i genocidi, gli stupri, gli sventramenti operati  per ‘ordine divino’, dai vari Krishna-Arjuna, Giosuè, Alessandro, Cesare, Ariovisto, Carlo Magno, i Crociati, Carlo V e Filippo II, il Re Sole, Napoleone, Hitler, Stalin ecc. ecc., e le truppe dei Patton e dei Juin. Ma in questi casi la memoria damnanda è selettiva. Si limita agli eventi più recenti stando ben attenta a concedere eventuali attenuanti più ai vincitori che ai vinti, dimenticando che à la guerre   comme à la guerre vale per tutti, e che il Tu regere imperio populos, Romane, memento: hae tibi erunt artes, pacisque imponere morem, parcere subiectis et debellare superbos» non è, sol perché virgiliano, meno sospetto e, almeno per i miei gusti, meno odioso.

   Insomma: io che nella primissima infanzia, e ben lo ricordo, vidi mio padre, già reduce da un settennato di Grande Guerra trascorso, come egli soleva dire, a bagno, in quanto caporal maggiore del genio pontieri, fra il crepitio delle  mitragliatrici e i primi attacchi aerei, e concluso con l’estremo massacro  delle Ardenne che ebbe fra le sue vittime anche il suo fratello maggiore ritrovato fortunosamente senza testa la mattina dopo la battaglia fra il mucchio delle 4000 vittime italiane; io che lo vidi partire per la Guerra d’Africa alla bella età di quaranta anni, obbligato, lui socialista (poi comunista) a prender la tessera e offrirsi volontario per poter sfamare la sua numerosa famiglia (la sua modesta impresa edilizia era stata fatta fallire per  le sue idee politiche); io che ho ancora nelle orecchie le canzoni struggenti Tripoli bel suol d’amore,  Faccetta nera, Adua è liberata, Impero, Mamma ritornerò nella casetta, La sagra di Giarabub…  e soprattutto ho negli occhi la figura gigantesca e sorridente del comandante di Squadra Biagio Sforza, stagliata nell’aria torrida di Dire Daua, con in braccio una deliziosa creatura nera, essa stessa sorridente nel suo vestitino nuovo; io non riesco a pensare quegli eventi nello spirito della damnatio memoriae. Mentre amerei che qualche artista della scena dedicasse una memoria critica, oltre che al solito fascismo - cosa che fanno, mi risulta, egregiamente Elvira e Daniele- a personaggi e periodi ritenuti intoccabili, che si tende a tenere sotto silenzio perché le malefatte e le turpitudini non emergano: non bastano, ad esempio, il romanzo di Moravia, o il film di De Sica, o la recente opera lirica di Marco Tutino dal comune nome La Ciociara, sotto sotto benevolmente ammiccanti ai vincitori e con nell’anima la disposizione a conceder loro tutte le attenuanti del caso, a render lo scempio selvaggio che le orde dei goumiers marocchini stupratori sodomizzatori sventratori, incitati dai loro comandanti francesi, fecero di oltre settemila uomini donne bambini di Ciociaria dopo lo sfondamento del fronte di Cassino, meno orrendo e ripugnante. A Elvira e Daniele, che con la loro arte, intelligente ed arguta, han saputo, leggo, darci con Acqua di Colonia un ritratto storicamente oggettivo ed esteticamente notevole (c’è chi ha parlato di capolavoro) della nostra breve vicenda africana (la colonia libico-etiope-somalo-eritrea ebbe breve vita, una cinquantina d’anni circa, nulla al confronto del plurisecolare efferato colonialismo europeo) dei fatti e misfatti coloniali precedenti il ventennio fascista, il compito di sopperire: non mancano loro all’uopo ingegno e lena.

 

*

   Un sogno improbabile: Volpicelli m’affida una conferenza su la filosofia dello sport, soprattutto del pallone, da tenere in un convegno internazionale. La progetto, ma poi prudentemente il sogno svanisce. Nello sport in genere, ma soprattutto nel calcio, sono analfabeta pressoché totale.

