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Messaggi di Gennaio 2021

Mit Goethe. Il Dante di Barbero. Bellini, Mathieu, Foà Fusinato

Post n°1061 pubblicato il 25 Gennaio 2021 da giuliosforza

 

976

   Siamo ancora in clima di Capodanno e voglio dedicare, dal mio Mit Goethe durch das Jahr 2021, come augurio ai miei cinque lettori quattro pensieri del Francofortese:

   Eben, wenn man alt ist, muss man zeigen, dass man noch Lust zu leben hat (21 Januar Montag). Proprio quando si è vecchi bisogna dimostrare che si ha ancora gioia di vivere (dedico questo pensiero soprattutto a me stesso).

   Nicht überall, wo Wasser ist, sind Frӧsche; aber wo man Frӧsche hӧrt, ist Wasser (21 Januar Donnerstag). Non dovunque è acqua son rane. Ma dove si senton rane ivi è acqua.

   Wer Freude will, besänftige sein Blut (23 Januar Samstag). Chi vuol star bene alleggerisca il suo sangue (che è un ottimo consiglio per chi durante le feste ha abusato).

   Nun schaut der Geist nicht vorwärts, nicht zurück; / Die Gegenwart allein - ist unser Gklück (25 Januar Montag). Ora la mia mente non guarda né avanti né indietro; è solo il presente la nostra felicità.

*    

Ho acquistato qualche ora fa il Dante (Laterza, Bari, 2020) di Alessandro Barbero, il simpatico medievista e non solo, meritatamente presentissimo  da molto tempo sugli scaffali e sugli schermi, uno dei pochi che mi riconciliano con gli storici, nei cui riguardi ho sempre nutrito il pre-giudizio che essi siano ideologicamente, se non anche economicamente, appigionati (lui pure, da buon ex comunista, almeno un poco, immagino, dovette esserlo; come, d’altronde, dovette esserlo quel gentiluomo di Mieli che spesso  lo ha ospite nelle sue trasmissioni consentendogli  di proporsi coram populo, e che popolo, in tutta la ricchezza delle sue conoscenze, e di brillantemente svettare, per ricchezza di informazione, chiarezza e scioltezza di stile, ironia e dis-incanto, tra gli impacci di altri accademici, e i farfugliamenti di tal altro che, servo irrecuperabile di ideologie testardamente ancora professate nonostante gli insulti del tempo,  ha il solo merito di arrossire da solo di quanto va dicendo, di arrossirsi, per così dire, addosso). Io, che storico non sono, che le storie, non la Storia,  gioco a inventarmele, invidio agli storici veri, gli storici seri, anzi serissimi come Barbero, la profonda indomita passione per la ricerca e per la documentazione, il potere di ridar vita ai morti, di far parlare le carte a lungo silenziose, di decriptare  messaggi,  scavare tra i ruderi e recuperare quanto per un caso fortunato sfuggì  alla furia distruttrice delle guerre o degli elementi; da essi ho riappreso il gusto del factum che sì infectum fieri nequit, ma che esclude da sé le tranquillizzanti certezze che siamo portati da esso ad attenderci e che ahimé (o vivaddio) mai ci darà. Nulla è più problematico del sapere storico, essendo i fatti i più facilmente e variamente interpretabili, e purtroppo manipolabili. Basta la riscoperta di una i per capovolgere il senso di una informazione a lungo data e accettata per certa, basta il reperimento di una tessera a far mutar senso a tutto un mosaico. E Barbero, la cui giovanile verve è immutata, che di ogni documento sa storia e preistoria, che è un comunicatore formidabile, che possiede ironia e distacco ad abundantiam, ed è sornione quanto basta, questo sa e dice. E lo dice col candore di un bimbo che “è cresciuto senza uscire d’infanzia”, di un ragazzino, anche se ha toccato i sessanta, dalle labbra perennemente atteggiate al sorriso birbone, dall’espressione del volto e dalla gestualità di un attore provetto. Ci vorrebbe un Barbero in ogni scuola ed in ogni università per riconciliare i discepoli, tediati dai barbassori, con quella vicenda dello Spirito nel suo oggettivarsi ed autoporsi che ha nome Storia.

