La ragazza di Odessa con cui sono in corrispondenza, la cui prima lettera ho condiviso qui qualche giorno fa, mi scrive “sappiamo bene che sbarcheranno qui, è questione di poco”. Dice che vorrebbe arruolarsi nelle milizie territoriali “molte donne vanno e non importa se non sai usare le armi, impari presto. Ma dovrei lasciare sola mia madre che ha difficoltà a camminare, soprattutto a fare le scale, abitiamo al quarto piano e lei non vuole abbandonare la casa. Come posso lasciarla sola? I miei fratelli sono già andati, io devo restare con lei anche se restare è una condanna”.
Di tutti i gironi infernali in cui la guerra trasforma la vita questo di chi parte e di chi resta, nelle famiglie, è il più doloroso. Forse perché racconta la vigilia di decisioni che possono essere senza ritorno: tutti sappiamo quanto sia difficile muovere il primo passo, aprire la porta e uscire, dire le parole del congedo, separarsi. Dopo, il resto accade. Dopo vai, sei partito, devi vivere e lottare, sei altrove. È il momento distacco quello che chiama in causa le ragioni ultime: decidere se andare o fermarsi, riuscire a farlo.
I genitori che si congedano dai figli attraverso i finestrini dei treni e dei bus: quel momento. Che sia consapevole è già un privilegio. Di peggio c’è solo essere partiti per la guerra senza sapere che fosse una guerra. Essere militari di leva, tua madre che ti pensa a un’esercitazione e domanda dove ti mando il pacco. Trovarsi prigioniero di qualcuno che ti porge un telefono per chiamare casa e dire sono in guerra, mamma. Non averlo capito, non essersi salutati come chi non sa se tornerà a vedersi. Non aver avuto neppure quello sguardo di congedo, sulla soglia, da conservare.