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IL DIALOGO SENZA PAURA DEI «GENITORI DUE VOLTE»


Il 65% dei giovani gay italiani si dichiara in famiglia È meglio dire «Luca era gay» o, più onestamente, che ha amato un uomo? Se diciamo che «era» gay intendiamo dire che non lo è più. L'orientamento sessuale non si può collocare sbrigativamente nel passato. Chi lo fa vuole deformare la realtà per suggerire che l'omosessualità è una deviazione dalla retta via da accantonare il prima possibile. L'omosessualità è un modo di amare legato all'identità di un individuo che si sente completato da una persona dello stesso sesso e che con lei vuole costruire la propria vita. Al pari dell'eterosessualità non si smette come un vestito logoro, né si cura come una malattia. Poiché dai microfoni sanremesi verrà diffusa con la canzone di Povia dal titolo «Luca era gay» una versione deformata della realtà, e migliaia di famiglie l'ascolteranno, occorre descrivere cosa succede davvero quando Luca dice: «Sono gay». Ebbene, niente è più come prima. Quando in una famiglia diventa palese che un figlio o una figlia sono omosessuali le relazioni cambiano. I genitori sono chiamati a «ridefinirsi», a riflettere su ciò che hanno dato per scontato, i figli a cercare la forza per pensarsi fuori dalla cornice delle aspettative che fino a quel momento padri e madri hanno nutrito. È un momento di verità, ora traumatico ora capace di innescare svelamenti a catena. Come se l'autenticità, fino a quel momento trattenuta dalla diga del non-detto, fluisse con meno intoppi e liberasse i rapporti da una buona dose di finzione. Per una persona omosessuale dire «sono lesbica, sono gay», cioè fare coming out, è fondamentale per acquisire forza e fronteggiare la violenza omofobica. A farlo è il 65 per cento dei giovani che vive in famiglia. Lo rivela la ricerca «Family Matters», la più ampia svolta in Europa, condotta dall'Università del Piemonte Orientale, in collaborazione con diverse associazioni tra cui l'Agedo, attraverso interviste e domande rivolte a 200 familiari di giovani lesbiche e gay (tra i 14 e i 22 anni). Del restante 35 per cento si sa per una lettera o un diario «lasciati incustoditi» o perché sono altre persone a dirlo. Nel 68 per cento dei casi fratelli e sorelle sono i primi a sapere ed è con loro che i genitori iniziano ad aprirsi. Non mancano i segni premonitori, non tanto amori in corso, quanto forme di isolamento dal gruppo dei coetaneiQuando tutti lo sanno va in scena il momento clou: il passaggio dal non-detto al colloquio aperto. Le reazioni sono forti ma solo in rari casi travolgono il riconoscimento del legame: «È comunque mio figlio, resta mia figlia». La metà dei padri e delle madri si sente fallito come genitore, il 54 per cento tenta di smentire il coming out affermando: «Sei troppo giovane per dirlo». Qualcuno sbotta (il 17 per cento): «Ti hanno traviato», suggestionabilità attribuita soprattutto alle ragazze. E c'è chi (meno di un quinto) si sente sollevato: «Ah! Era questo! dunque né droga né alcol». Ma altri (un quinto circa) rifiutano, provano rabbia e vergogna. Un altro 17 per cento cerca di patteggiare: «Almeno che non si sappia in giro». E la malattia? Il fantasma che si tratti di un comportamento da curare affiora nel 40 per cento dei genitori cattolici praticanti, frutto del capillare lavaggio del cervello in atto da qualche anno. Il confronto è aspro, le parole possono ferire. Eppure, come una ineludibile musica di sottofondo, la rivelazione dei figli porta del bene: i genitori si sentono destinatari e custodi di ciò che i giovani hanno capito di loro stessi. Il colloquio aperto ha un sapore dolce-amaro, perché è vero che la realtà è imprevista e si annuncia dura, soprattutto per il contesto italiano in cui i ragazzi dovranno farsi strada, ma «loro ce ne hanno parlato». Si profila la sagoma di un obiettivo: «Dobbiamo ritrovarci, siamo pur sempre una famiglia, anzi una famiglia vera», dice una madre. Anche il lessico dei ricercatori - Chiara Bertone, la responsabile, e Marina Franchi - tradisce venature di ottimismo: «In queste famiglie, che si sono trovate a fronteggiare un evento di rottura di relazioni quotidiane, altrimenti largamente date per scontate e naturalizzate, sembra emergere in modo particolarmente evidente una concezione di relazioni familiari centrata sull’ideale dell’intimità che molti studiosi individuano come elemento cruciale delle recenti trasformazioni delle esperienze familiari». Dinanzi al vero che i ragazzi trovano il coraggio di mostrare, l'estraneità si sfarina. Si riducono lo sfuggirsi, gli occhi bassi, «il fastidio» per il genitore. Resta il timore della precarietà affettiva soprattutto relativo ai figli maschi, dovuto all'ignoranza dei comportamenti dell'«omosessuale moderno» che invece cerca la stabilità; c'è il punto interrogativo sui nipoti, ma spesso è l'intelligenza dei sentimenti a vincere le barriere. ]I genitori, guardando al futuro, sperano che i figli avranno una relazione di coppia (il 96 per cento), meno della metà crede che potranno sposarsi, il 19 per cento scommette che i nipoti nasceranno, e il 38 per cento dà per certo che i giovani andranno all'estero, preparandosi a una separazione dolorosa che trova motivo solo nell'arretratezza del nostro paese. «Molti di noi sono preoccupati perché in Italia c'è ancora una forte omofobia che impedisce ai propri figli di essere sereni sul lavoro e in campo affettivo», dichiara Rita De Santis, presidente Agedo che riunisce i genitori degli omosessuali (www.agedo.org). Tra i tanti dubbi, i papà e le mamme cercano risposte nel web, leggono e «purtroppo» il 39 per cento accende la tv. Da stasera, guardando il festival, si sentiranno dire che «Luca era gay», e verrano catapultati nell'era del prima – prima della crisi, del coming out, del momento clou -, invitati a mettere lo scheletro dell'omosessualità nell'armadio e a preparare il posto a tavola per un Luca prevedibile, lontano, finto. Cari genitori, meglio aprire gli occhi, confrontarsi, riflettere. E ritrovarsi. di Delia Vaccarello da "1,2,3...liberi tutti de l'Unità"