   Dunque, ho acquistato qualche ora fa il Dante di Barbero e ne ho letto le prime 30 pagine. Per ricostruire la stirpe degli Aligherii l’autore parte da una interessante descrizione della battaglia di Campaldino (Fiorentini contro Aretini, vincitori i primi) che in prima linea tra i cavalieri vide il giovane Durante. Di qui a ritroso Barbero risale al trisavolo Cacciaguida per poi ridiscendere e riconsegnarci, attraverso una nutrita serie di notizie sull’aristocrazia fiorentina, la presumibilmente verace genealogia del Poeta. Io col povero Cacciaguida me la son sempre molto presa perché lo ritenevo falsamente responsabile di uno dei versi non stilisticamente ma contenutisticamente, per il messaggio che contiene, più orrendi che siano mai stati scritti, quello State contenti umana gente al quia che invece è di Virgilio (in Purg. III, 37) e che fa degna coppia col non meno orrendo quiesce a nimio sciendi desiderio dell’autore del De Imitatione Christi. Fideismo e dispotismo del quia contro il criticismo e il problematicismo del cur. Davvero un bell’insegnamento! Nelle prime 30 pagine pochi e di lieve momento sono i refusi, ma uno ne trovo imperdonabile (almeno da me per il quale ancora il ritmo è tutto) perché distrugge un endecasillabo, dando modo alla gelosa Euterpe di risentirsi con sua sorella Clio, con la quale Barbero ha più familiarità: O fronda mia in che io compiacemmi / pur aspettando, io fui la tua radice… /…Quel da cui si dice / tua cognazione e che cento anni e piue / girato ha il monte nella prima cornice / mio figlio fu e tuo bisavol fue. Dante scrive giustamente in la prima cornice, non nella, che provoca una fastidiosa aritmia, e il mio cuore già troppo aritmico per conto suo ne sobbalza. Mi chiedo dove siano andati a finire i bravi correttori di bozze del tempo dei piombi: dall’avvento dell’era digitale sembra si siano dissolti.

   Ascoltando Barbero ed ora leggendolo mi son fatto l’opinione che egli sia defeliciano quanto basta, e che parecchio con lo storico reatino egli condivida. Proverò a chiederglielo. Da quel che dice e dal come lo dice, ho l’impressione che egli si possa ritrovare in una dichiarazione di De Felice che rubo alla rete ricorrendo all’immorale ma comoda pratica del copia e incolla: nulla più «che l'essere stato marxista e comunista mi ha immunizzato dal fare del moralismo sugli avvenimenti storici. I discorsi in chiave morale applicati alla storia, da qualunque parte vengano e comunque siano motivati, provocano in me un senso di noia, suscitano il mio sospetto nei confronti di chi li pronuncia e mi inducono a pensare a mancanza di idee chiare, se non addirittura ad un'ennesima forma di ricatto intellettuale o ad un espediente per contrabbandare idee e interessi che si vuol evitare di esporre in forma diretta. Lo storico può e talvolta deve dare dei giudizi morali; se non vuole tradire la propria funzione o ridursi a fare del giornalismo storico, può farlo però solo dopo aver assolto in tutti i modi al proprio dovere di indagatore e di ricostruttore della molteplicità dei fatti che costituiscono la realtà di un periodo, di un momento storico; invece sento spesso pronunciare giudizi morali su questioni ignorate o conosciute malamente da chi li emette. E questo è non solo superficiale e improduttivo sotto il profilo di una vera comprensione storica, ma diseducativo e controproducente[7].» (Note e ricerche sugli Illuminati e sul misticismo rivoluzionario (1789-1800) Luni Editore 1960).

   Io non conobbi a fondo direttamente De Felice, anche se avrei voluto e potuto. Lo ebbi per caso vicino di poltrona al Teatro Argentina in una sera del 1996, alcuni giorni prima che prematuramente morisse. Si dava, di Sylvano Bussotti (il geniale personaggio fiorentino nostro coetaneo noto non solo come pittore, ma come poeta, romanziere, regista, attore, cantante, scenografo e costumista -Wagner con tutto il suo Gesamtkunstwerk gli fa un baffo) non ricordo quale dei suoi ‘Grafismi musicali’, le famose partiture da guardare oltre che da ascoltare. Gli chiesi: come mai qui uno come lei, frequentatore di tutt’altri universi? Mi rispose accennando un sorriso: curiosità, solo curiosità: non è forse la curiosità peculiarità dello storico?

   Delle circa 360 pagine del Dante che mi restano da leggere spero di aver qualcosa di più e di più serio da dire. Magari quel che non fue mai detto d’alcuno.  

*  

Ho rivisto dopo un anno apparsomi un giorno Tor Tre Teste nuova, e ne son tornato ancora una volta con l’animo turbato e traboccante di irrisolta nostalgia. Non ha gli spazi del mio nuovo quartiere, non i silenzi surreali, non il grande centro commerciale, fortunatamente isolato e circoscritto come una fortezza a proteggersi e a proteggere, testimonianza di un tempo infame che la nobile agorà ha degradato a volgare piazza brulicante di una folla irreale che trascina di negozio in negozio le sue solitudini e le sue angosce; non il grande Parco delle Sabine sconfinante nella selvaggia Riserva della Marcigliana, nei vasti prati della Cesarina che piamente ricoprono le vestigia di civiltà imperiture, e nei verdi mari di fruttetti e di oliveti della estrema Sabina romana. Ma ha gli spazi che furono per trenta anni del mio cuore, i cieli tersi e profondi che furono i luoghi della mia mente inquieta. E i pochi volti di persone che furono a me familiari e con me arrugarono e ingrigirono. E i fantasmi di quelle che l’Orco vorace anzi tempo ingoiò.

Tor Tre Teste, irreparabile tempus.

