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Messaggi del 11/05/2021

Napoleone nel "Giudizio universale" di Papini. "Il ragazzo del Risciò" di Guo Wenjing

Post n°1082 pubblicato il 11 Maggio 2021 da giuliosforza

992      

  Come mio modesto contributo al ricordo di Bonaparte nel duecentesimo anniversario della morte, all’Uomo nel quale Dio“volle / del Creator suo Spirito / più vasta orma stampar” (Manzoni, 5 Maggio); a Colui “qui plus grand que César, plus grand même que Rome / absorbe dans son sort le sort du genre humain” (cito a mente da non ricordo quale poesia di Victor Hugo, che ebbe per Napoleone I il Grande tanta ammirazione quanto odio e disprezzo nutrì per il nipote Luigi Napoleone III, che lo obbligò all’esilio e contro il quale  si vendicò scrivendo il famoso pamphlet ‘Napoléon le petit’) riporto le pagine, sempre originali e vivaci e sempre provocatorie, come è nel suo stile, che Papini dedica al Corso nel suo incompiuto e postumo ‘Giudizio Universale’ (Mondadori 1966, pp.239-241) dalle quali il Personaggio Napoleone  emerge in tutta la sua complessità.

   “Angelo (giudicante):

   “Tu fosti il più grande capitano di eserciti dei tuoi tempi e uno de’ più famosi conquistatori d’ogni tempo. Molti videro in te un altro e maggiore Alessandro, qualcuno ti giudicò, invece, un battistrada dell’Anticristo.

   Ma dopo aver messo in moto e in lotta e in soggezione tutti i popoli, dopo aver sacrificato tante vite, ispirati innumerevoli amori, furori e terrori, del tuo turbinoso passaggio sulla terra non rimasero che fumacchi di sconfitte e fumosità di orgogli.

   Napoleone:

   Rimase una visione di gloria e un bisogno di grandezza. Le generazioni venute dopo di me non seppero e non vollero dimenticarmi; sulla mia vita furono scritte, in tutte le lingue del mondo, centinaia di migliaia di libri. Quando un semplice mortale ha saputo lasciare una tal fame di ricordo nei cuori degli uomini è segno ch’essi sentono di essere suoi debitori. Io smunsi i loro averi e li condussi a morire eppure molti di essi mi amarono appassionatamente fino all’ultimo e infiniti altri, dopo la mia morte, mi ammirarono, furono attratti dal mio nome e dalle mie gesta e le immagini della mia vita esaltarono in essi fantasia e volontà. S’io fossi stato soltanto un decimatore di giovani, un massacratore di folle, un usurpatore ciarlatano gli uomini mi avrebbero subito odiato e presto dimenticato. Essi hanno sentito, anche quando non potevano è sperare né temer più nulla da me, ch’io rappresentavo miti e principî cari al pensiero del genere umano: la gioventù vittoriosa di Alessandro, l’unità europea di Augusto e di Carlomagno, l’impero di giustizia e l’uguaglianza della Rivoluzione, la rivincita del genio sconvolgitore sui vecchi schemi, sui vecchi regimi, sui vecchi generali e i vecchi monarchi. E per tutto questo, nonostante che io abbia dissanguato tanti popoli, fui amato e adorato da quelli stessi che incalzavo verso la morte.

   Anche il mio cuore si turbava quando percorrevo, il giorno dopo, i campi di battaglia, tra i cadaveri degli uccisi e i gemiti dei moribondi. Ma pensavo che l’unica via che s’apre ai piccoli e agli oscuri di partecipare alla grandezza è quella di offrire oro, sangue e vita per le grandi idee e le grandi imprese. Quelli che inorridiscono all’idea degli uomini considerati carne da cannone non pensano che la maggior parte dell’umanità non è altro, per colpa di tutti, se non carne da fatica, da latrina e da bordello.

   Non nego le mie colpe, non rifiuto le mie responsabilità. La mia frenetica passione di gloria, la mia ambizione di sterminato impero, la mia pertinace volontà di comandare, di signoreggiare, di rifare e di vincere, il mio disprezzo per l’armento umano e per coloro che rappresentavano il potere spirituale, la mia indifferenza, la mia simulazione, la mia crudeltà furon tali che soltanto la divina generosità del mio Creatore potrà comprenderle e forse perdonarle.

   Ma già sulla terra ebbi una punizione ch’io non potevo immaginare, allora, più dura e severa. Una paradossale vendetta volle far sì ch’io ottenessi nella storia degli uomini tutto l’opposto di quel che avevo sognato e voluto.

