Valle dei pensieri

Altro pezzo tratto da "il cerca talenti" (rivisto e corretto)


Ho deciso di pubblicare un altra parte tratta del mio libro...a me piace molto,spero piaccia anke a voi;)Mi trovavo in una specie di stato di calma indotta,di atarassia incontrollabile che,fino all’ultimo istante, mi impedii di fare qualsiasi cosa per trattenerla,per non perderla.In macchina guidai ad una velocità folle,volevo bruciare il prima possibile i pochi chilometri che mi dividevano dalla stazione. Per tutto il tragitto non la guardai,tenni lo sguardo fisso sulla strada per paura di incrociare il suo e,dopo circa dieci minuti di ulteriore,desolante silenzio giungemmo a destinazione. La stazione di baia era piccola,con soli due binari e un bar che fungeva anche da biglietteria. Era costruita in un piacevole stile moderno,molto sobrio e funzionale che si integrava perfettamente con lo stile dei palazzi circostanti.Appena parcheggiata la macchina ebbi l’impulso di guardarla,ma la mia era solo curiosità;avevo avuto la sensazione di essere osservato per tutto il tempo e volevo vedere se quella sensazione era giusta. Tuttavia,quando mi voltai verso di lei,aveva già aperto la portiere e metà del suo corpo longilineo era fuori dall’auto,a fare i conti con la terribile differenza termica. Si era fatta quasi sera ormai e la luce era poca ma la temperatura ancora alta e l’umidità a livelli esorbitanti non davano respiro. Scesi anche io e la seguii come un idiota fino ai tabelloni dove erano affissi gli orari dei treni in partenza. Mi sentivo uno sprecone,un ingrato,ma il senso di atarassia che mi aveva colpito fin dall’inizio inibiva ogni mia parola,ogni mia reazione. In queste situazioni cerchi di distrarre la mente in ogni modo e la mia attenzione fu passivamente catturata da una locandina con su disegnato lo zio d’America;aveva il dito indice puntato… “I wont you in my store”:era la pubblicità di un negozio di militaria. Fin da piccolo ho avuto la passione per le armi e tutto ciò che fosse militare,magari,prima di tornarmene a Como ci sarei anche passato per quel negozio. Credo che se non mi avesse interrotto lei sarei rimasto ad osservare quella locandina per ore: “Sei fortunato,il mio treno parte tra soli quindici minuti e non è neanche necessario che aspetti,anzi,è meglio che tu te ne vada il prima possibile”. Il suo tono era così determinato,negli occhi aveva una tristezza senza fine,un’angoscia che pareva spegnerle la vita eppure,le sue parole parevano così decise,cose irrevocabili da togliermi il fiato. Fece per girarsi e raggiungere il sottopasso che l’avrebbe condotta al binario sul quale sarebbe arrivato il suo treno. La vidi voltarsi e darmi le spalle ma a quel punto qualcosa dentro mi scattò,feci due passi in avanti e le presi con decisione il polso:nella testa mi rimbombò la frase “resta,ti amo” ma ancora una volta fu la bocca a non volersi aprire,a trovarsi in ritardo rispetto ai pensieri. Lei si voltò guardandomi con uno sguardo ancora più triste di prima e trattenendo a stento le lacrime: “Ti prego!Ti prego Daniele,lasciami andare,non rendere tutto più difficile e,soprattutto,non aspettare qui che arrivi il mio treno,corri verso la tua macchina e tornatene in albergo…Fallo se mi vuoi appena un po’ di bene!”