*

Ci son dei periodi nella nostra vita, così a me almeno accade, in cui, per motivi che appartengono solo al profondo e sono perciò difficilmente decifrabili, ci svegliamo con un motivo musicale nelle orecchie destinato a permanere giorni e giorni, prepotentemente insinuandosi fra gli altri eventi della vita psichica, accantonandoli o ponendoli in momentanea parentesi quasi ad operare una riduzione fenomenologica, un’epoché cartesiano-husserliana, di tutto ciò che ci circonda perché non resti che la coscienza di quel suono per il quale possa dirsi: cano, ergo sum, Ich singe, deshalb bin Ich, canto dunque sono. Che suona, è proprio il caso di dirlo, molto meno arido del Cogito ergo sum e in grado di fondare, in luogo di una filosofia sterilmente intellettualistica, una filosofia del sentimento come ragione partecipativa incarnata, fondativa di una teoria dell’essere come Musica Mundi, il cui Big Bang fu un Urklang .  

   Il motivo musicale col quale nell’orecchio oggi mi sono destato è quello belliniano del coro del primo atto de La Sonnambula che da sempre mi viene di adattare, non so perché, ai versi di Foà Fusinato dell’Addio a Venezia, che meno ossianici sono di quelli che Felice Romani scrisse per Bellini, ma nel ritmo identici:

A fosco cielo, a notte bruna,/al fioco raggio d'incerta luna,/col cupo suono di tuon lontano/dal colle al piano un'ombra appar.

In bianco avvolta lenzuol cadente,/col crin disciolto, con occhio ardente,/qual densa nebbia dal vento mossa,/avanza, ingrossa immensa par!

Dovunque inoltra a passo lento,/silenzio regna che fa spavento;/non spira fiato, non move stelo;quasi per gelo il rio si sta.

I cani stessi accovacciati,/abbassan gli occhi, non han latrati./Sol tratto tratto da valle fonda la Strige immonda urlando va.

   E recita la prima strofa del lungo Addio a Venezia di Foà Fusinato:

È fosco l'aere, il cielo è muto,

ed io sul tacito veron seduto,

in solitaria malinconia

ti guardo e lagrimo, Venezia mia!

Identico il ritmo, verso di due quinari, e stessa aura tetra. Provatevi a cantarla con la melodia del coro belliniano e noterete una strabiliante similitudine, un quasi vicendevole plagio.

(In una celebre canzone natalizia di Mireille Mathieu, Mille colombes, la melodia del refrain  -donnez nous mille colombes et de millions d’hirondelles,  faites un jour que tout le monde  redeviennent des enfants-  è pari pari quella del coro di sottofondo di ‘Casta diva’ della Norma belliniana. Ma qui non si tratta di plagio, bensì di un prestito dichiarato: Bellini figura correttamente tra gli autori della canzone).

   ____________

    Chàirete Dàimones!

   Laudati sieno gli dei, e magnificata da tutti viventi la infinita, semplicissima, unissima, altissima et absolutissima causa, principio et uno (Bruno Nolano)

   Gelobt seist Du jederzeit, Frau Musika!

 

 

 
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Il giardino dei ciliegi. Il Gabbiano. Le Supplici. Vivaldi e Cesco Baseggio

Post n°1060 pubblicato il 13 Gennaio 2021 da giuliosforza

975

   Il Giardino dei ciliegi (l’ultima opera cechoviana - l’autore sarebbe morto pochi mesi dopo, distrutto dalla tubercolosi a quarantaquattro anni - nella versione strehleriana del 1978, con l’ultima Diva nostrana Valentina Cortese nel ruolo principale, Monica Guerritore Giulia Lazzarini, Glauco Mauri comprimari e un grande Renzo Ricci nel ruolo del vecchio servitore) mi ha fatto pessima compagnia l’altro pomeriggio. Mi sto intestardendo con Cechov, anche se chiaramente non è l’autore più adatto a salvarmi dalla minacciante depressione.  Non l’avessi mai rivisto, quel maledetto Giardino: lo pervadono gli stessi sentimenti che provai, l’estate scorsa, lasciando il Frainile, il mio Giardino dei noci così tante volte evocato in questo diario, l’ultima volta che chiusi la porta di casa: le stesse lacrime della anziana proprietaria Ljubova-Cortese sulle mie gote, lo stesso sentimento del non ritorno, lo stesso presentimento, la stessa opprimente malinconia dell’Ahnung maledetta, lo stesso cuore oppresso. Quando la prima volta vidi Il Giardino nel ’78, pur anno per me tragico, il mio rifugio fiorito del Frainile era in costruzione, avevo 35 anni, esplodevo di energie: avrei potuto reagire al melanconico ’addio vecchio mondo’ pronunciato, nell’atto di volgersi indietro a salutare, dai più anziani della famiglia, con il ‘salve mondo nuovo’ gridato all’avvenire dai più giovani guardandosi avanti. Ma ora è diverso, la sorgente profonda che ha alimentato il mio vitalismo poco a poco inaridisce, l’inno alla Vita cede alla trenodia, recupero l’adolescenziale sentimento della finitudine, quel sentimento che è caratteristico, ed è un vero paradosso, di un’epoca che dovrebbe essere, come ogni primavera, di ‘entusiasmi’ (‘esser posseduti dal Dio’), di ubriacature di colori e di luci, di esplosioni di canti. Riprendo in mano i miei diari di allora, mi ritrovo nel pieno della mia oppressa adolescenza, rileggo i primi tentativi poetici e non trovo che sentimenti di morte. Scrivo sonetti agli ‘amici della mia solitudine’ (Petrarca, Foscolo, Leopardi), riempio i miei diari di Pascoli e di Giosuè, non ancora trombonesco Carducci, due sonetti del quale, tratti il primo da Rime nuove.  da Juvenilia il secondo, aprono il quaderno n° 4:  

