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7 marzo 2022, 5

Post n°2864 pubblicato il 07 Marzo 2022 da donmichelangelotondo

La poetessa russa Marina Cvetaeva
 
 
 
Tra empatia per gli ultimi e solitudine salvifica.

Al volgere della fine della Grande Guerra, l’esercito russo, composto per lo più da contadini, aveva subìto gravi perdite a causa dalla mancanza di mezzi e rifornimenti; in assenza dello zar Nicola II, deciso a seguire le campagne militari personalmente, la situazione economica era crollata per l’assenza di un potere esecutivo e il malcontento di una popolazione sempre più allo stremo era sfociato nella Rivoluzione di Febbraio, a cui seguirà quella bolscevica di Ottobre e la successiva Guerra Civile che vedrà nascere l’Unione Sovietica.

La sanguinosa rivoluzione bolscevica con conseguente caduta dell’Impero scoppia nella vita della poetessa con inevitabile violenza, il terrore, il disorientamento, la disperazione e il sentimento di quei giorni rimangono nelle sue poesie facendone una delle voci più importanti della letteratura russa. Nei suoi versi ci sono gli emarginati, i ribelli, gli esiliati, scegliendo di stare dalla parte degli oppressi, dei perseguitati.

 

Lo ribadisce lei stessa in uno scritto già prima di partire da Parigi alla volta di Mosca nel 1939:”Sappiate una cosa: che anche là io sarò con i perseguitati e non con i persecutori, con le vittime e non con i carnefici”.

L’aspro linguaggio della Cvetaeva è già di per sé indicativo di una scelta, di una visione del mondo ruvida e severa. Lei diviene simbolo del conflitto tra individuo e collettività, tra sfera privata e repressione di una società totalitaria.

 

“Come spostando pietre,

geme ogni giuntura!

Riconosco l’amore dal dolore

lungo tutto il corpo

[…]Vandalo in un’aureola di vento! Riconosco

l’amore dallo strappo

delle più fedeli corde

vocali: ruggine, crudo sale

nella strettoia della gola.”

(Versi tratti dalla poesia Indizi)

 

E ancora la poesia “Agli ebrei”

“Chi non t’ha calpestato-e chi non t’ha bruciato,

cespuglio di incombustibili rose!

Unica cosa incrollabile che il Cristo

ha lasciato dietro di sè sulla terra.

Israele! Si avvicina un secondo

tuo dominio. Per tutti i centesimi

voi col sangue ci avete pagati: Eroi!

Traditori- Profeti- Mercanti !

In ciascuno di voi, anche in colui che conta

a lume di candela le monete d’oro nel sacchetto.

Cristo più forte parla che non in Marco,

in Matteo, in Giovanni e in Luca.

Per tutta la terra-da un capo all’altro-

crocifissione e deposizione dalla croce.

Con l’ultimo dei tuoi figli, Israele,

in verità seppelliremo il Cristo”

 

Ed ecco, estate 1916, città di Aleksandrov, una casa alla periferia, davanti a questa casa oltre al giardino, alla piazza si addestrano soldati al tiro.

 

“Un bianco sole e basse, basse nubi,

lungo gli orti-dietro il muro bianco-un cimitero.

E sulla sabbia file di spauracchi di paglia

sotto le traverse a statura d’uomo.

[…]

Come hanno potuto incollerirti queste nere capanne,

Signore! E perché a tanti mitragliare il petto?

[…] Oh, Signore, Dio mio!”

(versi tratti dal ciclo “All’ Achmatova”)

 

Di fronte a tali crude realtà che saranno rese ancora più severe nel corso della sua vita, la poetessa non può che trovare rifugio, acquietamento del proprio animo nella solitudine.

 

“Sono felice di vivere in modo semplice ed esemplare –
come il sole, come il pendolo, come il calendario.

D’essere un’anacoreta laica di snella figura, 
savissima – come qualsiasi creatura di Dio.

Di sapere: lo Spirito è mio alleato, lo Spirito è mia guida!

D’entrare senza annunciarmi, come un raggio e come uno sguardo.

Di vivere così come scrivo: in modo esemplare e succinto

come Dio comanda e come gli amici non prescrivono”

(Poesia tratta dal ciclo “Il Commediante)

 

La sua “altezzosa solitudine” come la definì Šachovskaja è stato il suo modo semplice e al tempo stesso coraggioso di chiudersi in se stessa per ricreare un mondo diverso, più vero, più empatico, scevro da qualsiasi bruttura di cui il genere umano a quel tempo era capace.

La storia si ripete ed oggi più che mai il mondo interiore di questa grande poetessa russa grida le sue ragioni. E noi non possiamo non prenderle virtualmente la mano e ripetere con enfatica speranza velata di tanta tristezza:

“[…] ancora, Signore, benedico-la pace

in casa d’altri e il pane nel forno altrui!”

(Versi tratti dal ciclo “Don Juan”)

 
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