. Le presi entrambe le mani e lei,per qualche istante,restò li a tenermele;poi piano le allontanò:sentii le sue dita sui miei palmi,sui polpastrelli prima di vederle avvicinarsi ai suoi fianchi. Si voltò,questa volta definitivamente,verso le scale che scendevano nel sottopasso ben illuminato. Era come se una parte della mia anima fosse rimasta cucita ai palmi delle sue mani e stesse sparendo con lei,giù per le scale della stazione. Avete presente quando Peter Pan perdeva la sua ombra e poi Wendy gliela ricuciva sotto le scarpe?!Ecco,è questa l’idea:la mia anima era come cucita alle sue mani e stava uscendo dal mio corpo per seguirla. Dio quanto avrei voluto fermarla,quanto avrei voluto correrle dietro e dirle che la amavo ma non lo feci,anzi,in un primo momento decisi addirittura di seguire il suo consiglio:mi diressi deciso verso l’uscita,riuscendo già ad intravedere la macchina con i suoi vetri scuri che mi aspettava. A pochi passi dalla porta di vetro però sentii il fischio di un treno,non poteva essere il suo perché non era di certo passato un quarto d’ora ma questo bastò a bloccarmi e a farmi decidere di tornare indietro. Non ebbi però il coraggio di scendere le scale e raggiungerla, così decisi di nascondermi dietro una spessa colonna di cemento e di osservarla. Lei era dall’altra parte,seduta su di una panchina,troppo immersa nei suoi pensieri per notarmi. Tuttavia,per sicurezza,ogni volta che avevo la sensazione che potesse guardare verso me, sparivo completamente dietro il mio “nascondiglio” improvvisato. Tenevo solo il capo di fuori per poterla vedere e ogni volta che rischiavo di essere visto lo ritraevo. Devo aver ripetuto questo gesto almeno dieci volte e di sicuro tutti quelli che mi hanno visto in quella circostanza avranno pensato che fossi un pazzo,o un maniaco che osservava la sua preda prima di colpirla. A pensarci adesso mi sento ridicolo,mi viene da ridere ma in quel momento tutto quello che mi circondava era diventato polvere,non lo vedevo,non lo sentivo:la sua immagine era l’unica cosa che mi interessasse e feci di tutto per guardarla fino all’ultimo istante.Il treno arrivò puntuale,cosa che di solito non accade mai;piano piano i vagoni coprirono il lato della stazione che mi stava di fronte e,quando ripartirono liberando la visuale,la panchina sulla quale stava seduta lei pochi attimi prima era vuota. Quel treno fu come una gomma che cancella un tratto di matita:lei era il tratto di matita che era stato cancellato dal libro della mia vita. Pensai che però le gomme servono a cancellare gli errori e lei tutto era,tranne che un errore. Inoltre,se sbagli qualcosa puoi cancellarlo ma spesso il segno della matita rimane comunque. In quel momento mi ricordai del liceo e dell’odio profondo che avevo per il disegno tecnico:sbagliare più di una volta a disegnare una retta voleva dire dover cambiare foglio e ricominciare da capo. Si,dovevi cambiare il foglio perché i tratti precedentemente cancellati non sparivano mai completamente e il disegno veniva male,pareva “arronzato”come diceva sempre il mio prof quando vedeva una mia tavola. La vita delle persone,in effetti, può essere paragonata ad un enorme foglio da disegno;ogni fatto,accadimento,ogni persona che entra nella nostra vita è un linea,linea che può essere marcata e calcata con forza oppure appena accennata. Più le linee sono calcate e più è difficile cancellarle. Alcune,addirittura,lasciano un vero e proprio solco nel foglio e quel solco non potrai mai elimnarlo;anche se dovessero passarci sopra mille gomme il segno resterebbe perché non è un semplice disegno,è qualcosa che ha cambiato lo stato del foglio,la sua forma fisica. Appena mi resi conto di averla persa sul serio compresi anche che sul foglio della mia vita si era creato un secondo solco!Il primo si era formato cinque anni prima,quando mia moglie decise di lasciarmi per poter scappare con un altro:un medico parigino del quale non avevo mai neanche saputo il nome. Lei non era mai venuta a conoscenza di mia moglie,in due anni non gliene avevo mai parlato,mai neanche lontanamente accennato. La mia storia era troppo assurda e troppo dolorosa;sarebbe andata bene se inserita in una tenelovelas ma nella realtà,paradossalmente,stonava. Avevo tutta questa confusione in testa:uno sciame impazzito di sentimenti mi accompagnò fino al doppio bip dell’antifurto della mia auto;salì e chiusi