   […]

   Ben riconosco in te le usate forme / Con gli occhi incerti tra ’l sorriso e il pianto, / E in quelle seguo de’ miei sogni l’orme / Erranti dietro il giovenile incanto. / Oh, quel che amai, quel che sognai, fu invano; / E sempre corsi, e mai non giunsi il fine; / E dimani cadrò[...] (‘Traversando la maremma toscana’)

   Passa la nave mia, sola, tra il pianto / De gli alcïon, per l’acqua procellosa; / E la involge e la batte, e mai non posa, / De l’onde il tuon, de i folgori lo schianto.  

   Volgono al lido, omai perduto, in tanto / Le memorie la faccia lacrimosa; / E vinte le speranze in faticosa / Vista s’abbatton sovra il remo infranto.

   Ma dritto su la poppa il genio mio / Guarda il cielo ed il mare, e canta forte / De’ venti e de le antenne al cigolío:

   Voghiam, voghiamo, o disperate scorte, / Al nubiloso porto de l’oblio, / A la scogliera bianca de la morte.

   Nell’intento cechoviano la pièce avrebbe dovuto essere percepita come ‘tragicomica’. Ma l’aspetto comico a me è del tutto sfuggito. Forse perché scarna la trama? Per pagare l’ipoteca di una proprietà una nobile famiglia aristocratica ormai decaduta deve porla all’asta, nessuno della famiglia inspiegabilmente apatica facendo nulla per impedirlo. Vendita ed oblio sono ormai il suo destino. 

   Pari sconforto, sebbene di altra natura, m’aveva colto qualche giorno prima alla visione de Il Gabbiano dello stessoautore.

   “È uno dei testi teatrali”, leggo nella anonima presentazione redazionale, “più noti e rappresentati di sempre; i personaggi della giovane Nina, della madre attrice Irina, dello scrittore Trigorin sono stati incarnati in tutto il mondo dai maggiori attori di teatro, in messe in scena memorabili. La messa in scena è quella di Orazio Costa Giovangigli, del 1969, con Anna Proclemer (Irina), Gabriele Lavia (Konstantin Trepilov), Gianrico Tedeschi (Piotr Nicolàevic Sorin), Ilaria Occhini (Nina), Renato Lupi (Ilja Afanasievic), Gabriella Giacobbe (Paolina Andréevna), Giancarlo Sbragia (Boris A. Trigorin), Mario Feliciani (Evghenij S. Dorn), Ettore Toscano (Semion Semionovic), Sergio Volsini (Jakov), Vasco Santoni (cuoco), Winnie Riva e Antanassia Singhellaki (cameriere). Il tema del Gabbiano ritornerà in tutti i successivi lavori teatrali di Cechov, come simbolo della tragedia di un'umanità delusa dall'inutilità della vita. Il titolo dell'opera viene da un accostamento simbolico: quello fra l'ignara felicità di un gabbiano che, volando sulle acque di un lago, viene stroncata dall'oziosa indifferenza di un cacciatore, e la sorte di una fanciulla, Nina, che sulle rive dello stesso lago si innamora di un letterato di qualche nome, Trigorin, il quale senza cattiveria, anzi cedendo a una sorta di fatalità, approfitta della sua femminile smania di aprire le ali, la porta via con sé a fare l'attrice, la rende madre di un bimbo che però muore, e la lascia infine tornare distrutta alla casa di una volta. Qui c'è un altro uomo che l'ama da molto tempo, il giovane Konstantin, anche lui scrittore, che sogna l'arte e la gloria. Ma la madre di lui, Irina, un'attrice celebre, disprezza l'inconsistenza delle liriche fantasie che egli va componendo e Nina non vuol saperne di lui. Sicché Konstantin, sentendosi fallito, si uccide. Questa semplicissima trama, che non è neppure una vera trama, offre a Cechov il pretesto per la rappresentazione di una società di illusi, aspiranti invano a partecipare al gusto dell'esistenza, che li respinge. Cechov da un’idea fissa, continua a rappresentare la propria angoscia e la propria sconfitta”.

   Come si vede Anton, arte a parte, non si smentisce. La sua tetra visione del mondo anche ne Il Gabbiano permane immutata e tale in questa fase della mia esistenza anch’io son tentato di percepirla, tanto da chiedermi se non abbia ragione il Prezzolini evocato nelle prime pagine di questo diario: “essere l’ottimista più dogmatico del credente, poiché questi crede a ciò che non vede, quegli si rifiuta di credere a ciò che vede”.  

   Per viltà rimando ancora la risposta. Distruggerei tutto quel che nella mia lunga vita ho detto e fatto, tradendo il mio Dèmone.

