maranatha!

28 febbraio 2022, 4


Per ferire a morte basta pocoDiMichela Conte-28 Febbraio 2022
E se deponessimo tutti le armi?“Spesso il male di vivere ho incontrato”: penso a questi versi di Montale nell’ultimo periodo, mentre tra i corridoi della scuola incontro la sofferenza patologica di giovanissimi studenti, presi da pensieri di morte. C’è chi a 14 anni la desidera e basta; chi a 15 ha salvato sua madre dal suicidio; chi a 16 piange quella, tragica, dei propri familiari; chi a 17 fa avanti e dietro dal reparto di rianimazione a sperare che qualcuno si svegli. C’è chi parla, racconta, si sfoga almeno. E chi si chiude inesorabilmente, innalzando muri impenetrabili e sancendo mutismi più che selettivi. In entrambi i casi la sirena dell’emergenza suona altisonante.“Perché dovrei smettere di vomitare? Vomitare mi fa star bene: è la gente che mi fa del male, non la bulimia”: me la porto addosso questa confessione. Mi fa pensare. Mi fa tremare. È il compendio di tutto il male odierno: il male di vivere per il male che l’altro può non solo causare, ma essere. È il monito a pesare parole e azioni, ad esagerare nelle accortezze, a convertirsi definitivamente all’empatia, a fare dei dettagli la cifra della propria morale quotidiana, a dare carne alle teorie stampate su carta. Perché per ferire a morte basta poco: sia che si tratti di singole persone, sia che si tratti di intere popolazioni: una guerra si consuma sotto i nostri occhi increduli, quelli che cercano riposo, dopo due anni a fare le veci dell’intera mimica facciale, dopo due anni a farsi carico di relazioni distanziate. Gli anni della pandemia, gli anni della fragilità estrema. E non c’è pace, ci sono solo assurdi sogni di nazionalismi passati al prezzo della morte, della violenza, delle marce, delle bombe.Si combatte su più fronti, insomma. E se deponessimo tutti le armi? Certo, è urgente che le depongano anzitutto coloro che hanno responsabilità di equilibri mondiali. Ma forse è bene che le deponga chiunque pensi di guadagnare vita, combattendo. Il verbo non funziona, anche se combatti per difenderti. Anzi, quella difesa suggerisce che l’altro o la situazione sono ancora dei nemici e che tu sei ancora armato. Ci vuole un’altra strategia. C’è bisogno di una tattica diversa. Perché non ci sono armi buone e per amore non si combatte. Al massimo si lotta. La lotta contiene l’idea del greco lygo, “piegarsi”, e rimanda a un esercizio corpo a corpo, in cui si è nudi e l’unica armatura è la propria carne.Non voglio suggerire, ovviamente, di deporre le armi per iniziare a fare a botte, con la vita, con il lavoro, con i problemi, con gli altri. È un invito a non corazzarsi, ad alleggerirsi, a restare più nudi e più indifesi, non per subire il male, ma per affrontarlo in maniera meno bellicosa e più umana. Così, invece di “armarci” di pazienza per ascoltare mille problemi, di educazione per evitare rispostacce, di contenuti che possano glorificarci sul lavoro, di forza per sopportare, potremmo semplicemente “lottare”. Lottare con pazienza, con educazione, con professionalità, con forza, che nella lotta non sarebbero armi o bombe, ma bandiere di leggerezza, sinfonie di apertura, addestramenti di umanità matura. Quella che il male lo mette in conto, magari lo accoglie, ma senza subirlo e senza rassegnarsi. Quella che non ha rinunciato alla forza, ma alla violenza. Quella che ha non solo il coraggio di cogliere le cose da cambiare, ma anche la sapienza di distinguerle da quelle che vanno mollate.Lottare, in effetti, insegna a non scambiare qualsiasi cosa come un obiettivo, qualsiasi persona come il nemico e qualsiasi causa come meritevole delle nostre energie e lo insegna nella misura in cui demilitarizza l’esistenza. Perché se la corazza cade e le armi scompaiono, resta solo la pelle, resta l’essenziale. E si può smettere di combattere e iniziare a lottare solo se si ha una chiara visione dell’essenziale, proprio e altrui.