elaborando

Bobby


Sirhan Sirhan lo aveva adorato. Poi lui, la speranza nascente per le classi meno agiate, si schiera dalla parte di Israele, e l'adorazione si tramuta in odio: "RFK deve morire", scriverà nel suo diario, ogni giorno per un anno. Finché la sera del 4 giugno 1968, nell'Hotel Ambassador di Los Angeles, scaricherà il caricatore della sua pistola su Robert Francis Kennedy e su chi gli sta intorno, sotto l'occhio delle telecamere che diffondono in diretta. RFK morirà all'alba del 6, il sogno americano si è infranto, si scriverà.Ieri sera al cineforum c'era Bobby (2006), che racconta quella notte nell'albergo: dalle cucine zeppe di messicani e neri, niente bianchi in cucina, agli ospiti occasionali dell'albergo, al direttore e a sua moglie, parrucchiera ed estetista dell'albergo. E dà così una misura di cosa si sia rotto in quel sogno: il desiderio di emancipazione delle minoranze, la possibilità di uscire bene dall'incubo Vietnam, un clima di giustizia sociale che pare ancora a portata di mano, anche se Martin Luther King è stato assassinato giusto due mesi prima.Impressionante confrontare il ritratto morale di RFK che viene fuori dal suo dire, ampiamente riportato in originale con sottotitoli in italiano, con quello di George Dàbliu Bush: definirlo un abisso è riduttivo, li collocherebbe sullo stesso pianeta. Basta pensare alla decisione di ieri, veto alla legge che allargherebbe a quattro milioni di bambini indigenti la copertura sanitaria minima; qualcuno potrebbe pensare che si stia pensando ad una sanità publica, ha detto inorridito. La guerra in Iraq costa venti volte di più di quell'intervento che sarebbe stato finanziato da una soprattassa sulle sigarette. Direi abbastanza per capire Dàbliu, no? È un film anche zeppo di attori bravi: il mito Anthony Hopkins, ex-portiere dell'albergo orgoglioso di aver dato il benvenuto ai personaggi più importanti del mondo, poi Harry Belafonte, Helen Hunt. È il secondo film di questa stagione in cui vedo la Hunt, dopo la delusione della prima volta, in questo mi è piaciuta; al terzo, se ci sarà, mi piacerà alla follia, temo. C'è anche chi il film l'ha scritto e diretto: Emilio Estevez.E poi lei, Sharon Stone, la parrucchiera ed estetista. Non l'avevo riconosciuta, ma notare la bellezza che bucava il trucco vistoso fine anni 60, si, quello si.La parrucchiera scoprirà proprio quella sera che il marito, il direttore dell'albergo, l'ha tradita con una delle centraliniste. Un altro sogno infranto che però si ricomporrà di fronte all'altro sogno che va in mille frammenti, quello legato a RFK. Succede spesso così: una grande tragedia ridimensiona gli altri drammi, quelli che in quel momento vediamo sotto una luce diversa e cogliamo nel loro essere minimi. Una tragedia ci può rendere più forti e ci può far superare cose che un attimo prima ci avevano annientato.Qualche giorno fa io e lei abbiamo avuto una piccola discussione ed è rimasto qualcosa che non abbiamo risolto. Cose che in quasi trent'anni di matrimonio capitano di tanto in tanto, risolveremo anche adesso. Uscendo dal cinema le raccontavo proprio questa riflessione sulle tragedie grandi e piccole. Nel nostro caso la causa del dissapore è veramente piccola piccola, per annullarla basterebbe una tragedia importante ma non necessariamente apocalittica. Che so, una diarrea ad un ministro? Io un paio di nomi ce l'ho, anzi uno. Ma non lo faccio, non vorrei mai.Nell'immagine, presa da allmoviephoto.com una scena del film, la Stone è al centro, si riconosce.Buon giovedì, vi saluto la torre di Pisa.