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Messaggi del 15/04/2018

Quirino Principe, "Francesca da Rimini" di D'Annunzio-Zandonai alla Scala

Post n°982 pubblicato il 15 Aprile 2018 da giuliosforza

Post 902

Riproduco qui, per gli amici dannunziani e melomani, dal “Sole 24 Ore” domenicale di oggi, un interessante articolo del noto storico, filosofo e musicologo Quirino Principe, nella speranza di far loro cosa gradita.

Quirino Principe: Francesca da Rimini. L’eros eterno di Dante e di Wagner.

Alla Scala l’opera di Zandonai su libretto di D’Annunzio, ora riedito per Salerno Editrice: la vicinanza a “Tristan und Isolde”.

“In un libro di Sossio Giametta, grande studioso e traduttore di Nietzsche, la relazione tra quest’ultimo e Wagner è individuata come il più significativo fra i nodi ci pensiero che esprimano l’essenza dell’Occidente post-cristiano e moderno. Sentiamo di condividere il giudizio, e ne traiamo una conseguenza. In Tristan und Isolde, immensa ipostasi dell’Occidente che amiamo e in cui ci riconosciamo e per cui combattiamo e combatteremo. Wagner ci offre la decifrazione della fondamentale antinomia che coinvolge l’essere umano, ogni altro essere, il microcosmo e il macrocosmo. Eros dona il massimo appagamento e la massima felicità, Eros infligge atroce ferita e intollerabile infelicità, così come nel frammento (48 DIELS-KRANZ) bios è la vita ma anche l’arco da cui vola la freccia della morte.

    "La contraddizione si annulla soltanto se l’antinomia è spinta a un’estrema conseguenza: Thanatos. I due amanti sono uno in aeternum, quando si avvera il sublime verso dantesco in cui Francesca pone l’epigrafe al suo destino, a conclusione della duplice anafora: Thanatos è il vero compimento di Eros, soltanto in Thanatos la loro unione è invincibile.

    "Come valutare l’opera che va in scena alla Scala oggi 15 aprile, diretta da Fabio Luisi, con regia di David Pountney, e con Maria-José (Francesca), Marcelo Puente (Paolo), Gabriele Viviani (Giovanni lo sciancato), Luciano Ganci (Malatestino). Riccardo Zandonai (Sacco di Rovereto, mercoledì 30 maggio 1883-Pesaro, lunedì 5 giugno 1944), compositore più agguerrito culturalmente rispetto a molti altri suoi colleghi italiani, grande lettore con escursioni in svariate letterature, dalle nord-europee a quelle orientali, scelse con entusiasmo come soggetto l’episodio dantesco di Inferno V 82-138. Già quando aveva 16 anni, tra il settembre 1899 e il febbraio 1900, Zandonai aveva composto una cantata per tenore e orchestra su quegli stessi versi di Dante.

    "L’entusiasmo fu riacceso un anno dopo, quando apparve la tragedia in versi Francesca da Rimini di Gabriele D’Annunzio, “poema di sangue e di lussuria”, andata in scena al Teatro Costanzi (oggi Teatro dell’Opera di Roma) lunedì 9 dicembre 1901. In quell’anno Antonio Scontrino compose le musiche di scena per la tragedia. E’ una lieta coincidenza che in questi giorni esca, per l’editrice Salerno e con la consueta esattezza e ricchezza filologica e bellezza editoriale, una nuova edizione della tragedia, da cui appare meglio il  sapiente mosaico di riferimenti danteschi e pre-danteschi costruito da D’Annunzio (sin dall’inizio, là dove un giullare canta alle ancelle il Meravigliosamente un amor mi distringe di Jacopo da Lentini). Dodici anni dopo, Zandonai riprese in mano il soggetto, configurandolo come una grande e ambiziosa opera, e sognando di assorbire nella propria musica l’alta poesia e la raffinata e coltissima drammaturgia di D’Annunzio. Il poeta si mostrò singolarmente disponibile, anche a consentire uno “sfondamento” soprattutto nei confronti dei passi più concettualmente ardui del testo dannunziano. Per tale operazione, Zandonai fruì del lavoro del suo stesso editore, Tito Ricordi (“Tito II), Milano, mercoledì 17 maggio 1865-ivi, giovedì 30 marzo 1933). L’opera andò in scena al Regio di Torino giovedì 19 febbraio 1914.

    "E’ legittimo pensare che Francesca da Rimini di Zandonai sia, se non proprio un (o “il”) Tristan und Isolde italiano, almeno un erede, portatore di un frammento ardente della stessa energia ignea, dello stesso Eros? Crediamo che così sia. Se l’assoluto capolavoro wagneriano è la più alta epifania dell’archetipo a noi indicato ottant’anni fa da Denis de Rougemont come “l’Amour et l’Occident”, senza dubbio, dopo il “récit” tristaniano filtrato attraverso  varianti e metamorfosi da Kyot a Chrétien de Troyes a Thomas a Béroul a Gottfried von Strassbourg ad Alain Chartier a Pierre Sala, nessuna trama narrativa più o meno storica è così fascinosamente vicina al primigenio “Urbild” quanto la sanguinosa vicenda dei due cognati di Romagna. Già il triangolo dantesco si sovrappone facilmente alla terna Isolda-Tristano-Marke; inoltre, l’abile esplicitazione, che risulta dal testo di D’Annunzio ritoccato da Ricordi, di Malatestino  “dall’Occhio” («quel traditor che vede pur con l’uno», Inferno, XXXVIII, 85) fatto rientrare nella trama in nome del “verosimile”, invoca l’analogia con il traditore, libidinoso respinto e vendicativo sire Melot. Colpisce, poi, il convergere delle due conclusioni: la definitiva indissolubilità dei due amanti nella loro condizione finale. Ciò fa sì che la leggenda-mito di Tristano e Isolda “in pectore” molto dantesca (dolente, cortese, asperrima), e che il testo dantesco di Inferno V sia “in pectore” molto tristaniano. L’incontrarsi delle due “inventiones” era inevitabile, e il terreno di incontro non poteva essere se non la musica, il cui linguaggio illumina di colpo ciò che anche se affidato alla parola più alta può rimanere oscuro. Ciò spiega l’immensa fortuna musicale del testo di Dante, da Liszt (Dante-Symphonie, 1856),a Tschaikovskij (1876), Thomas (1887), Goetz (1876, Cagnoni (1878), Mancinelli (1907), Mercadante (1831), fino alla bellissima Frančeska da Rimini (1906) di Sergej Vasil’evič Rachmaninov. Sotto tale prospettiva, il finale della Francesca di Zandonai è terribile e meraviglioso. Abbiamo sempre osservato che il “castigo” inflitto da Dante ai due “lussuriosi” (essere avvinti in eterno, indissociabili) è in realtà un dono inestimabile: Dio, se è veramente Dio per definizione, non può non premiare i due amanti in nome di Eros, e infatti concede ad essi, in eterno, ciò che essi sognarono da vivi. In D’Annunzio-Zandonai-Ricordi, alla fine Gianciotto trafigge con lo stocco i due cognati mentre essi sono in piedi, avvinti, e si baciano. Il colpo mortale non li divide: avvinti essi scivolano a terra, e tali rimangono, eternamente appagati, nella «bufera infernal, che mai non resta»”.

 

 

 

 
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