*

   Per fortuna ho avuto in questo periodo altre compagnie. Ho appena terminato la piacevole lettura dei due volumi che Carla Russo ha dedicato alla saga di Caterina Sforza e che mi hanno rituffato nel meraviglioso e sanguinario Rinascimento; ho terminato il romanzo Greta Vidal della Buens Carignani con la quale ho rivissuto l’esaltante utopia fiumana attraverso una delicata e insieme tragica storia d’amore; mi son rigoduto Barbiere e Bohème, ho seguito con curiosità lo strano allestimento de Le supplici eschilee, al teatro greco di Siracusa, da parte di quel simpaticone di Moni Ovadia, e da lui stesso tradotte, idea non del tutto balzana, in greco moderno e siciliano; ho iniziato la lettura deludente del piccolo saggio Segui Il Tuo Dèmone  del latinista Ivano Dionigi  (dall’ex rettore della ‘Alma Mater Studiorum’ felsinea aveva diritto d’attendermi di meglio); ho pensato mille pensieri uno più strambo dell’altro (per esempio che ‘canaglia’ è un brutto vocabolo, offensivo per il cane, ma non abbastanza per la canea degli umani; e ho deciso che d’ora in poi in omaggio a Pascal chiamerò l’odioso maus ‘souris d’ordinateur’, e in omaggio a Goethe ‘rechnere Ratte’); e ho ricominciato a poetare: ma  quella che avrebbe voluto essere una lunga lirica s’è fermata al settimo verso, non solo per l’esaurimento dell’ispirazione, bensì perché m’è piaciuta la non ricercata rima interna  danza speranza. E forse la lirichetta ne ha guadagnato.

   Brulica d’ombre a me dintorno il parco / tace ogni voce umana e tace il canto / dei merli ed il cra cra / delle tetre cornacchie e il vento tace / che di foglie policrome nell’aria / lancia una danza. Ed il mio cuore stanco / si veste di speranza.

 *

Alcuni post fa riferii con compiacenza di un maligno giudizio di Dallapiccola, ripreso e condiviso da Stravinskij, che suonava all’incirca così: Vivaldi non ha scritto 400 concerti, ma quattrocento volte lo stesso concerto. Ora, dopo aver rivisto con interesse ed emozione uno sceneggiato televisivo degli anni Cinquanta che racconta, con un magnifico Cesco Baseggio protagonista, lo stesso  che dà il nome al viale romano dove abito, gli ultimi tristi tribolati anni viennesi del vecchio ‘Prete rosso’, che aveva sperato  di trovare a Vienna, invitato da Calo VI suo ammiratore, quella  tranquillità anche economica che Venezia non gli garantiva più (le mode musicali stavano cambiando, le autorità ecclesiastiche gli rimproveravano, dando retta alle maligne insinuazioni della plebaglia, il suo paterno interessamento per il grande contralto mantovano Anna Girò, o Anna Giraud, nome d'arte della mantovana Anna Maddalena Teseire-Tessieri) mi commuovo e decido di dedicare al Prete Rosso maggiore e meno prevenuta attenzione. Che se poi dovessi continuare a pensarla come Dallapiccola e Stravinskij certo non ne tacerò, ma almeno sarà a ragion veduta. Intanto la sua grande amicizia con Goldoni e la loro vicendevole stima un poco mi rassicurano e mi fan pensare che il suo genio forse non meritava il silenzio, una vera damnatio memoriae, al quale per oltre due secoli fu condannato.

   ____________

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Efemeridi

Post n°1059 pubblicato il 01 Gennaio 2021 da giuliosforza

974

   Un redattore di “Aequa”, rivista di ricerche storico-culturali ed etnoantropologiche sul territorio degli Equi, mi ha chiesto alcune righe di presentazione, da far risultare come Nota di Redazione, alla Avvertenza che fa da breve premessa ai due volumi di Dis-Incanti, come breve recensione. 

   Ho scritto:

   Nel tormentato corso di questo Annus horribilis la tipografia Fabreschi di Subiaco non è restata inoperosa, tutt’altro. Molte opere, anche ponderose, sono uscite dai suoi torchi (in epoca di scrittura e stampa virtuale l’espressione, volutamente anacronistica, vuol suonare gradevolmente, ironicamente, giocosamente provocatoria). Tra queste una in particolare, nella sua concezione nella sua elaborazione e nel suo pondo cartaceo faticosa, ha visto la luce: Dis- Incanti, trascrizione a stampa di un diario virtuale degli ultimi dodici anni nel quale l’autore, quasi nonagenario uomo  del presente, non si limita a riflettere sugli eventi del giorno e ad esternarne le risonanze che dentro di lui hanno, ma lancia retrospettivamente  un potente fascio di luce sul suo complesso passato, non trascurando le vicissitudini della mente e del cuore, a partire dai remoti anni dell’infanzia fino, via via, agli anni della lucida senescenza. Ne è nata una sorta di zibaldonica autobiografia ove i momenti della crescita fisica e interiore sono descritti con l’intensità di un ‘pagano’ sentimento della terrestrità avvertita come natura naturans, come elemento determinante dell’essere e dell’esserci, secondo il ben noto adagio roussauiano l’uomo “essere la sua terra che cammina”. Come D’Annunzio affermava di portare la terra d’Abruzzo sotto il tacco dei suoi stivali, così l’autore di Dis-Incanti può dire di aver portato la terra equa, tanto prossima culturalmente all’abruzzese, incollata alla sua carne e alla sua anima ovunque, territori fisici o territori metafisici, le turbate vicende della sua vita l’abbiano condotto. Se culture altre, soprattutto la francese e la tedesca, sembrano in Dis-Incanti predominanti, al lettore attento sicuramente non sfuggirà il marchio ‘equo’ essere profondamente impresso su ogni pagina dell’opera, indelebilmente.

