r a p i d e

Isti


     In fondo, ci tormentiamo troppo. Come stare degnamente al mondo, come giungere alla radice delle cose, come distinguersi. E garantirsi l'obiettivo, constantemente fare i conti. Non sappiamo quello che facciamo, quello che diciamo, quello che pensiamo, che siamo. Tutti in causa da quando siamo nati, senza pausa. Non c'è verso di inclinarsi, nel preoccuparsi del dove, del come, perché. Concepirsi come risultati, educarsi nell'essere spettatori, scivolare inesorabili nell'insano ritardo, nel pretendere che i sentimenti siano strutturalmente edificanti e rappresentati in quei 'teatri' frequentati senza sosta. Quei teatri dove si nega l'evidenza, dove non esiste che deserto insensato, inaccettabile. Dove fallisce l'umana comprensione. Dove i sacrifici, son sostituiti dall'unto d'una intera vita. A chi il compito di risolvere, di disporre e togliere pieghe dagli abbagli. Forse, l'instancabile verità è nel far coincidere la rovina che ci oltrepassa togliendoci dalla peste, non urtando contro ma lasciando andare. In fondo, non tormentiamo più di tanto ciò che sdegna. Teniamo in considerazione la cloaca, la stolta trascuratezza di chi non pensa con la propria testa, di chi preferisce il proprio malessere esistenziale, di chi sopravvive in quel mal comune del mezzo gaudio. Zoppichiamo nel nulla del niente.Non riacciuffatevi..  Ché quando non ne avrete più, quando le vostre sole ragioni saranno le vostre sole sconfitte, quando il raccogliere buchi nell'acqua non potrà più darvi soddisfazioni,  inciampate pur nell'eleganza. Basta un'oncia. Una zattera, sul pantano.