   M’ero proposto di ricostruire l’impero dei Cesari e di Carlo Magno, cioè l’unità europea che mi pareva gradino necessario verso l’unità del pianeta, e invece suscitai e promossi le passioni di indipendenza nazionale. Volli esser l’apostolo armato della Rivoluzione e invece nei più nobili popoli del continente: Grecia, Italia, Spagna e Germania. Mi proposi di abbattere la potenza piratesca della piratesca e mercantesca Inghilterra e dovetti lasciarla più potente che mai, mentre agonizzavo nelle mani di aguzzini inglesi.

   Volli esser l’apostolo armato della Rivoluzione e invece, dopo la mia caduta, prevalse per lunghi anni la Santa Alleanza, cioè la restaurazione del vecchio despotismo e la reazione contro i principi che avevano trionfato nella mia anima giovanile.

   Desiderai di fondare una nuova e duratura dinastia ma l’unico figlio morì oscuramente, senza avere regnato, nelle mani dei miei nemici e quel mio nipote che riuscì un momento a risollevare le mie aquile e a diventar padrone della Francia fu travolto dalla disfatta e morì in esilio.

   In me si videro riunite quelle grandezze che di rado vanno insieme: grandezza d’intelletto, grandezza di volontà, grandezza di fortuna, di potere, di fama. Eppure dopo tante vittorie, dopo tanti sacrifici, dopo tante imprese e tante glorie, dopo aver mosso e commosso metà della terra abitata dovetti confessare a me stesso, laggiù nella remota prigione oceanica, ch’io ero soltanto, alla fine un fallito e un vinto. Un uomo che era riuscito soltanto a ottenere il contrario di quel che l’anima sua aveva vagheggiato e agognato. Il succo di tutte le mie gesta, che pure sembrarono meravigliose, è questo: la piccolezza dei grandi, la sconfitta dei vittoriosi, la miseria dei conquistatori, l’impotenza dei potenti. E Dio mi volle, forse, grande e infelice perché fossi un ammonimento e un castigo per gli uomini”.

   Qui il Papini ‘convertito’ ad un radicale suo personalissimo fondamentalismo ‘cattolico’, fa terminare la confessione di Napoleone di fronte all’angelo giudicatore. Ma si tratta di una confessione, caro il mio Papini, che Napoleone, che aveva il senso della storia, e sapeva che la storia ha tempi lunghi, talvolta lunghissimi, non avrebbe mai fatto, almeno nella sua integralità: Napoleone sapeva d’aver svegliato  l’Europa e il mondo dal loro secolare torpore, che il risveglio politico e culturale delle nazioni era  la premessa necessaria per una eventuale unificazione dell’Europa e del mondo che non fosse un affastellamento senza senso, un mucchio, un puro ‘coudoiement’, come avrebbe detto il mio Maestro Gabriel Marcel, una massificazione globalizzante e disumanizzante, come avviene in una qualsivoglia società, dalla più piccola alla più grande, i cui membri non siano prima maturati, come ‘in-dividui’, in scienza e coscienza, in Conoscenza e Cultura. E era cosciente, Napoleone, di aver dato uno scossone da sisma cosmico alla secolare potenza e prepotenza albionica, come poi la storia dei due scoli successivi avrebbe dimostrato (Wellington a Waterloo vinse una fortunosa battaglia, non la Guerra). Si può essere grandi condottieri e grandi uomini insieme? Si è mai avuta grande rivoluzione ‘sine sanguinis effusione’? (Paolo scrive ‘remissio’, mai i due termini sono in più di un senso controvertibili). Non sembra esser la guerra una terribile legge di natura, non solo della natura umana? Si può essere efferati e insieme amare sconfinatamente, e ai suoi luoghi umilmente pellegrinare, l’uomo più pacifico e pacifista del mondo, Jean-Jacques Rousseau? Si può riportare alla luce intere civiltà, come quella egiziana, creare un codice più illuminato di quello giustinianeo, posseder una immensa biblioteca …itinerante come i suoi eserciti, si può avere, prima dell’autoincoronazione, la stima incondizionata del Gigante autore dell’Eroica, ed essere un tiranno oscurantista? Si può sconvolgere le sterili maggiatiche dell’Europa e del mondo, seminare semente LEF (leggi ‘Légalité Égalité Fraternité’) senza di lui destinata a rimanere a marcire negli scantinati di una Francia a quel punto inutilmente rivoluzionaria? Domande, domande, sempre più domande. E la domanda definitiva: fu vera gloria? Manzoni affidò nella stessa Ode ‘ai posteri l’ardua sentenza’. Noi siamo di due secoli oggi posteri, ma la risposta è ancora, come due secoli fa, controversa, se non contraddittoria: immenso Uomo e Condottiero Napoleone per gli uni, immenso criminale per gli altri. E, c’è da giurarlo, sempre ardua la risposta resterà nei secoli a venire. Da quale parte io, con qualche riserva, stia, non ha importanza. Ma non è difficile intuirlo. E ancor meglio lo si intuirebbe se avessi la faccia tosta e l’impudenza di ripubblicare qui, provocando l’ira di molti miei amici, i due sonetti in francese che in lode del Corso scrissi davanti alla sua tomba nella Cappella dell’Hotel des Invalides tanti anni fa con l’esuberanza dei giovani, ai quali tutto si perdona. Una cosa è certa: Napoleone continua e continuerà ad essere un Signum contradictionis, come dei grandi Rivoluzionari fu e fu detto. Più segno di grandezza e di gloria di questo?

