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Messaggi del 14/05/2022

Divagazioni su Pirandello e Dante. Effemeridi

Post n°1124 pubblicato il 14 Maggio 2022 da giuliosforza

 

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   Io giunsi, È il fine. O sacro Araldo, squilla!”. (Originale: Giungemmo. È il fine… Vedi Pascoli, ‘Alèxandros’, Poemi conviviali)

 *

   Grazie Rai 5

   Tre giorni di santo Relativismo pirandelliano: Sei personaggi in cerca d'autore, L'uomo, la bestia e la virtù, Così è (se vi pare). L’uomo dal fiore in bocca

   E poi l'ultima apparizione pubblica di Elio (Pandolfi) in uno spettacolo a tre (recitazione pianoforte, canto) al quale presenziai nella sala concerti della Filarmonica Romana in via Flaminia. Avevo accanto Luisa, la vedova del comune amico Mario Maranzana. 'Inventare il tempo', il titolo dell'evento, curato da Sandro Cappelletto, ove si diceva degli strazi dell'ultimo Puccini e della sua Turandot...'Non voglio morire, non voglio morire!'...urlava Elio, mentendo (per esigenze sceniche, naturalmente - non per nulla il corrispondente greco di commediante è ypokritès): a me Egli, ogni volta che ci si sentiva, confessava di non veder l'ora di andarsene. Ho trattenuto a stento le lacrime.

 *  

Non mi è molto simpatico, per certi aspetti, il Pirandello uomo. E non perché fosse, e fosse stato fino all’ultimo, fervente fascista (affari suoi, si direbbe), ammiratore e amico personale del Duce, Accademico d’Italia, firmatario del Manifesto degli intellettuali fascisti (quello al quale Croce ed un’altra quarantina avrebbero tiepidamente risposto col Manifesto degli intellettuali ‘non fascisti’ - tale il primitivo titolo, sfumatura significativa, allorché apparve su Il Mondo e su Il Popolo) come d’altronde moltissimi altri i quali, a Fascismo ormai caduto, si ‘rifecero la coscienza’ indossando  chi il colbacco chi la zimarra pretesca; o perché donatore, in occasione delle Sanzioni, della medaglia d’oro del Nobel alla Patria (lo stesso Croce donò la sua di senatore) e via discorrendo. Ma il vero, principale motivo della mia poca simpatia è che il tutto era platealmente in contrasto con i suoi convincimenti che dicono profondi; e i comportamenti che non seguono i convincimenti sono falsi e ipocriti, come ben fiacchi sono i convincimenti che non generano coerenti comportamenti. Per questo mi sono sempre chiesto come sia possibile in buona fede far convivere, come fa il Nostro, Relativismo e Fascismo. E inoltre la mia poca simpatia nasce da un motivo, diciamo così, assai personale e privato: a uno come me che la passione didattica ha sempre divorato e ancora a cent’anni divora, che a tutto ad essa sacrificò, non può essere simpatico chi,  nei suoi circa venticinque anni di  titolarità di una cattedra al Magistero femminile di Roma,  non dimostra alcuno slancio per l’insegnamento, è  più assente che presente (troppi  i suoi impegni privati legati al suo vero nobile mestiere: ed ecco perché con D’Annunzio ritengo che i veri artisti debbano essere lautamente mantenuti dallo Stato affinché possano dedicarsi con tranquillità alla loro nobile missione, quella di ‘sforzare’, attraverso l’Arte, ‘il mondo a esistere’), e per curare i suoi impegni privati trascura  e ha in uggia a tal punto quelli ufficiali,  didattici ed accademici, da attirarsi forti rampogne del conterraneo e amico Giovanni Gentile ministro dell’Istruzione.   Qualche attenuante sono disposto a concedergliela. Da tutti è risaputo che l’Agrigentino non aveva una vita familiare delle più felici e soprattutto la malattia mentale della moglie gli creava gravi problemi, di molto turbando la sua stessa serenità.