  Lasciamo all’ Avvertenza premessa dall’autore, seria faceta ironica e autoironica quanto basta, il compito di meglio illustrare natura e intenti del suo Dis-Incanti”.

 

   Avvertenza”

   La prima parte del mio zibaldone è dunque qua, bella e pronta per il macero, dopo 12 anni di gioiosa fatica.

   Se in ogni mia opera, teoretica o poetica, mi sono senza ambage denudato, qui oltrepasso ogni limite: lacero il velo del fenomeno ed affondo le mani nella frattaglia del mio noumeno, scavando in ogni suo più nascosto e più o meno ripugnante anfratto, in ogni suo meandro, in ogni sua tortuosità, in ogni sua sinuosità, nello stile insopportabilmente guittesco e pletorico e retorico da esaltato che mi distingue. Eccomi, qui ci sono tutto, nel bene e nel male, nel bello e nel brutto. Qui c’è tutto il mio umano, da cui nulla alienum puto.       

   Se ogni mio parto fu faticoso, nessuno lo fu più di questo: raccontarmi giorno per giorno in ogni mia vicenda materiale e spirituale, di sogno o di veglia (di veglia-sogno di sogno-veglia) nella più cruda, invereconda spesso crudele verità, dissotterrando  nel presente il passato, e presente e passato proiettando in un futuro di essi non meno nella sua  irrealtà reale, in un linguaggio ignaro di freni di riluttanze di pudori, è stato duro per il diarista metafisico anacronisticamente romantico e simbolista, disordinato e a-metodico per principio che, pur fedele alla correttezza del dire e del narrare, o dell’inventare, e talvolta pedante fino al fastidio, ha faticato a mantenere all’elaborato coerenza di materia e di forma, di contenuti e di stile. Ma l’abbondanza del materiale non ha permesso alle mie residue forze di controllarne meticolosamente ogni parte, in modo da offrirlo pulito e polito, e unito e compatto pur nella sua naturale diaristica frammentarietà, senza le esuberanze, le sciattezze o le ricercatezze stilistiche, alla curiosità del lettore amico. Dopo l’ennesima rilettura, per ogni nuovo refuso evidenziato, per le mille fastidiose ripetizioni (per la verità ognuna collocata in un contesto diverso in grado di farla ri-significare) lo scoramento era in agguato. Per questo ho rinunciato a rileggere ancora, lasciando al lettore il fastidio, il compito e il piacere (e perché non l’onore?) di spulciare il faticato elaborato rendendosi co-correttore delle bozze di un …capolavoro (!), che mi son deciso a stampare meis impensis in poche copie numerate, oltre che per il mio piacere, per quello dei pochi amici, familiari, allievi, colleghi che dodici anni or sono me ne espressero caldamente il desiderio. Per me e per essi, ripeto, solo per me e per essi mi son deciso a ridonare alla carta i miei Dis-Incanti, già affidati all’impersonalità dell’etere a uso e abuso di tutti (circa 80000 risultano a oggi i visitatori, un numero per le mie attese davvero esagerato) onde riappropriarmene anche coi sensi esterni, ridonarlo alla diletta polvere degli scaffali, rigoderne vista tatto gusto profumo, riudire il fruscio delle pagine sfogliate  al chiuso del mio studiolo o all’aperto del balcone o del giardino, fra i canti degli uccelli e i profumi dei fiori, o, negli orecchi assenti, il fragore in sottofondo della città stordita. Tanto mi basta. Non è mio costume partecipare a fiere e mercati, ambire a premi, offrirmi in pasto ai critici, “vendetta dell’intelligenza sterile nei confronti dell’arte creatrice” (Elias Canetti), “termometri anali” (Marinetti).

   Con la mia nota modestia …io me sopra me corono e mitrio!

