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Cordialmente,
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Post n°379 pubblicato il 03 Agosto 2025 da ElettrikaPsike
Tag: Bellezza, desideri, divino, fanciullezza, incanto, innamoramento, Joan Mirò, magia, Marc Chagall, Matto, Tarot, Vangeli
«In verità vi dico: se non vi convertirete e non diventerete come i bambini, non entrerete nel regno dei cieli.» (Mt 18,3; Mc 10,15)
Ho letto una poesia di un amico, un’esperienza poetico-mistica in cui l’infanzia diventava accesso ad una realtà superiore, custodita da un mago che accende lune tra gli alberi. In sostanza, ha ricreato l’Eden con immagini di conoscenza, bellezza e verità che orbitavano in un giardino privato della loro coscienza. Perché la bellezza magica dell’innamoramento infantile non è data solo dall’ingenuità fiabesca e nuova ma dalla capacità di essere maghi. Autentici e divini. Ancora tanto vicini a quegli dèi che si è stati. E da quello spunto, in questo post di quasi ormai mezza estate, vorrei ricordare – prima di tutto a me stessa – che l’innamoramento dell’infanzia non è affatto un sentimento ingenuo o tenero, ma un atto di percezione incantata ed evocatrice in cui il nostro spirito – oppure anima, io, o in qualsiasi modo si preferisca chiamare la parte più intima, invisibile e autentica di noi – non è ancora scisso ed amputato dalla razionalità cinica e scettica o dalla pretenziosità difensiva. Un sentimento intatto che può ancora emanare bellezza incontaminata e riceverla. Perché si sta parlando di una condizione magica originaria. Ed è poeticamente intensa perché nuda, disarmata e forte, coraggiosa e onesta nella sua verità, ancora completa e struggente, benché leggera, stupita e nuova, ma soprattutto perché è una condizione mistica. Quando la si vive si è ancora fanciulli divini, capaci di accogliere simboli, forme e archetipi senza doverli per forza decifrare. Il mago nel giardino – che metaforicamente accende lune tra i rami – non è altro che quello stesso bambino, ancora integro del proprio potere immaginativo. Per questo l’innamoramento infantile è epifanico. E quando si manifesta, anche l’universo lascia cadere i suoi veli e si lascia guardare perché sa di essere guardato da un dio fanciullo, da un bambino magico che non vive alcuna separazione tra coscienza e mondo, in totale trasparenza ontologica. D’altronde, il fanciullo simboleggia la purezza data dall’apertura e dalla fiducia radicale, vale a dire la condizione di grazia esistenziale per antonomasia, anche da un punto di vista teologico. Eppure, quella risorsa infinitamente divina appartiene a tutti e non solo a pochi eletti. Ed ugualmente la esprime il puer della Tarot – simbolo archetipo del potenziale infinito, del non condizionato che si unisce alla fine precedendo l’inizio, ma anche dell’innocenza libera da sovrastrutture adulte e dogmatiche – in quanto altro non è se non l’energia creativa e la fiducia impavida, il salto nel vuoto con il cuore aperto. Come il bambino evangelico, anche il Matto può accendere ogni scintilla e aprire tutti i varchi e questo unicamente perché ancora non è stato modellato, vive senza scudo razionale, splende di potenzialità senza tempo, magnificamente predisposto al mistero.
Tra poco arriverà la notte delle stelle cadenti e dal momento che il verbo desiderare etimologicamente significa accorgersi che c’è molto altro, al di là di ciò che le stelle ci stanno concedendo, l’augurio è uno solo, per tutti: Che ognuno possa ritrovare la propria visione incantata del reale...
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Ci cresciamo dentro, a questa continua violenza, tutto funziona su questa perpetua distruzione che crea. E allora mi chiedo quale dio abbia potuto pensare di prendere anime capaci di quel sentimento che emana bellezza e ne riceve, e calarle in un universo fatto di dolore. L'unica risposta che riesco a darmi è che quel dio non avesse altra scelta: se vuoi illuminare il buio devi scoccare un scintilla e sperare che diventi un fuoco, ma anche accettare che la notte sia molto più grande di tutte le stelle del cielo.