   Per il resto la mia stima e la mia simpatia gli vanno tutte.    Dalla frequentazione dei due paesi della Valle dell’Aniene (ai quali, seppure un poco già abruzzese, appartiene amministrativamente anche il mio), Arsoli e Anticoli Corrado (la rocca dei Principi Massimo il primo, storico ‘paese delle modelle’ il secondo) ove egli si recava a villeggiare quasi ogni anno (il figlio Fausto, noto pittore della “Scuola Romana”, ad Anticoli  si era addirittura accasato sposando una anticolana, e molte testimonianze nel locale Museo lo ricordano), numerosi  particolari ho appreso che me lo rendono un quasi familiare e che meriterebbero da parte mia un più articolato ricordo. E ancora: egli era l’artista preferito dal mio amico, e raffinatissimo attore, Mario Maranzana, che ai suoi testi dedicò innumerevoli spettacoli al Tetro Ghione e non solo, ne scrisse egregiamente in una breve ma originale e densa monografia, e quale ambasciatore di cultura lo commemorò e celebrò in ogni parte del mondo.   *

   Una giornata che avrebbe potuto essere, tutta, non vi avesse messo lo zampino TIM, albo signanda lapillo dies.

   Per una decina di giorni ho combattuto col mio gestore di telefonia fissa.

   A fatica raggiunto, un operatore mi assicura una immediata segnalazione. Ne nasce un traffico ininterrotto di telefonate e di messaggi vicendevoli per una settimana. Viavai e sopralluoghi, rivelatisi tutti inutili, di un giovane tecnico impacciato e di una tecnica angustiata da una minaccia di licenziamento. E finalmente una comunicazione rassicurante: ‘il guasto è in centrale e non nel suo impianto, quindi l’intervento sarà gratuito. Si provvederà immediatamente’. Fiducioso attendo. Ed ecco stamane il terzo atteso intervento domestico, che si rivela assai puntiglioso. Dopo vari armeggi coi suoi aggeggi, elettronici e non, sulle tre derivazioni, brutte nuove dal vivace tecnico (un capellone canterino e simpaticamente ciarliero di mezza età dalla lunga zazzera grigia tendente al bianco svolazzante su un volto barbuto): contrordine, il guasto è nel suo impianto e non nella linea esterna (te pareva, il commento di Laura, più sgamata di me). E colpevole è questa prolunga, che la invito a gettare subito nel secchio. Non provi a rimetterla: risalterebbe tutto l’impianto. Quel subito mi inquieta e comincia il mio travaglio: perché mai dovrei disfarmene subito? Che ci sia sotto un tranello? Che sia tutta una manfrina della Tim per estorcere soldi, e il capellone faccia parte del disegno? Che la responsabilità non sia della innocua prolunga? Cominciano ad assalirmi dei dubbi. Il tecnico mi invita a firmare sullo schermo del cellulare. Mi viene unoi scarabbocchio. Mi saluta e frettolosamente s’avvia. Quando è sulla porta lo richiamo; ho deciso (minchione!) per una mancia e gli faccio un dono inatteso: una bottiglia di grappa di Lambrusco. Fa la faccia sbigottita. Non gli par vero. Oh, il lambrusco, esclama, il mio vino preferito! E s’avvia, frettolosamente, e forse ride di me e della mia babbeaggine. E mi resta il travaglio: se provassi la prolunga su un’altra linea e mi togliessi ogni dubbio? E davvero risultasse sana? E se poi davvero il mio tel ammutolisse? Il tecnico capellone mi lascia in una grossa crisi esistenziale. Mi ha rovinato la giornata e forse non solo la giornata.  Fossi un Ibsen un Pirandello un semplice Thornton ci scriverei sopra una commedia semiseria (o dramma giocoso?).  

   Ma per fortuna c’è il pomeriggio di Rai5, questo sì tutto degno del sassolino bianco.

    Per il teatro Piccola città di Thornton Wilder, con Raoul Grassilli, Mario Carotenuto, Giulia Lazzarini ed altri della mia generazione. Deliziosa la prima parte dedicata alla vita e all’amore; nebulosamente, anche nel bianco e nero, mortuaria la seconda. Thornton, una felice scoperta. E per la musica il Gala del Belcanto, un omaggio a Donizetti e Bellini con un al solito ottimo italo-albionico Pappano, un poco migliorato, mi sembra, se non del tutto guarito, dal suo vizio… ‘boccaccesco’, quello di accompagnare il suo appassionato dirigere con rivoltanti boccacce che lo fanno somigliare (e a me fa schifo) a un ruminante in pieno rigurgito. Brava, anzi bravissima, oltre che bellissima (il che non guasta) soprano statunitense di origine cubana Lisette Oropesa (‘valutabile a peso d’oro’? Mai cognomen fu più omen) e il ventisettenne tenore spagnolo Xabier Anduaga, a cui l’inesperienza fa volentieri perdonare qualche minima défaillance di continuità e lindura tonali.

   Siano lode a Calliope e a Melpomene, disdoro a TIM.  