*           

   “Guida TV

   Il ragazzo del risciò

   In onda Il ragazzo del risciò (Luotuo Xiangz), opera del compositore cinese Guo Wenjing registrata al Teatro Regio di Torino nel settembre 2015 per il Festival MiTo SettembreMusica, commissionata dal National Centre for the Performing Arts di Pechino ed eseguita in prima mondiale a Pechino il 25 giugno 2014 nell’ambito del 2014 NCPA World Opera Forum. Leggo nella presentazione: “L’opera in due atti, su libretto di Xu Ying, è tratta dall’omonimo romanzo di Lao She (1899-1966), uno dei massimi rappresentanti della letteratura cinese moderna. Il protagonista è Xiangzi, un ragazzo di campagna giunto a Pechino all’inizio del 1900 in cerca di fortuna. Il suo obiettivo è avere un risciò tutto suo; nonostante la sua buona volontà e il duro lavoro, la guerra, i rovesci della fortuna e una società dura governata dal denaro capovolgeranno i suoi progetti. Pechino, la città «sporca, bella, decadente, vivace, caotica» fa da sfondo non casuale alla storia, vibrando di una vita che pare partecipare alle sofferenze degli umili: «L’unico amico che Xiangzi aveva, era questa antica città». Punto centrale della drammaturgia dell’opera è il rapporto tra Xiangzi e il suo veicolo, con il quale il protagonista intrattiene un legame quasi viscerale: i due si muovono dentro un gigantesco affresco, cupo e senza speranza. Il risciò è simbolo di anelata libertà ed è, nel contempo, giogo crudele: il servo vuole affrancarsi dal proprio padrone ma è, in qualche modo, vinto dall’oggetto del suo sogno. Questo perché, in una società dai rapporti così iniqui, ai più miseri e deboli non è neanche consentito sognare. Autore della partitura è il compositore Guo Wenjing. Nato a Sichuan nel 1956, Wenjing si è formato presso il Conservatorio di Pechino decidendo, a differenza di altri suoi illustri colleghi quali Tan Dun, Chen Yi o Zhou Long, di vivere e lavorare in Cina. Tra i suoi lavori spicca Chou Kong Shan (Montagna mesta e desolata), un concerto per flauto cinese di bambù e orchestra, eseguito per la prima volta dall’Orchestra Sinfonica di Göteborg in Svezia con la direzione di Neeme Järvi; Sound from Tibet (2001) per ensemble di strumenti cinesi e occidentali e il Concerto per ehru, il tradizionale violino cinese a due corde, commissione congiunta dell’Orchestra Sinfonica di Singapore e della Radio Bavarese, eseguito anche nell’importante festival di musica contemporanea ‘Musica Viva’ di Monaco. Proprio il gusto per la contaminazione caratterizza il percorso artistico di Wenjing, teso a rinnovare il linguaggio musica”.

   La mia impressione è che di nessuna contaminazione né di nessun rinnovamento del linguaggio musicale si tratti. Di gradevole musica occidentale pura e semplice si tratta, e senza la specificità del racconto, dei protagonisti, dei costumi, delle scenografie, vedendo l’Opera rappresentata in uno dei nostri teatri non avrei proprio saputo immaginarla come cinese. Forse è un mio limite.