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   Ieri sera ho terminato la lettura dei due volumi di Carla Maria Russo dedicati alla saga di Caterina Sforza signora di Forlì, detta la Tigre, un personaggio in ogni senso degno, più dei figli e nipoti maschi, di suo nonno Francesco, il grande guerriero e politico e  mecenate eccelso che fece della decaduta Milano viscontea il centro della cultura dell’arte italiana, che variamente seppe esportare in Europa, soprattutto in Polonia; e di Greta Vidal, una delicata storia di passioni nella Fiume di D’Annunzio narrata della felice penna di Antonella Sbuelz Carignani. Con Giorgio Gemistio Pletone, Mantaigne, D’Annunzio, Borges, Pound, la compagnia di queste due incantevoli signore mi ha consentito di lenire un poco l’angoscia di questi tetri giorni, che mai come quest’anno sanno di morte. Insieme alla lettura l’ascolto di musica classica o più genericamente colta, a iosa largitaci in questo periodo da Rai-cultura, bene coopera nel tentativo di arrecarci, con un palinsesto ricco di titoli allettanti e molto vari, momenti ispirati di rilassamento da godere in pace e serenità. E in parte vi riesce. Io ce la metto tutta, proprio tutta, per recepire il messaggio, e atteggiare il mio animo al distacco critico, ma è essa sovente a non mettercela, riuscendo con manipolazioni e interpolazioni, con interventi di personaggi insulsi (funzionari frustrati alla ricerca di un momento di visibilità?) a rovinare tutto e ad innervosirmi, con buona pace del distacco e del puro godimento.

   Dirò brevemente, a mo’ di esemplificazione, di quello che hanno chiamato retoricamente l’“evento dell’anno”, se non l’evento del secolo, trasmesso in mondovisione: il nazional-popolare spettacolo di inaugurazione della Stagione scaligera 2020-2021 intitolato “A riveder le stelle”.

   Già il titolo mi innervosisce. Perché tagliare il verso dantesco, sì da farlo suonare simile a un banale ‘Ballando con le stelle’, il titolo del programma della sempre più artefatta, e rifatta, se pure ancor bella e simpatica, Milly nazionale, chiamata qui a sorridere (volutamente trasformo il verbo in transitivo) i soliti tre o quattro luoghi comuni? E che dire dell’idea balzana, fatta passare per originale, mentre di una operazione puramente, sfacciatamente commerciale si tratta, di trasformare lo spettacolo in una vera e propria passerella di moda, con le cantanti in veste di modelle di una sfilata d’abiti lussuosi, in barba al conclamato autocompiacimento dirigenziale d’aver realizzato finalmente uno spettacolo popolare, uno spettacolo per tutti da tutti visibile e da tutti udibile? Che è poi una ipocrisia bella buona, è retorica populista, non potendo l’Opera lirica, se tale è e non spettacolo da baraccone, come Opera dello Spirito non essere che, fatalmente, d’élite. Ẻlite dello Spirito, naturalmente, non del mercantile censo. Recarsi all’Opera, come ovunque abiti un’Arte, è come recarsi ad Eleusi per lasciarsi possedere dal dio. Le porte del Tempio sono precluse ai pro-fani, a chi non abbia bevuto il ciceone. Del programma musicale non dico: un minestrone che nemmeno la bacchetta di Chailly è riuscito a farmi digerire.

   Un altro intento annunciato dai lautamente foraggiati di mamma Rai era quello di ‘favorire attraverso la Musica la riconciliazione fra gli uomini’: ulteriore banalità, ché il presunto linguaggio universale e perciò di per sé pacificatore della musica è tutto da dimostrare. In realtà solo le note sono, per convenzione, universali, non certo i messaggi attraverso esse trasmessi, i sentimenti, le idee da essi generati e alimentati. Questi concetti espressi da grigi signori che approfittano dell’evento per inquinarlo con la solita tirata antifascista (non vogliono proprio smetterla di tirarlo continuamente in ballo, questo fascismo, non vogliono farlo morire, questo fascismo, il ricorso al quale, o ad una sua accezione svuotata di senso, avviene in continuazione quando non si hanno idee e capacità per costruire qualcosa di nuovo, per fare nuova la storia). Questa volta l’occasione è stata porta dall’evocazione di un Toscanini presentato come un convinto antifascista, mentre chiunque conosca un po’ di storia e non solo quella scritta dai vincitori e appresa sui banchi di scuola di regime, sa che oltre che convinto interventista e ammiratore di D’Annunzio la cui figura e la cui impresa andò ad omaggiare a Fiume con uno storico concerto, fu fervente sansepolcrista, candidato non eletto al Parlamento con la lista Mussolini, fino al vile episodio del ’31 amico ed estimatore di questi e spregiatore dei gerarchetti suoi lacché, gli stessi che saranno protagonisti dell’episodio di violenza che  lo spingerà a ‘rifugiarsi’ in America (quel bel modello di democrazia che esporta tutti i mali, le prevaricazioni e le guerre del  mondo -Tocqueville doveva avere le traveggole, quando ne scrisse, come più tardi le avrà Dewey). Amo troppo la musica e troppo Parma per non rispettare e non stimare, senza farne il mito che altri ne fanno (gli preferisco di gran lunga i Richter, i Furtwängler, i Karajan) quell’antipatico e scorbutico violoncellista parmigiano di nome Arturo ritrovatosi per caso proiettato su un podio, il direttore più dispotico e odiato dai professori d’orchestra, continuamente aggrediti e innervositi dalle sue prevaricazioni e dai suoi insulti.