*

   Se dovessi un giorno o l’altro (cosa più che probabile) decidere di smettere di raccontami su queste pagine, lo farei col canto XXVII del Purgatorio, versi 124-141: la migliore sintesi del viaggio descritto dalla Commedia verso la scoperta di Dio come scoperta dell’Io.    

      Come la scala tutta sotto noi

      fu corsa e fummo in su ’l grado superno,

      in me ficcò Virgilio li occhi suoi,

      e disse: «Il temporal foco e l’etterno

      veduto hai, figlio; e se’ venuto in parte

      dov’ io per me più oltre non discerno.

      Tratto t’ho qui con ingegno e con arte;

       lo tuo piacere omai prendi per duce;

       fuor se’ de l’erte vie, fuor se’ de l’arte.

       Vedi lo sol che ’n fronte ti riluce;

       vedi l’erbette, i fiori e li arbuscelli

       che qui la terra sol da sé produce.

       Mentre che vegnan lieti li occhi belli

       che, lagrimando, a te venir mi fenno,

       seder ti puoi e puoi andar tra elli.

       Non aspettar mio dir più né mio cenno;

       libero, dritto e sano è tuo arbitrio,

       e fallo fora non fare a suo senno:

       per ch’io te sovra te corono e mitrio».  

   Questo ultimo verso è particolarmente forte e anticipa di secoli la moderna concezione laica di un Io liberato dalla sua angusta prigione, ove sta nella triste obliquità che pensa (Arturo Onofri, Terrestrità del sole) ed identificato col Tutto-Natura-Dio. Chi si intestardisce a leggerlo   in chiave confessionale trascendentistica non vuole intendere quale sia la forza rivoluzionaria in esso contenuta: coronare e mitriare Dante significa trasferire sul suo capo la corona imperiale e la mitria papale, vale a dire i poteri politici e religiosi che si arrogano una investitura divina per meglio prevaricare sui greggi degli ignoranti o degli ignavi e soffocarne gli aneliti di autonomia e libertà. Con questo verso il Fiorentino inaugura l’epoca del pensiero libero quattro secoli prima che l’Illuminismo inizi la sua battaglia non del tutto purtroppo ancora, se mai lo sarà, vinta. Ma ancora più forti sono i tre versi precedenti ove chiaramente Dante viene invitato a non seguire se non il suo arbitrio che è libero retto e sano, sicché sarebbe (fora) grave colpa (fallo) non agire di conseguenza secondo tale principio (senno).

   Così parla la Ragione a Dante per bocca di Virgilio. E Dante intende e condivide, oh se intende e condivide, ma quanto è condiviso ed inteso?

   E con quelli ancor più altamente simbolici del XXXIII del Paradiso ‘ereticamente’ (nei riguardi, intendo, dell’ermeneutica dantesca ‘ortodossa’) interpretati’:

      Quella circulazion che sì concetta

      Pareva in te come lume riflesso

      Da li occhi miei alquanto circunspecta

      Dentro di sé del suo colore stesso

      Mi parve pinta de la nostra effige

      Perché il mio viso in lei tutto era messo (v.132)

nei quali l’identificazione dell’Io con Dio appare ancora più esplicita: l’essenza divina di Dio  appare a Dante pinta della ‘nostra’ essenza, natura divina e natura umana gli si rivelano coincidenti, ed egli può sentirsi in tal modo affrancato da ogni sorta di eteronomia: culmine di un  processo che ogni essere umano è chiamato a compiere passando dall’anomia, attraverso l’eteronomia, all’autonomia, lo stesso che Gentile nel Trattato di Pedagogia come scienza filosofica  individua in un iter scolastico paradigma di tutto un ciclo vitale; un iter  che si proponga  via via, dall’infanzia all’Università, non di formare schiavi ma uomini liberi da ogni tipo di idòla, non di aggregare (ad gregem) ma di degregare (de grege); il solo che potrebbe giustificare l’esistenza di scuole che non siano prigioni di forzati, quelle denunciate da  Papini nel suo famoso ‘Chiudiamo le scuole’ (un «Giovanni Papini del 1914, estremo, particolarmente caustico e provocatore. Un testo, più che mai attuale, che esprime con decenni di anticipo un malessere oggi dilagante. Una soluzione estrema ad un problema reso cronicamente insolubile. Una proposta radicale che tutt’oggi potrebbe far discutere se qualcuno avesse il coraggio di esprimere un simile dissenso, con cui apriva il primo numero di ‘Lacerba’» -dalla quarta di copertina dell’edizione Millelire Stampa alternativa. Tratto da Giovanni Papini, Chiudiamo le scuole. Vallecchi editore, Firenze, 1919).

