parole sui vetri

non sono allenato


Era una donna sulla quarantina. Bella, alta, con i fianchi morbidi. Avvolgente. Materna. Con una giacca a vento bianca. Aveva il trucco un po’ sfatto e il rossetto sbiadito. I capelli, neri e mossi, raccolti sulla nuca con forcine invisibili. Il sole che rifletteva dalla vetrata del bar, stava tramontando . E lei aveva l’aria triste. Sedeva al tavolo dell’angolo più lontano dal bancone ed un velo di lacrime copriva il vero colore dei suoi occhi. Curiosamente quelle lacrime le restavano negli occhi e li faceva assomigliare a due laghi luccicanti. Si mangiava le unghie infilando le dita tra le labbra carnose. Lentamente. Sedeva con le gambe un po’ schiuse come una sgualdrina, ma piangeva come una bambina innocente senza bambole. Sembrava avvolta in una pacata tristezza, quasi non fosse un vero dolore ma soltanto maliconia. Una di quelle malinconie che ti tolgono il fiato, ma non i sogni, che fanno sentire stupidi per aver coltivato una speranza che col senno di poi scopri che non era mai esistita. Malinconia che a volte ti sembra di non poter mai più allontanare da te. Eppure io una soluzione la vedevo, la sentivo. Mi era entrata nella mente come un lampo senza tuono. Calore senza rumore. Qualcosa di semplice. Ma non potevo aiutarla. Non la conoscevo e non facevo parte del mondo di cui stava rivivendo attimo dopo attimo. Le sono passato vicino per uscire dal bar, ma lei non mi ha neanche notato. Allora in quei due ultimi passi prima della porta ho dato tutta l’energia e la forza possibile al mio pensiero perché il suo sentisse un : “Il calore di un abbraccio. Cerca il calore e la forza di un abbraccio”.Per strada poi mi è venuto da ridere: ancora non sono allenato a comunicare col pensiero e le mie parole magari stavano rimbalzando sui muri del locale senza trovare la via giusta.