 

 
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Il Dante di Harold Bloom, seguito e fine

Post n°1081 pubblicato il 11 Maggio 2021 da giuliosforza

991

   (seguito)  

   “Per il comune lettore che può assimilare la Commedia in lingua originale, Beatrice è di rado un enigma, perché i critici italiani sono molto diversi dagli studiosi angloamericani, nell’accostarsi a Dante, e la loro mondana percezione del poeta è percolata fino a lui. Faccio tesoro dell’osservazione di Giambattista Vico, che perfino Omero avrebbe ceduto il primato a Dante, se il toscano fosse stato meno dotto in teologia. Come Freud (e tutti i mistici) Dante credeva possibile la sublimazione dell’eros, ben lontano in ciò dal Cavalcanti, che considerava l’amore una malattia da cui guarire. Dante, che dannò Paolo e Francesca come adulteri, era noto per l’inclinazione per donne assai diverse (nella sua prospettiva) dalla sacralizzata Beatrice. Quasi il solo luogo in cui lui e Shakespeare si incontrano è nella comune supremazia nell’esprimere i dolori dell’eros, propri e altrui:

   Ma ben ritorneranno i fiumi ai colli

   prima che questo legno molle e verde 

   s’infiammi, come suol far bella donna,

   di me; che mi torrei dormir in petra

   tutto il mio tempo e gir pascendo l’erba,

   sol per veder do’ suoi panni fanno ombra.

   È la sestina Al poco giorno, una delle ‘rime petrose’ che Dante appassionatamente dedicò a tale Petra, Se Beatrice è poco shakespeariana, Pietra lo è, e non stonerebbe accanto alla park lady dei Sonetti:

   Sciupio vitale in scempio di vergogna

   È lussuria in azione, e lì, lussuria

   È spergiura, di sangue e infamia sozza,

   brutale estrema incredibile cruda.

   Goduta appena, subito si spregia (…)

   Le letture pie di Dante non sono così chiaramente immotivate come i tentativi di cristianizzare le tragedie di Amleto e Lear, ma nuocciono alla Commedia più del risentimento femminista, che si scaglia contro l’idealizzazione di Beatrice. Le lodi che Dante le rivolge sono d’intensità struggente; la sua esaltazione di un amore non ricambiato è più problematica, a meno di risalire alle strane visioni di quando, ancora bambini,  ci si invaghisce di qualcuno che a stento si conosce, e forse non si vedrà mai più. Finemente, T. S. Eliot ha congetturato che l’esperienza di invaghirsi di Beatrice sia stata vissuta da Dante prima dei nove anni; e il paradigma numerologico può in effetti averlo indotto a post-datarla di un anno o due. Noi, comunque, che non siamo lui, poco riceveremmo da un’analoga epifania, ed è suo merito esclusivo essere da lì partito per realizzare quello che sappiamo.

   Se è universale nell’origine, beatrice diventa nella Commedia un simbolo esoterico, il centro della personale gnosi del poeta, essendo per suo tramite che questi asserisce un sapere assai meno tradizionale di quanto molti esegeti siano disposti ad ammettere. L7’intramontabile fama dell’Inferno non ha oscurato l’eloquenza drammatica del Purgatorio, i cui lettori sono ancora un numero apprezzabile. L’immensa difficoltà è del Paradiso, benché proprio tale difficoltà sia il marchio indisputabile del genio di Dante, che dilaga oltre i limiti della letteratura di immaginazione. Non possediamo nulla che gli assomigli, tranne, chissà, certe sequenze delle Rivelazioni della Mecca del sufi andaluso Ibn Arabi (1165-1240), che aveva conosciuto la sua Beatrice alla Mecca. Nizam, la Sofia della Mecca, come la Beatrice fiorentina è il centro della teofania, e converte Ibn Arabi a un amore sublimemente idealizzato.

   A settantun anni, non sono forse ancora pronto per il Paradiso (in cui, comunque, in quanto di fede ebraica non sono destinato a entrare), e ho cominciato a distaccarmi dall’Inferno, terrificante ancorché sublime. Continuo invece a visitare il Purgatorio, per ragioni magnificamente espresse da W. S. Merwin nella prefazione alla propria eccellente traduzione della cantica mediana della Commedia.

    Delle tre sezioni del poema, solo il Purgatorio è sulla terra, la terra in cui viviamo, e sulla quale posiamo i piedi, attraversando una spiaggia, arrampicandoci su un monte… E fino alla suprema cima del monte, la speranza si mischia al dolore, avvicinandosi ancor più alla vita presente.

    Tutti i miei amici dissentono su quale canto del Purgatorio sia da preferire. Personalmente, scelgo il XXVIII, con la sua visione di Matelda che coglie i fiori del Paradiso terrestre.

    Vago già di cercar dentro e dintorno

   La divina foresta spessa e viva,

   ch’a li occhi temperava il novo giorno,

   sanza più aspettar lasciai la riva,

   prendendo la campagna lento lento

   su per lo sol che d’ogni parte auliva.