*

   Cristiano Casalini, teorico e storico della Pedagogia in terra d'America, in vacanza nel "Golfo dei Poeti', mi invia da Lerici questa immagine (targa di una strada ove è scritto ‘Via San Franceso d’Assisi, già via Giordano Bruno’). Quel che v'è scritto fa ridere nei suoi cieli Bruno Nolano, noto spregiatore di plebi (l'Odi profanum vulgus et arceo' oraziano era uno dei suoi motti) ma soprattutto offende (oltre che far teneramente anche lui sorridere) il Menestrello di Dio, il Troubadour François, alias Francesco D'Assisi. Sicuramente il cambiamento di titolazione della strada é contemporanea all'erezione, per opera dell'ebreo Nathan, del monumento a Bruno a Campo dei Fiori. Meschina operazione, quella di Lerici. Cancelleremo la cittadina dall'itinerario del Golfo de Poeti. Schelley, Mary, Keats, Byron ne esulteranno nei loro Limbi.

*  

   Ogni mattina mi alzo, mi guardo allo specchio ancora amico, interlocutore discreto e confidente, e mi dico: basta con le tue ciance, vecchio! Sono novanta anni che rompi È scoccata l’ora del silenzio e del ritiro (della “preparazione alla morte”, come si diceva nella ‘cultura’ funerea in cui si tentò, vanamente, di educarti, quella che dicesti da trenodia, tu che ti sentivi nato solo per epinici). Poi subito mi pento e rilancio: sarà che non mi rassegno a morire prima di morire? Ed eccomi così qui anche oggi, per la gioia mia e, spero, vostra, cari pazienti ‘amici miei e non della ventura’, con le mie ciance semiserie.

   C’è chi scrive libri e che scrive…bastoni. Io una ventina di libri e libercoli, di poesia o di prosa, monografie o raccolte o curatele, li ho messi insieme, ma ciò che amo di più sono i miei cento e passa bastoni su ognuno dei quali, in caratteri visibili a tutti o solo a me chiari, è breve testimonianza di un’epoca della mia errabonda vita intellettuale e affettiva, nelle poche lingue antiche e moderne che ho frequentato. Bastoni di montagna o bastoni di città, rozzi o raffinati, raccolti nei miei vari pellegrinari ai luoghi del cuore e della mente, da me stesso fatti o acquistati o donatimi. Non potrà capire me o di me dire senza tener conto dei miei bastoni e di ciò che su di essi è raccontato della mia vita, chi s’azzarderà a tentar dire di me ‘quel che non fue mai detto d’alcuno’. (Tranquillo, Sfortia, pericolo inesistente: perché il monumentum aere perennius che fin dai tuoi teneri anni sognasti di erigerti non l’hai eretto, presto il rogo del tempo disperderà le tue ceneri, e con esse la tua memoria, nel vento).

   Non ho intenzione dunque di smettere di scrivere libri e di scriver …bastoni finché avrò fiato: è pronto un ulteriore volume, il terzo, del mio … opus magnum (!), Dis-Incanti, quel diario virtuale di un vegliardo, delle sue diànoie metànoie parànoie, strappato all’etere a cui fu improvvidamente donato (in forma, fremete, di blog), e riconfidato alla amata carta in cento cinquanta copie  eleganti di due grossi tomi in cofanetto ancora affastellati in vari angoli di casa in attesa di poter esser finalmente donati ai centocinquanta amici per i quali fu stampato. Questo terzo, in avanzato stato di preparazione, risulterà di un volume bifronte dall’identica copertina riproducente il vegliardo giuntalodiano, dalla lunghissima barba e dal girello, che ‘anchora inpara’ (sic) e destinato anch’esso ad esser donato agli amici ad perpetuam mei memoriam; e conterrà  anche il nutrito sito (nel frattempo non più supportato dalla rete e rocambolescamente recuperato) che precedette il blog, nonché la quarta serie di liriche neoclassiche dal significativo titolo La sera di Pan.

   Troppa legna al fuoco?

    Ma non forse Ignem veni mittere in terram, et quid volo nisi ut accendatur? (Lc. 12,49)

  *      

   Notte magica musicale.

   Così in rete: "Villa Serra a Comago, in Val Polcevera, vicino a Sant'Olcese (GE), è un fantasioso complesso settecentesco rivisitato in chiave neogotica del XIX sec. Il tutto immerso in uno straordinario parco all'inglese, con vialetti tempestati di alberi maestosi, e aiuole con 150 varietà di ortensie. Qua e là giochi d'acqua, fontane e un laghetto abitato da cigni".