  

*

Goduta su Rai5, L’Osteria di Marechiaro di Paisiello, di non eccelsa fattura, recentemente scoperta e curata da Roberto De Simone. Una assoluta novità, dunque, non solo per me. E già per questo fatto è valsa la pena ascoltarla. La figura di Roberto De Simone, musicologo, regista e compositore, creatore della Compagnia di Canto popolare e autore di numerose raccolte, mi ha sempre molto intrigato. E l’ho anche molto invidiato. Ha la mia stessa età stupendamente portata, 87 anni. Spero che questo numero 87, che la Smorfia e la Cabala vogliono collegato allo schifoso pidocchio, alla donna affogata, a pezzenteria ecc., ma anche al suono dell’organo, non ci porti male. Mi piace soprattutto questo suo ultimo collegamento. L’organo, strumento principe per eccellenza che in sé racchiude una intera orchestra, fu la mia grande passione tradita fin da fanciullo. Con Giacomo Pedemonte, titolare dello strumento al Conservatorio Nicolò Paganini di Genova e vanto della Basilica dell’Immacolata e della Chiesa del Gesù, non andai oltre i rudimenti: la mia passione musicale prese un’altra strada, quella della direzione di coro, che avrei poi esercitato, amatorialmente, per tutta la vita. Sono rari in Rai i concerti d’organo solista, ma nella stessa circostanza ho potuto godermi, questo sì splendidamente eseguito, un concerto per organo del settecentesco Giuseppe Sammartini. Mi è sfuggito il nome dell’esecutore.

   Il pidocchio anche ha avuto nella mia vita una grande presenza. Mi raccontava una mia zia che nelle rare volte in cui zio Antonio, che poi sarebbe morto nella battaglia delle Ardenne, e papà andavano in licenza, le loro divise erano talmente infestate dai volgari insetti che nella tinozza dove venivano messe a bagno galleggiavano in tal quantità da venire raccolti con la schiumarola. Io stesso, come tutti i miei compagni, d’altronde, sottonutriti e in condizioni igieniche miserevoli da tempo di guerra, alle elementari (anni ’39 – ’44) nei ero divorato. Ma neanche le scuole dei quartieri bene di Roma negli anni seguenti (non so adesso) ne furono immuni. Ne sanno qualcosa le mie figliole.

Ho poetato del porco e del geco. Non saprei proprio farlo del pidocchio.   

 

*

   Ricercando in rete notizie biografiche su De André, ho scoperto una cosa che mi ha fatto sommamente piacere. Randolfo Pacciardi, il capo politico del Movimento di Nuova Repubblica di cui ho spesso parlato e alle cui iniziative culturali io per qualche tempo partecipai negli anni Sessanta, fu testimone di nozze del  Cantautore al suo primo matrimonio celebrato a Recco. Pacciardi era amico del padre, la stessa passione anarchico-repubblicana li legava, la stessa che avrebbe ereditato Fabrizio.

 

*

   Opusdeisti a Casal Bruciato.

   Ora capisco chi può aver passato a chi di dovere La Funzione didattica, il libro che mi è valso l’onore di finire nell’Indice dei libri proibiti rispolverato dall’Opus Dei.

 Cerco notizie sulla casa prelatizia dell’Opus Dei, la cui Chiesa (Santa Maria della Pietà) è una delle più ricche di opere d’arte, compreso un Raffaello, e mi imbatto in un mio post (il 404 di alcuni anni fa, quando ancora non sapevo del mio inserimento fra i …reprobi, pardon gli Immortali), nel quale trovo indirettamente la risposta ai miei interrogativi sull’indicizzazione. Per risparmiarmi fatica riporto direttamente la parte di quel post dedicato al caso. 