   Un’aura dolce, sanza mutamento

   avere in sé, mi feria per la fronte

   non di più colpo che soave vento;

   per cui le fronde, tremolando, pronte

   tutte quante piegavano a la parte

   u’ la prim’ombra gitta il santo monte;

   non però dal loro esser dritto sparte

   tanto, che li augelletti per le cime

   lasciasser d’operare ogne lor arte;

   ma con piena letizia l’ore prime,

   cantando ricevieno intra le foglie,

   che tenevan bordone alle sue rime,

   tal qual di ramo in ramo si raccoglie

   per la pineta in su ‘l lito di Chiassi,

   quand’Eolo scilocco fuor discioglie.

   Già m’avean trasportato i lenti passi

   Dentro a la selva antica tanto, ch’io

   Non potea riveder ond’io mi trassi;

   ed ecco più andar mi tolse un rio,

   che ‘nver sinistra con sue picciole onde

   piegava l’erba che ‘n sua ripa uscio.

  Tutte l’acque che son di qua più monde,

   parrieno aver in sé mistura alcuna

   verso di quella, che nulla nasconde,

   avvegna che si mova bruna bruna

   sotto l’ombra perpetüa, che mai

   raggiar non lassa sole ivi né luna.

   Coi pié ristetti e con li occhi passai

    di là dal fiumicello, per mirare

   La gran varïazion d’i freschi mai;

   e là m’apparve, sì com’elli appare

   subitamente cosa che disvia

   per maraviglia tutto altro pensare,

   una donna soletta che si gia

   e cantando e scegliendo fior da fiore

   ond’era pinta tutta la sua via.

   ‘Deh, bella donna, ch’a raggi d’amore

   ti scaldi, s’i vo’ credere a’ sembianti

   che soglion esser testimon del core,

   vegnati voglia di trarreti avanti’,

   diss’io a lei, ‘verso questa rivera

   tanto ch’io possa intender che tu canti.

   Tu mi fai rimembrar dove e qual era

   Proserpina nel tempo che perdette

   La madre lei, ed ella primavera’.

   In un’indimenticabile versione inglese, Shelley mantiene la ‘terza’ rima dantesca al prezzo di qualche forzatura del senso originale, ma cogliendo la sorpresa e lo splendore dell’apparizione di Matelda, che ha capovolto la caduta di Proserpina ed Eva, e prefigura il ripresentarsi a Dante della visione di Beatrice. Possono esservi stati in Shelley anche echi del Racconto d’inverno, di Shakespeare, Perdita essendo l’equivalente shakespeariano di Matelda.

   Oh, se avessi i fiori che tu, Proserpina, spaventata, lasciasti cadere sul carro di Plutone! Narcissi che precedono gli ardimenti delle rondini e affascinano di loro bellezza i venti di marzo (,,,)”.

   Perché Dante abbia chiamato Matelda la fanciulla canterina del ripristinato Eden è un enigma, per il quale studiosi diversi propongono diverse soluzioni. L’apparizione di Matelda è effimera, ma perversamente preferisco lei a Beatrice, che spiega e rabbuffa, e per Dante è in eterno irraggiungibile. Come la Perdita shakespeariana, Matelda ci incanta. Chi, che son l’indomito Dante, avrebbe potuto restar fedele alla paradisiaca Beatrice? Chi, a parte Dante, non s’innamora di Matelda, come ci appare in queste altre terzine?

   (…) E avvegna ch’assai possa esser sazia

   La sete tua perch’io più non ti scuopra,

   darotti un corollario ancor per grazia;

   Né credo che ‘l mio dir ti sia men caro,

   se oltre promession teco si spazia.

   Quelli ch’anticamente poetaro

   L’età de l’oro e suo stato felice,

   forse in Parnaso esto loco sognaro.

   Qui fu innocentel’umana radice;

   qui primavera sempre e ogne frutto;

   nettare è questo di cui ciascun dice’.

   Bella e gentile, misteriosa epitome di ogni giovane donna innamorata, Matelda cammina con Dante sull’erba come se l’età dell’oro fosse ritornata. Il suo passo è di danza, e non è il caso di appesantirlo gravandola di allegorie e collegandola a nobildonne realmente vissute e celebri contemplative. Notoriamente sensibile al fascino femminile, Dante si sarebbe certo invaghito di Matelda se la trasfigurata Beatrice, un po’ madre e un po’ istitutrice, impossibile oggetto del desiderio, non lo avesse atteso nel canto seguente.

   William Hazlitt, superbo critico letterario del romanticismo britannico, reagì a Dante in modo più ambivalente di Shelley e di Byron; cionondimeno ha colto una delle ragioni della sua originalità, uno degli stratagemmi del suo genio:

   Egli ci avvince solo in quanto suscita in noi per simpatia le emozioni dalle quali è preso egli stesso. Non colloca davanti a noi gli oggetti dai quali l’emozione è suscitata, ma cattura la nostra attenzione, mostrando l’effetto che producono sui suoi sentimenti; e perciò la sua poesia genera spesso la reazione intensa, quasi soverchiante, che siha guardando il volto di chi ha scorto qualcosa di terribile.