lo sportello. Rimasi per qualche minuto con il gomito appoggiato sul volante e la mano sulla fronte a cercare di smettere di pensare,poi presi le chiavi che stavano penzolando nell’altra mano,me le passai nella destra e misi in moto. Il rumore sordo del motore e le sottilissime vibrazioni del sedile erano come un massaggio mentale ma non si sposavano con il mio confuso stato emotivo. Feci la retro con un senso di pesantezza indicibile nello stomaco e nella pancia e nelle mani e nelle braccia, poi staccai bruscamente la frizione,la macchina sgommò e mi diressi verso lo svincolo autostradale:non volevo fare la stessa strada che avevo fatto all’andata e, anche se sapevo che avrei allungato di vari chilometri,decisi di prendere l’autostrada. Alla radio trasmettevano Sarah di Bob Dylan ed era una canzone che stonava rispetto al panorama mediterraneo che avevo intorno:fin dalla prima volta che l’avevo sentita le immagini che quella canzone mi trasmetteva erano immagini tipicamente americane,di quel America dell’est fatta di canyon e montagne rocciose e teschi di mucche e sole alto all’orizzonte. Il sole nel paese invece era del tutto calato e ormai si era fatta sera,una sera che mi era scesa anche dentro ed era poi diventata notte fonda,senza nemmeno una stella che brillasse.Ebbi per un attimo un breve stimolo d’appetito ma il macigno che mi schiacciava lo stomaco lo spense sul nascere e così,arrivato al mio albergo e parcheggiata la macchina nel garage, mi diressi di filato in camera,non facendo troppo caso al profumino di gamberi alla brace proveniente dal ristorante. Aprii la porta con lo stesso fare stanco che aveva accompagnato la mia retro marcia vari minuti prima e mi gettai sul letto come a voler sprofondare nel mare bianco delle lenzuola che avevo lasciate,ancora sfatte,prima di uscire. Tenni il viso schiacciato nel buio del copriletto per qualche istante. Il buio mi premeva le palpebre sugli occhi stanchi;poi mi voltai lentamente a guardare il soffitto cercando di trovare un punto dove non si riflettesse il volto in lacrime di lei e il treno che la portava via;senza nemmeno pensarci,con un gesto istintivo e morto come il mio cervello in quel momento presi il telecomando e accesi la tv:al tg parlava un politico di sinistra che,con fare palesemente insicuro, affermava stronzate di circostanza delle quali lui stesso pareva poco convinto…“Bisogna utilizzare le energie alternative come quella eolica,idrica e solare per far progredire il paese e mandare avanti l’economia nel rispetto dell’ambiente” diceva facendo schizzare gli occhi in ogni parte dello schermo tranne che nell’obiettivo della telecamera. “Mio Dio” pensai e poi dissi a voce alta,come se quello dall’altra parte potesse sentirmi, “Se le cazzate che dici potessero essere convertite in una qualche forma di energia alternativa allora di sicuro saremmo il primo paese del mondo…potremmo superare e inchiappettarci anche gli americani”. Feci un po’ di zapping ma come al solito non trasmettevano nulla che potesse minimamente stimolare una qualche forma di attività neuronale così spensi e rimasi nel buio e nel silenzio ad ascoltare la voce assordante dei miei pensieri. Con la coda dell’occhio vedevo la luce fioca e intermittente dei due punti che scandivano i secondi sul display del mio orologio digitale, e uno strano,incontrollabile senso statico mi prese:quel display lampeggiante mi metteva addosso una strana angoscia,vedevo il tempo scorrere,i secondi passare e avrei voluto fare qualcosa,magari chiamarla o chiamare qualcun altro in cerca delle solite frasi di consolazione ma il mio fisico,la mia mente erano fermi,intorpiditi e ad un tratto tutto il corpo mi vibrò come preso da un impeto ribelle,come a voler reagire a quel senso di impotenza rassegnata,abbandonata come le foglie nel vento d’autunno.