   “Opusdeisti a Casal Bruciato,

   “A Roma nella zona periferica e popolare di Casal Bruciato, in via Bergamini, è la sede delle Autostrade SpA, ove mi reco per risolvere un problema di telepass. Ẻ troppo presto, la sede è ancora chiusa, fa un freddo cane e per scaldarmi decido di fare una passeggiata nei dintorni. M’avvio per una delle orrende strade che da Piazza Balsamo Crivelli partono perpendicolari alla vicina A24. Quasi invisibile fra i grandi palazzi, oltrepassato un parcheggio abusivo di zingari che fanno le loro toilettes sul marciapiede (donne in abiti lerci che si pettinano, altre che spazzano le roulottes gettando la sporcizia sulla via senza minimamente curarsi di raccoglierla, altre che si lavano, si fa per dire, in secchi rovesciandone l’acqua sudicia per strada, una che da lontano mi chiama “bello signore!” e fa cenno che mi avvicini…) scopro una chiesa in mattoni che quasi si confonde coi fabbricati coi quali fa unico corpo, e incuriosito decido di entrare. Ẻ dedicata a San Giovanni Battista in Collatino. L’interno è anonimo come l’esterno, su una parete  sono appesi ex voto d’argento attorno ad una invisibile reliquia (frammento d’abito, d’osso o di che?) racchiusa in una piccola teca argentea che potrebbe far da pendaglio ad una catenina, un poco più in là il ritratto di un santo che ha tutta l’aria curata e signorile d’un bel manager e, un poco più avanti sulla destra, una sua orrenda statua in cartapesta, o gesso immagino, simile a quelle dei vari santi Antoni, santi Padre Pii, sante Rite, sante Teresine che deturpano quasi tutte le chiese d’Italia. E scopro, con meraviglia, che il Santo in questione è nientemeno che Josemaria Escrivà de Balaguèr fondatore, nel 1928 a Madrid, dell’Opus Dei, e che la chiesa è officiata da opusdeisti, come ad essi appartiene il grande centro professionale Elis, sovvenzionato dalla Regione Lazio, che la circonda. Dico scopro con meraviglia perché ignoravo che la grande Prelatura (così si  chiama l’ Organizzazione religiosa che, tra soprannumerari, numerari, associati e collaboratori conta nel mondo oltre novantamila membri, in minoranza sacerdoti senza voti, in maggioranza laici) si dedicasse come i salesiani ad iniziative di formazione e di educazione popolare, oltre alla formazione di classi elitarie destinate a penetrare a macchia d’olio in ogni arto del grande corpo sociale, ed ad agirvi dal di dentro. La tanto discussa Opus Dei (v’è chi la esalta come il più grande evento di comunitarismo religioso del Novecento, chi la denigra come una grande setta, una società segreta, una massoneria che dall’elezione del papa alla formazione dei governi all’organizzazione economica degli stati non fa mistero della sua determinante influenza) non teme dunque di “sporcarsi” le mani e di frequentare, oltre che le stanze dei bottoni (word mi corregge automaticamente in bottini!), i “tuguri” ove la bassa plebe soffre la sua diuturna lotta per l’esistenza. Sulla vera natura dell’Opus Dei non so esprimermi e sospendo prudentemente il giudizio. Qualche anno fa avendomi una studentessa dichiarato di far parte dell’organizzazione le chiesi di discutere una tesi su le sue concezioni e la sua prassi educative. Accettò ma la elaborazione restò sulle generali. Segretamente m’attendevo qualche scoop ma fui deluso. I riferimenti bibliografici furono molto vaghi ed ebbi l’impressione che l’accesso alle fonti più specifiche non le fosse stata consentita. Non ne seppi dunque più di quanto ne sapevo e non potei sfatare le voci circolanti sul coercitivismo del metodo educativo, sull’uso ed abuso di punizioni anche corporali, sui plagi e le violenze mentali operati sugli adepti nel periodo di formazione. Seppi solo che L’Opus Dei possiede un vero e proprio Indice dei libri proibiti (quello creato sotto Paola IV nel 1558 ufficialmente scomparve nel 1966) camuffato da innocuo Bollettino bibliografico. La fretta poi con cui il discussissimo  Fondatore de Balaguèr (che molti ritennero e ritengono un bel malandrino, non amato, forse odiato, da Giovanni XXIII e da Paolo VI), fu,  a pochi anni dalla morte avvenuta nel 1975, da Giovanni Paolo secondo elevato alla gloria degli altari, ha fatto a molti venire il sospetto che si trattasse d’un atto dovuto, di un debito da pagare: nell’elezione del papa polacco determinante sarebbe stato l’appoggio della potente Organizzazione. Voci…, solo una delle tante voci che girano attorno al Mastodonte?

Uscendo dalla Chiesa mi porto via un bollettino dell’Organizzazione, un santino di Monsignor Alvaro del Portillo, fisicamente molto somigliante all’Escrivà e suo primo successore (devono molto tenerci gli opusdeisti all’immagine!) anch’esso in via di beatificazione, ed una lunghissima lettera dell’attuale Prelato monsignor Xavier Echevarria, stranamente somigliante al Cardinal Martini, il gesuita già arcivescovo di Milano che temo rabbrividirebbe se ne venisse a conoscenza. La lettera comincia così: “Carissimi: Gesù mi protegga le mie figlie e i miei figli”. I corsivi sono miei. Ero intenzionato a leggerla attentamente. Credo che non lo farò.

   P.S. In quanto ai Gesuiti, che sono stati sempre ostili a Balaguer, non è male ricordare ch’essi pure nacquero in Spagna e rappresentarono l’evento ecclesiale per eccellenza del sedicesimo secolo, come gli opusdeisti lo rappresentano del Ventesimo. Che ne siano semplicemente gelosi? 

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   Chàirete Dàimones!

   Laudati sieno gli dei, e magnificata da tutti viventi la infinita, semplicissima, unissima, altissima et absolutissima causa, principio et uno (Bruno Nolano).

   

 

 

 
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