   Hazlitt pensava all’Inferno, non alla Matelda del Purgatorio, in cui l’emozione sarebbe semmai quella suscitata dal volto di chi contempla una causa di suprema delizia”.

 

 
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D'Aubigné, Anouilh, Hanz Werner Henze, Il Dante di Bloom

Post n°1080 pubblicato il 11 Maggio 2021 da giuliosforza

990

   Proseguo con interesse la lettura del Dizionario dei miti letterari, e alla voce Antigone trovo citato Agrippa D’Aubigné, il poeta e uomo pubblico cinquecentesco covertitosi con zelo al Protestantesimo e autore di un vasto poema sugli eventi seguiti alla Notte di San Bartolomeo, Les Tragiques, che non ho letto nella sua integrità ma di cui ho spesso riportato un alessandrino da dedicare, con tenera ironia, ad una amica non più giovanissima: Une rose d’automne est plus qu’une autre exquise. Senza nessun riferimento, è chiaro, alla ‘filigrana vivente’ cantata con altri gentili simboli dal Pescarese.

   Di seguito su Rai5 Il viaggiatore senza bagaglio (Le voyageur sans bagage), simpatica commedia di Jean Anouilh in una versione di Ermanno Spataro del 1970, ove si dice di un giovane reduce che ha perso la memoria, tema abbastanza abusato dopo il secondo conflitto mondiale, ma che il drammaturgo francese tratta con la sua ben nota ironia, figlia di un pacato scetticismo che via via si fa nero pessimismo (ironia, scetticismo, pessimismo che caratterizzano tutta l’opera dell’Anouilh, epurato come collaborazionista pétainiano e poi assolto, mentre il suo amico Robert Brasillac, dopo un processo sommario molto contestato e la sua e d’altri intellettuali calorosa difesa, fu condannato a morte a 36 anni, ottimo scrittore, giornalista, poeta e critico cinematografico). Avrei preferito l’Antigone.

   *

  Pomeriggio all’Opera. Die Bassariden di Hans Werner Henze, grande musicista, marxista anacronistico, ischitano d’adozione. Rivisitazione moderna delle Baccanti euripidee, rappresentata nella versione inglese. Scenografia truculenta nelle scene delle menadi scatenate sul Citerone attorno a Diòniso, con nudi integrali femminili nelle scene di thiaso. Spettacolo forte, ma gradevole. Musica che recepisce ogni suggestione, barocca, classica, neoclassica, romantica, moderna, compresi dodecafonia e jazz, fino al recupero della tonalità. Di Henze non conoscevo che il nome. Sapevo solo del suo stalinismo e della sue residenze italiane di Ischia (dove forse qualche volta lo incrociai da Calise) e di Montepulciano che aveva scelto come sede per una grande Istituzione cultural-musicale, il Cantiere Internazionale d'Arte, i cui scopi principali sono l'interazione tra artisti professionisti internazionali e giovani talenti. Pomeriggio non sciupato.