   Non so quale benevola divinità ha voluto ridonarmi una delle più belle notti di questi ultimi anni, restituendomi in sogno alla mitica atmosfera, questa volta anche musicale, in cui è immersa nei miei ricordi Villa Serra di Comago anni Cinquanta, fra lo stormire di mille piante, sequoie comprese, il canto d' un breve ma precipite ruscello che placa la sua corsa in un laghetto dalle acque trasparenti solcate da anatre placide e da cigni regali, il cinguettare di mille uccelli, il tubare di mille colombe, il garrire di mille rondini, il rombare dei tuoni e lo schiantarsi dei fulmini che, attirati da piante autoctone ed esotiche altissime e da cipressi svelti come antenne, scaricano, soprattutto nei giorni del corruccio di Giove, spesso a ciel sereno e nel pieno del Solleone (il mio segno), la loro potenza sul parco.

   Ora Villa Serra è, dunque, una struttura alberghiera assai signorile. Ai mie tempi, i tempi in cui è ambientato il mio sogno, l'edificio, in molte parti scadente, ma perciò ai miei occhi più fascinoso, ospitava unginnasio privato maschile ove appena ventitreenne, fremente di mille energie, non ancora laureato, ero stato chiamato ad insegnare greco latino italiano storia e quant'altro, ma soprattutto, innamoratissimo dalla nascita di Frau Musika, scrivevo diari poetici e componevo le mie prime 'nugae' musicali, i miei mai abiurati 'péchés de jeunesse', per il coro giovanile che avevo frattanto creato.

   Nel mio rutilante sogno stanotte s'operava oltretutto una miracolosa bilocazione: il coro "I Nuovi Ragazzi di Vivaro" ai suoi albori, destinato negli anni a trasformarsi in "Metanoesi", nella onirica finzione, più reale di ogni realtà, si esibiva nell'esecuzione del brano di cui qui riproduco la prima pagina della partitura (che a Villa Serra composi e che reca la data XII VI MMLVI), in simultanea tra le sequoie della villa genovese da una parte, e attorno all'olmo maestoso che spandeva la sua vasta ombra sullo spazio verde tra un rudere e l'altro del nostro Castello Borghese, dall'altra. Non ridano i miei amici Federico Biscione e Alberto Cara, i grandi compositori intimissimi di Frau Musika, dei miei ingenui balbettii: melomane da morire e soprattutto della nostra Signora modesto filosofo, ignoravo o non mi curavo delle varie vicissitudini alle quali l'Arte di Euterpe nel corso dei secoli, soprattutto negli ultimi, fu, con esiti ai miei orecchi per lo più assai poco gradevoli, sottoposta. Il brano s'intitola 'Sogna il guerrier le schiere', sottotitolo 'Madrigaletto', e il testo è tratto da uno dei poeti da me preferiti, quel Pierino Trapassi in arte Metastasio che, nonostante l'irrisione alfieriana della 'genuflessioncella d'uso', continuo ad amare se non più ad adorare.

   Trapassante dal guerresco al sognante, l''Arietta' ('Sogna il guerrier le schiere / le selve il cacciator / e sogna il pescator / le reti e l'amo. / Sopito in dolce oblio / sogno pur io così / colei che tutto il dì / sospiro e chiamo') è risuonata al mio orecchio per tutta la mia notte e ancora risuona in quest'alba finalmente di nuovo rosata.

   Risuona essa ancora pure all'orecchio di qualche "Nuovo Ragazzo di Vivaro" e di qualche "metanoetico"?

   Qualcuno di essi alle sue note ancora, 'sopito in dolce oblio', sogna, sospira e chiama?

Se non è, lo compiango. Il Vegliardo, a cento anni, ancora sospira e chiama. Oh se sospira, oh se chiama!

   P. S.

   Appello agli ex coristi: 'rauniamo' "le fronde sparte" dei nostri gruppi corali e andiamo a commemorarci con una cantata nostalgica nell' incanto di una notte agostana a Villa Serra di Comago?

 ___________________

    Chàirete Dàimones!

   Laudati sieno gli dei, e magnificata da tutti viventi la infinita, semplicissima, unissima, altissima et absolutissima causa, principio et uno (Bruno Nolano)

  Gelobt seist Du jederzeit, Frau Musika!

 

 

 

 

 

 
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