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Nel segno del giallo. "il fumo uccide" capitolo 3


L’uomo era tornato nel suo isolamento abituale. Un altro passo era fatto. Un altro uomo era morto. Nel buio della sua camera, il silenzio l’aiutava a riflettere. Solo il silenzio per lui, adesso. Sapeva che presto il rumore della società in cui viveva l’avrebbe raggiunto. E la causa del clamore dilagante era lui. Aveva sconvolto quella tranquilla e ipocrita provincia. Sapeva che la sua missione era lunga da compiere. Lunga e difficile. Nessuno poteva capire. Lui era nel giusto, si sentiva nel giusto. Un altro trofeo si mostrava alla sua vista. La parete di cristallo iniziava a perdere la sua trasparenza. Qualcosa riempiva quello spazio freddo e luminoso. Quei macabri souvenir di un tour appena iniziato. L’uomo, ormai stanco, si stese sul letto e cadde in un sonno profondo. Aveva bisogno di riposare, aveva bisogno di nuove forze per compiere la sua missione. Un sonno senza sogni. Sogni senza sonno. Incubi per chi non faceva parte del suo mondo. E pensare che anche lui era uno di loro. Una vita normale, spesa in buongiorno e buonasera. Mi saluti la signora. La spesa al mercato, il sabato e la domenica al bar, con gli amici. Le carte, il vino ma mai una donna. Era troppo timido per avvicinarne una. Una volta c’era stata una donna. Una per la quale riuscì a vincere la sua timidezza. Purtroppo la sorte gliela portò via. Aveva ventuno anni, era il suo terzo anno di università. Studente modello. Lei era al suo primo anno di medicina. Si conobbero nell’atrio della facoltà, uno sguardo intenso. I loro occhi non riuscivano a deviare lo sguardo, entrambi arrossirono. In quel rossore reciproco trovarono la forza di rivolgersi la parola. Da quella volta, s’incontrarono spesso e divennero amici. Lui era talmente preso da quella relazione che perse la fama di studente modello. A lezione era presente solo fisicamente. La sua mente era altrove, pensava a lei. Riusciva a vederla seduta a seguire le lezioni del primo anno. Era bellissima. L’amicizia si trasformò in amore. Era felice. Erano felici. Una felicità che lo spaventava molto. Non aveva mai provato niente di simile. Ma comunque era felice. Una felicità che gli metteva paura. I suoi timori presero corpo una domenica mattina. A bordo della sua vecchia lambretta percorrevano la strada per il mare. Cantavano. D’improvviso lo videro, quel maledetto camion. Era li, davanti a loro. Gli andava incontro, sbandando. Nel tentativo di evitare lo scontro, perse il controllo e caddero. Riprese conoscenza dopo alcuni minuti. Intorno a se le facce di curiosi, accorsi più per guardare che per prestar loro aiuto. Per non perdersi lo spettacolo. Urlò il suo nome: Caterina. Non rispondeva. D’improvviso il silenzio. Capì. Lei era li distesa, priva di vita. L’aveva uccisa lui. Si, era stata sua la colpa. Fu al tempo stesso vittima e carnefice. Giudice e imputato. Il verdetto: Colpevole. La pena per la sua colpa? La solitudine forzata. Si condanno alla solitudine. Solo, per sempre, in una moltitudine di uomini e donne che gravitavano intorno a lui.