*

   Harold Bloom fu il più noto, e per questo naturalmente il più discusso, critico letterario statunitense, morto nel 2019 a circa novanta anni. I suoi libri più noti sono Il Canone occidentale del 1994 e Il Genio del 2002. Il primo “è la dimostrazione appassionata del perché i grandi scrittori sfuggono all’oblio che copre la maggior parte degli sforzi umani. E infonde speranza sulle possibilità che ciò di cui l’umanità ha goduto fino a oggi possa essere trasmesso ai posteri” (The New York times Book Review), “opera profondamente personale, controversa, discussa, letta in tutto il mondo, …diventata a sua volta, un classico degli studi letterari” (quarta di copertina, BUR 2008, Nona edizione marzo 2020 pp. 588). Il secondo (Rizzoli 2002, pp. 945) “cento storie esemplari per ripercorrere il cammino dell’umanità verso la grandezza”. Seconda di copertina: “Che cosa è il Genio? È il ‘dio della natura umana’, per usare le parole del poeta latino Orazio, è ‘il dio che abbiamo dentro di noi’, secondo Ralph Waldo Emerson, è lo pneuma, il soffio divino degli gnostici, è lo spirito, il daimon che ci guida. È un’idea - e una parola - che la cultura materialista del nostro tempo non ama, e che tenta di spiegare, riducendone la portata, con l’analisi del contesto storico, sociale o culturale, o, ancor più radicalmente, con il determinismo genetico. Ma per il grande critico americano Harold Bloom una definizione materialistica del genio è impossibile, dato che il genio è proprio l’aspirazione allo straordinario e al trascendente che, magari inconsapevolmente, coltiviamo dentro di noi e che alcuni individui hanno saputo realizzare con le loro opere: Per questo, dopo averci insegnato ad amare i grandi classici - con Il canone occidentale e Come si legge un libro (e perché) - e a ritrovare il lato più profondo di noi stessi nelle creazioni di Shakespeare – con Shakespeare. L’invenzione dell’uomo -, Bloom ci aiuta oggi a riconoscere e apprezzare la natura del genio. Limita la ricognizione al campo dei suoi studi, cioè ai geni che hanno scelto la parola come mezzo di espressione, e le cento vite esemplari che racconta compongono un mosaico affascinante che spazia dalla Palestina del X Secolo avanti Cristo, in cui visse il Redattore (o la redattrice) della Bibbia ebraica, alla fine del XX secolo, con Ralph Ellison e Iris Murdoch. Ci sono i vertici della poesia (Shakespeare, Dante, Cervantes, Omero, Virgilio) ma anche i giganti del pensiero come Platone, Nietzsche e Freud e fondatori di religioni come San Paolo e Maometto. Ci sono uomini e donne di tutte le epoche e culture (e tra gli italiani. Oltre che a Dante, Bloom dedica un ritratto a Leopardi, Pirandello, Montale e Calvino). C’è, alla base, un’idea che risale all’antico autore del trattato d Del Sublime: l’anima nostra viene per così dire innalzata sotto la spinta del vero sublime, e, preso possesso di un superbo trampolino di lancio, si riempie di gioia e di orgoglio quasi che essa stessa avesse creato ciò che ha udito”. Il contatto con il genio ci conduce a  una consapevolezza e a una saggezza che non avremmo mai raggiunto da soli: è questa, per Bloom, l’utilità della letteratura per la vita”.

   Il criterio con cui Bloom sceglie gli italiani mi è incomprensibile, e non posso che pensare che egli della nostra letteratura conosca ben poco. Mi vien da ridere quando penso che sia tra i ventisei del Canone che tra i cento de Il Genio non trovi ad esempio posto un Gabriele D’Annunzio, l’Autore italiano con Dante ancor oggi più letto del mondo. E Petrarca, e Boccaccio, e Tasso, e Ariosto, e Marino, e Manzoni, e Foscolo, e cento altri?  Non ci saranno dietro le scelte di Bloom, meschini pregiudizi ideologici e moralistici?

   Oltre Dante, degli italiani ne Il canone occidentale e ne Il Genio di Harold Bloom trovano posto solo Leopardi, Pirandello Montale e Calvino. Davvero stupefacente.

   Nel Il Genio gli autori vengono dieci per dieci collocati, secondo un criterio personalissimo, in ognuna delle sefirot (singolare sefirah, zaffiro, perla, gioiello). Dante trova posto nella prima sefirah,’Keter’, ‘corona’, in compagnia di Shakespeare, Montaigne, Cervantes, Milton, Tolstoi, Lucrezio, Virgilio, Agostino e Chaucer, figure, queste ultime, “ordinate in sequenza a seconda della loro influenza reciproca: ognuno di essi ha tratto ispirazione dal precedente, a eccezione di Lucrezio, che si è orgogliosamente ispirato al filosofo Epicuro”. Non seguirò naturalmente Bloom lungo tutti le dieci sofirot e trascorrerò questo intero sabato, che s’annuncia come il primo vero sabato primaverile, riflettendo sul Dante bloomiano. Non farò sunti: Bloom mi ha messo dinnanzi un lauto pranzo, ormai di esso intendo con tutta calma  cibarmi.

  

   Dante Alighieri 1265-1321

 

   ‘O frati,’ dissi, ‘ che per cento milia

   Perigli siete giunti a l’occidente,

   a questa tanto piccola vigilia

   d’i nostri sensi ch’è del rimanente

   non vogliate negar l’esperïenza,

   di retro al sol, del mondo sanza gente.

   Considerate la vostra semenza:

   fasti non foste a viver come bruti,

   ma per seguir virtute e canoscenza’.