   Fosse restato in Italia a combattere il Fascismo dall’interno mi sarebbe più simpatico. Ma come Thomas Mann (questo sì un idolo che continuo a venerare e che perdono soprattutto per via del Doctor Faustus) preferì andarsene. E non ne guadagnò l’arte. In una nota di premessa all’odierna puntata di Petruska, l’interessante rubrica curata dal presidente di Santa Cecilia Dall’Ongaro, circa il rapporto musica-fascismo si fa chiara luce. In essa si fa riferimento alle… “forme e i contenuti della musica del Ventennio - a partire dalle premesse rivoluzionarie del futurismo e del gruppo degli Ottanta - e la raffinata ricerca formale di Alfredo Casella, compositore dal respiro internazionale. Michele dall’Ongaro intraprende un'analisi della musica italiana durante il fascismo, nella puntata di Petruska dal titolo "Croma e moschetto". Della damnatio memoriae comminata alla musica del periodo fascista, dall’Ongaro parla con Fiamma Nicolodi, musicologa, che ci spiega come al fascismo non interessasse imporre e neppure proporre un codice estetico, ma solo supportare i compositori che potevano far ben figurare l’Italia nel panorama europeo. La libertà nella ricerca musicale viene scambiata dai musicisti con il disimpegno politico, a parte alcune eccezioni come quella di Massimo Mila. Ne segue l’apparente paradosso per cui in Italia si può ascoltare molta della musica ‘degenerata’, ostracizzata dal nazismo, e si può perseguire una ricerca musicale pienamente indipendente dalla politica. Nella seconda parte, Michele dall’Ongaro incontra il direttore d’orchestra Gianandrea Noseda, grande conoscitore di Alfredo Casella, di cui ha recentemente rivisto e diretto La donna serpente. Noseda fa parte di quel nutrito gruppo di direttori italiani che avendo frequentato a lungo i palcoscenici di tutto il mondo misura con un metro internazionale anche la musica italiana. Lo aspettano incarichi prestigiosi - Principal guest Conductor della London Symphony e nella prossima stagione Direttore della National Symphony Orchestra a Washington - ed è stato nominato Opera Conductor of the Year 2016”.

   L’‘evento dell’anno’ si conclude come peggio non potrebbe. La fata turchina Milly pronuncia due o tre parole di saluto, non più, e ciononostante riesce ad esser sgrammaticata; e un funereo Bruno Vespa iellatorio, ingobbito, di nero vestito come un medico della peste ma senza il becco corvino (forse perché il suo naso al naturale basta e avanza) saluta, velocemente per fortuna, come solo lui sa fare ed augura buone feste e buon anno. Io faccio gli scongiuri.

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   Questo pomeriggio lo spazio riservato da Rai5 ala prosa è stato riempito dai Frateli Karamazov nella storica edizione bolchiana del 1969 sceneggiata da Diego Fabbri, con Gianni Agus, Orso Maria Guerrini, Salvo Randone, Glauco Onorato, Carla Gravina, Sergio Tofano, Carlo D'Angelo, Corrado Pani, Umberto Orsini, Lea Massari, Carlo Simoni , Cesare Polacco , Laura Carli , Antonio Battistella , Roldano Lupi: la crème de la crème degli attori di teatro dell’epoca. La trama è presto detta:

Dmitrij si apposta sotto casa del padre, anch'egli invaghito di Gruenka, convinto che la ragazza debba recarsi da lui. Durante l'appostamento parla con Alksei e gli racconta della sua storia con Katerina. Ma al centro della storia è la vicenda umana di una famiglia che lo sceleratus amor habendi sconquassa. Protagonisti della tragedia sono un padre, Fedor, e tre figli - Dmitri Ivàn Alksej - oltre ad un quarto naturale, Smerdjakov, nato da una relazione con una vagabonda. Questa trama non certo originalissima è infittita da un materiale drammatico tra i più alti di tutta la letteratura russa se non mondiale, nel quale spicca la Leggenda del Grande Inquisitore, narrata da Ivàn, lo spirito libero della famiglia, ad uno sconvolto Alioscia (Alkei) che ha trovato placazione tra le mura di un convento.

   In uno degli ultimi anni della mia docenza dedicai un corso intero ai Fratelli Karamazov e soprattutto alla Leggenda, secondo me clou del romanzo e capitolo più ricco di implicazioni teologiche, filosofiche e pedagogiche. La figura, anche metaforica, del Cristo tornato sulla terra e rimesso a morte dal Grande Inquisitore per aver promesso la libertà al genere umano e non esserci riuscito, consentendo ai suoi autoproclamatisi vicari di tiranneggiarlo, e quella storica del tormentato Dostoieskji impressionarono molto il mio giovane uditorio, proveniente per lo più da un ambiente rigorosamente cattolico. Una delle studentesse, diplomatasi al liceo artistico, seppe trasfondere in un intenso ritratto a matita del grande Russo tutti i tormenti interiori e il sofferto misticismo della sua anima slava, che evidentemente erano anche i suoi. Forse un po’ di merito fu anche, della mia lettura dis-educativa del Capolavoro, fedele al principio di una funzione didattica finalizzata  non a conferire liberatorie certezze, ma a seminare inquietudini e turbamento nelle coscienze.  

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   Chàirete Dàimones!

   Laudati sieno gli dei, e magnificata da tutti viventi la infinita, semplicissima, unissima, altissima et absolutissima causa, principio et uno (Bruno Nolano)

 

 
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