parole sui vetri

Tarcisio e Silvana


Tarcisio detto “stampella” asciuga le posate con mani inesperte, mentre una pentola borbotta sul gas. Posa un cucchiaio in mezzo alla tavola. La tovaglia è di plastica, che costa meno. D’estate i gomiti ci si appiccicano come fosse chewingum, ma non è importante per chi ha altre priorità. E’ tenere a posto la casa il suo nuovo lavoro, da qualche mese. Da quando sua moglie, per via delle ossa, non puo’ stare in piedi e neanche a sedere su una sedia. In tutta la vita, sussurra, mai asciugato posate o fatto qualsiasi altra cosa in cucina. Gli spunta persino una lacrima, quasi fosse l’ultima offesa patita. Improvvisamente scaglia un piatto nel lavello. Va’ in mille pezzi perchè il braccio che sembra trasparente e cascante è ancora forte se guidato dalla rabbia della disperazione. Si siede e si asciuga gli occhi col dorso della mano e ”capisci? Cosa potrà ancora succedermi? ancora succederci”? Ed io mi sento a disagio. Gli ho solo portato della frutta e un po' di pane, latte e  zucchero. Ogni sabato. Per quello che resta ci pensano altri vicini. Il passato di verdura è pronto. Lo versa sul piatto senza accorgersi che si sta scottando o forse neanche sente il calore. Prende un cucchiaio e si incammina per il lungo corridoio. Entriamo in camera. Silvana, sua moglie, è sul letto con i cuscini che l’aiutano a stare quasi seduta. La saluto con un cenno. Lei alza una mano minuta ed io gliela prendo e la stringo. Piano. Tarcisio si siede su una sedia vecchia ma robusta e goffamente ma teneramente la imbocca. Io li guardo. Si vogliono un bene dell’anima. Lei è felice di averlo vicino e lui è fiero di far questo, anche se non lo ammetterebbe mai. Sulle pareti gli anniversari contati dal dopoguerra. Per la stanza gli ultimi lievi rumori di liti e le rumorose armonie di carezze. Sulla credenza una fotografia in bianconeroormaigiallo di lui impomatato di brillantina e di lei capelli al vento, con lo sguardo sognante. E dolce. Il cucchiaio scivola un attimo dalle mani di Tarcisio e cade per terra rumorosamente. Impreca. Lei abbassa gli occhi e lo rimprovera. D'amore. Lui finge di dirle che “smettila che poi quando toccherà a te imboccarmi chissà quante volte ti succederà” e lei finge d'imbronciarsi. In questo modo portano a spasso l'amore fra la tavola e il salotto e il letto da più di mezzo secolo. Tarcisio ha perso una gamba che io avevo due anni ed abitavo lontano centinaia di chilometri. Un incidente sulla strada di Tolmezzo, con una Vespa, mentre tornava dal lavoro. Rimase per ore in un canale al fianco della strada finchè qualcuno si fermò insospettito da una lunga frenata. Quelle cose che pensi sempre tocchino a gente che non conoscerai mai come quando passi e butti lo sguardo dentro un'ambulanza per guardaare lo sconosciuto che stanno portando via. Tarcisio e Silvana. Si rincuorano sempre fingendo che il destino con loro poteva anche esser diverso. E lei sdrammatizza di continuo ammonendolo che, quel giorno che io avevo ancora due anni, poteva perder pure l'altra gamba. Finisce di mangiare. I suoi occhi sono stanchi e il suo respiro affannato dallo sforzo di inghiottire. Faccio per andarmene, la saluto con un sorriso e un tocco della mano. Tarcisio posa il piatto ormai vuoto sul comodino, prende le stampelle e mi accompagna alla porta. Mi saluta come ogni volta: con una mano sulla spalla e gli occhi umidi. Scendo le scale di pietra e mi allontano veloce. Mi sento colpevole quando mi ritrovo a contare i miei passi per esser certo che ci siano tutti.