 

   Ulisse rivolge queste ultime parole ai compagni, mentre si approssimano al disastro finale al limite del mondo conosciuto. Molte autorità contemporanee su Dante ci chiedono di condannare Ulisse. Le sue parole, sostengono, mirano solo al suo tornaconto, ed esaltano l’eroismo avventuroso senza riguardo per gli obblighi morali. Ma leggiamo Dante per l’edificazione o per il genio? Benedetto Croce, uno dei più grandi critici italiani, scelse il genio e disse che nessuno nel suo tempo fu motivato più profondamente di Dante dalla passione di conoscere tutto il conoscibile; che è la stessa passione del suo Ulisse, posto, ciononostante, nelle profondità dell’Inferno, con gli altri cattivi consiglieri.

   Quanto a Dante, il pellegrino della Commedia, egli non commenta in nessun modo l’esortazione di Ulisse,

obbligandoci a congetturare. Poiché il viaggio di Dante, nel poema, è un ‘folle volo’ non dissimile da quello di Ulisse, l’affinità poetica tra i due uomini pesa più della loro diversità morale. Come lettore settantunenne, non posso udire Ulisse menzionare ‘questa tanto picciola vigilia dei nostri sensi’ senza associarmi a lui in spirito. E a dispetto dei suoi estimatori teologici, credo che in parte questo abbia provato anche Dante.

   Nulla distrugge il genio di Dante più prontamente dei commenti che esaltano la sua presunta pietà e le sue virtù umane. Nessun poeta, nemmeno John Milton, fu smisuratamente orgoglioso quanto lui. Diffidiamo del trattamento he riservò al suo ‘maestro’ Brunetto Latini, dannato per una sodomia che Dante forse inventò. Stazio, un mediocre poeta romano che senza dubbio morì pagano, trova posto nella Commedia come grande letterato cristiano in pectore. Non precisamente u martire, lo Stazio di Dante può alludere a una certa reticenza del Fiorentino, al quale il proprio genio importava più di tutti i pii precetti di un Agostino o di un Aquinate.

La vita stessa di Dante Alighieri assomiglia a un turbolento poema, più prossima all’Inferno che al Purgatorio, certamente remota dal Paradiso. Le biografie scritte finora sono in gran parte inadeguate al genio di Dante, con l’eccezione della prima, di Giovanni Boccaccio, giustamente descritta da Giuseppe Mazzotta come un’opera coscientemente fantasiosa simile alla Vita Nuova che corrisponde sul piano dell’immaginazione alla costante autodrammatizzazione di Dante nelle sue opere. Ciò non deve sorprendere nessuno; Dante, come Shakespeare, è caratterizzato da tale vastità e ricchezza di pensiero e immaginazione che i singoli biografi, studiosi e critici tendono a coglierne solo aspetti parziali. Raccomando sempre ai miei studenti, rispetto a tutte le altre biografie di Shakespeare, quella del compianto Anthony Burgess, Nothing like the Sun, un romanzo in qualche modo joyceano narrato da Shakespeare in prima persona.

“Il mistico Dante si considerava un profeta, almeno uguale a Geremia o Isaia. Shakespeare, è da presumere, non si stimava a tal punto. La creazione di Amleto, Falstaff e Lear ha molto in comune con Geoffrey Chaucer, l’inventore del Venditore d’indulgenze e della Donna di Bath, e Chaucer ironizza sottilmente su Dante. Bisogna essere Chaucer, per ironizzare su Dante, e in lui stesso l’ammirazione prevale largamente sul dissenso.

   Non si può discutere il genio nella storia del mondo senza imperniare la discussione su Dante, perché tra i geni dell’espressione verbale solo in Shakespeare vi è maggiore ricchezza. Questi ha in larga misura riformato l’inglese: dei ventimila vocaboli da lui impiegati, circa 1800 sono di suo conio, e non posso scorrere un quotidiano senza imbattermi in sparsi giri di frase shakespeariani, la cui origine, probabilmente, è spesso ignorata. Nondimeno l’inglese fu ereditato da Shakespeare, tramite Chaucer e William Tyndale, principale traduttore della Bibbia protestante. Se Shakespeare non avesse scritto nulla, l’inglese moderno avrebbe comunque molto assomigliato all’idioma che oggi conosciamo, mentre il dialetto toscano di Dante è diventato la lingua degli italiani in larga misura grazie alla Commedia. Dante è in Italia il poeta nazionale, come Shakespeare lo è nei paesi anglofoni e Goethe dove si parla il tedesco. Nessun autore francese, nemmeno Racine o Hugo, gode di un così incontrastato predominio, mentre nessun poeta spagnolo è così centrale come Cervantes. Questo sebbene Dante, autore dell’italiano letterario, non si sentisse ‘toscano’, tanto meno ‘italiano’. Egli si considerava ‘fiorentino’, persino ossessivamente, e tale si sentì nei diciannove anni della sua vita, sui cinquantasei, che trascorse in esilio.

(continua)

 

 
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