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Messaggi del 15/05/2022

15 maggio 2022, 3

Post n°3104 pubblicato il 15 Maggio 2022 da donmichelangelotondo

Perdonare se stessi (Paradiso IX)
Di
Paolo Farina -
15 Maggio 2022
«Ma lietamente a me medesma indulgo
la cagion di mia sorte, e non mi noia;
che parria forse forte al vostro vulgo»
(Paradiso IX, vv.34-36)

Siamo ancora nel Cielo di Venere, il terzo del Paradiso, e ci accomiatiamo da Carlo Martello con una oscura profezia sul futuro della sua discendenza.

Gli subentreranno Cunizza da Romano, sorella del tiranno Ezzelino, e Folchetto di Marsiglia, che fu prima trovatore di liriche d'amore e poi vescovo di Tolosa. I due si diffonderanno, rispettivamente, sul traviamento di chi è assetato di potere, come i contendenti della Marca Trevigiana, e sulla aberrazione di chi invece è preda della smania di avere, come i papi e cardinali, corrotti dalla seduzione del fiorino, coniato nell'opulenta Firenze e allora moneta di scambio tra le più pregiate.

Il canto è molto ricco di riferimenti a personaggi ed eventi storici in gran parte contemporanei di Dante. Non li riassumerò, lasciando al lettore la libertà di misurarsi direttamente col testo. Preferisco soffermarmi sulle parole di Cunizza, citate in esergo, che sono di lì a poco riecheggiate dalla dichiarazione di Folchetto.

Dante ricorre ad una forte allitterazione della "m" - Ma lietamente a me medesma indulgo - per esprimere con quale stato d'animo guardi al suo passato Cunizza, che pare essersi sposata più volte ed essere stata l'amante del trovatore Sordello: con letizia io perdono a me stessa il comportamento che fu origine della mia sorte e non provo rammarico; cosa che al volgo non sarà facile comprendere.

Dal canto suo, Folchetto ribadisce:

«Non però qui si pente, ma si ride,
non de la colpa, ch'a mente non torna,
ma del valor ch'ordinò e provide»

(Paradiso IX, vv. 103-105).

In libera traduzione: nondimeno in questo Cielo non c'è posto per il pentimento, ma solo per il gaudio: non per il ricordo della colpa, cancellato nella nostra mente, ma per via della divina virtù che tutto ciò ha disposto.

Se non si trattasse di parole volute da Dante, il più ortodosso dei poeti, verrebbe da pensare ad un atto di irriverenza, ai limiti della dissacrazione: due beati che, parlando del loro esser stati preda dell'amore sensuale, dichiarano di non aver modo di rammaricarsene, di poter anzi guardare al passato con gioia, di poter persino provare gratitudine nei confronti di un piano "provvidenziale" che li ha visti succubi di passione. E che, ad esempio, ha fatto sì che la prostituta Raab fosse la prima ad essere accolta nel terzo Cielo dopo la discesa agli inferi di Cristo.

Ora, Dante non ha bisogno delle mie difese. Del resto, abbiamo già avuto modo di soffermarci su quanta pietà possa esserci all'Inferno per chi cede all'amore. Preferisco, dunque, lasciarmi suggestionare da parole come "indulgo con gioia a me stessa", "non provo rammarico", o anche: sorrido di quelli che sono stati i miei errori.

Perché mi hanno reso ciò che sono. Un uomo e una donna migliore, pur nella sua fallibilità. Un beato: termine che nel linguaggio biblico originario starebbe a significare "uno che sta in piedi con dignità" piuttosto che "uno che sorride come un ebete".

Stare in piedi nella propria dignità, perdonando i propri errori, in umiltà e non per pusillanimità. Che non sia già questo Paradiso?

Lewis B. Smedes: «Perdonare significa aprire la porta per liberare qualcuno e realizzare che eri tu il prigioniero».

Voltaire: «Siamo tutti impastati di debolezze e di errori; perdoniamoci reciprocamente le nostre sciocchezze: questa è la prima legge di natura».

Antonio Porchia: «Sì, questo è il bene: perdonare il male. Non c'è altro bene».

 

 
 
 

15 maggio 2022, 2

Post n°3103 pubblicato il 15 Maggio 2022 da donmichelangelotondo

https://youtu.be/MXnVNfSmFxU

 
 
 

15 maggio 2022

Post n°3102 pubblicato il 15 Maggio 2022 da donmichelangelotondo


I veterani e i neofiti

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Una scena della Tempesta di Shakespeare nell'allestimento di Alessandro Serra

Una scena della Tempesta di Shakespeare nell'allestimento di Alessandro Serra

Mi sono trovata per due giorni di seguito, con il consueto senso di estraneità che mi accompagna ovunque, ad ascoltare i commenti di critici titolati a spettacolo finito. Uno era un film, l'altro un'opera teatrale. In entrambi i casi i commenti erano sprezzanti, annoiati, talvolta feroci e spesso virati sulla vita personale degli autori. Nulla da dire sui gusti, magari sui modi.

Del film racconterò più avanti, quando sarà uscito a Cannes. L'opera teatrale era la Tempesta di Shakespeare nell'allestimento di Alessandro Serra e si diceva - dicevano - che è "troppo pop", "fuori fuoco", "non all'altezza" del suo celebre lavoro precedente, Macbettu, il Macbeth recitato in sardo da soli uomini che ha fatto il giro del mondo. Vorrei però lasciare da parte il giudizio degli esperti titolati e, voltando le spalle al palcoscenico, dirvi del pubblico. Forse perché era pomeriggio la platea era stracolma di ragazzi, credo sollecitati dalle scuole, di bambini con le nonne, di gruppi di rumorose amiche di mezza età con evidenza non frequentatrici abituali.

La platea costituiva uno spettacolo in sé: applaudiva quando di solito non accade (un oggetto di scena che cala dall'alto: applauso all'oggetto) rideva alle parole oscure di Calibano, un'adolescente seduta dietro di me quando Prospero ha detto "siamo fatti della materia di cui son fatti i sogni" ha commentato "che figata, questa me la tatuo". Un pubblico meraviglioso. Mi è tornato in mente quel che mi disse una volta un minatore del Sulcis: si sbaglia, in miniera, per troppa esperienza o per poca. Cadono i veterani e i neofiti. Questi ultimi però hanno tutto il tempo per imparare e la curiosità della scoperta: li preferisco, come compagni.

 

 
 
 

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