Creato da ElettrikaPsike il 17/12/2012

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Dillo, bella strega...se lo sai, Adorabile strega…Dimmi, conosci l’irremissibile? (I fiori del male, C. Baudelaire)

 

Messaggi di Giugno 2018

LA FONTANA DELLA VITA

 

E’ luogo comune affermare che la differenza tra l’esistere ed il vivere sia una partita che termina con la vittoria della seconda a discapito della prima.

Credo, in parte, perché erroneamente è stato accomunato al concetto di esistere quello passivo di vegetare, inteso come il condurre una vita in stato d’inerzia e d’incoscienza nella quale vengono esplicate esclusivamente le proprie funzioni basiche ed essenziali, parimenti (o quasi) ad un qualsiasi organismo vegetale che in un terreno argilloso si alimenta, cresce e respira; ma al di là del fatto d’essere in grado di sintetizzare le proprie molecole organiche da sostanze inorganiche non fa poi molto per spassarsela.

O, almeno, dal nostro soggettivo punto di vista.

Ma è indubbio che, se da un lato l'emissione di molecole per ottenere difesa in caso di pericolo, lo scambio d’informazioni attraverso l’utilizzo di miceli, il propagare segnali elettrici simili a neuroni cerebrali o la stessa capacità di chiudere le foglie in risposta all’ambiente circostante, per una pianta non sono affatto cose di trascurabile valore,  dall'altro, per noi creature umane, risulterebbe decisamente penalizzante il limitarci a queste aspirazioni…

Pertanto sì, vegetare non è un gran bel vivere per un essere umano: “Mi mancan le parole per costruire torri in faccia al sole - scriveva il cantautore Pierangelo Bertoli - sarà perché son stato troppo tempo a vegetare e l'ho chiamato spesso riposare”; ma vegetare non è sinonimo di esistere.

Penso, però, che anche la letteratura abbia fatto il suo, alimentando non di poco l’equivoco, se lo stesso Wilde convintamente scriveva che per essere felici è necessario essere capaci di vivere, non dimenticandosi di aggiungere che la maggior parte degli uomini si limita solo ad  esistere e nulla più, perché il saper vivere è la cosa più rara al mondo.

Eppure, riflettiamo: vivere non è altro che la condizione di poter esplicare le funzioni vitali primarie, e questo indipendentemente dalla specie di appartenenza a cui si faccia riferimento, tanto che si parli di vegetali, funghi, licheni, animali o uomini, infatti, è sempre lo stesso sottofondo musicale.

Anche le nostre amiche verdi o fiorite, nel loro stato vegetale, conducono comunque una vita.

Vivere è, infatti, questo, vale a dire semplicemente stare al mondo.

E’ l’esistenza, invece, ad essere qualcosa di differente, perché in sé l'esistere implica un carattere di trascendenza.

Ma anche al di là dell’esistenzialismo ontologico o fideistico, un ente che esiste sta necessariamente sempre al fuori di se stesso, non fosse altro per il fatto che non è mai solamente quello che si trova ad essere in atto. Al contempo, infatti, è anche quello che potenzialmente sarà e che, pur nel presente, sta già progettando di voler essere nel suo prossimo o remoto futuro.

La vita, infatti, può anche essere passata in un letto o in un carcere o spesa in quattro mura timbrando sempre alla stessa ora la propria entrata e la propria uscita, mangiando, dormendo e garantendo le funzioni necessarie per la propria sussistenza organica, ma per quanto poco coinvolgente ed anche al di sotto di ogni lecita attesa possa essere - in ogni caso - è sempre vita. Vivere, quindi non è indicativo di null'altro.

Esistere, invece, è tutt'altra storia. Perché implica una promessa d'infinito che non ci limita al solo significato di curare il nostro organismo biologico - proprio come fa ogni specie sulla terra - ma permette all’essere umano di non esaurirsi mai del tutto in se stesso.

Una buona parte di letteratura e tutti i luoghi comuni del mondo, invece, continuano a tramandare la fola che esistere significhi vegetare, ovverosia esplicare un mero atto di passiva comparsa - perlopiù incosciente - in questo mondo, e che sia il vivere, invece, ad essere un qualcosa di più, perché oltre ad essere comprensivo dello stare al mondo viene considerato legittimo sinonimo della capacità di sentire, pensare, sperimentare ogni emozione, momento e moto dell’anima.

Ecco, io credo sia esattamente il contrario.

Ed il perché, lo chiarirà in immagini verbali Milan Kundera al mio posto.

 

 

 

Nel vivere non c’è alcuna felicità.

Vivere è soltanto portare il proprio io dolente per il mondo.

 

Ma essere è felicità.

 

Essere significa trasformarsi in una fontana e in una vasca di pietra,

nella quale l’universo cade come una tiepida pioggia.

 

M. Kundera

 

 

 

 

 
 
 

A proposito di tolleranza mal tollerata

 

Peccato non poter rispondere al post di Alfio Squillaci direttamente su La Frusta Letteraria, un blog - leggasi - di “Critica letteraria, culturale in genere e note di costume” all’interno di Linkiesta.it - di nuovo, leggasi - un “giornale digitale indipendente, libero da ideologie e posizioni precostituite”; ma pare non sia contemplata la sezione commenti.

Non è, tuttavia, un problema.

Siamo - bene o male - in un contesto di democrazia, ed è ancora possibile - in un modo o nell’altro - esternare i nostri pensieri, e così, anche se mi è capitato di leggere un suo articolo che non prevede la possibilità di accogliere commenti, dirò semplicemente qui quello che penso, non trovandomi d’accordo con il suo esposto.

Qui di seguito, a chi interessa, il link che riporta al testo integrale a cui faccio riferimento:

http://www.linkiesta.it/it/blog-post/2013/01/14/voltaire-non-ha-mai-detto-non-sono-daccordo-con-quello-che-dici-ma-dar/13767/

Iniziamo dal principio.

Il perno intorno al quale il signor Alfio Squillaci ha deciso di imbastire la sua disquisizione per poi farne un ricamo lungo un post, è la presunta attribuzione al signor Voltaire della sputtanata frase-parametro per ogni tolleranza universale, vale a dire la pluri menzionata "Detesto le tue idee, ma darei la mia vita affinché tu potessi continuare ad esprimerle in eterno."

Per buona parte dell'articolo (la prima) vengono impugnati i testi da cui si estrapola il come, il quando ed il perché la citazione sopracitata, al pari di altrettanto famose considerazioni di Galileo e di Niccolò Machiavelli, sia un falso storico della portata dello Ius primae noctis.

Tutto molto interessante, canticchierebbe a questo punto il furbo nerd musicale Fabio Rovazzi,  e probabilmente con ragione, perché quel post sarebbe stato davvero convincente...ma con un se.

Vale a dire se la questione posta in essere da Squillaci, che avrebbe potuto avere il suo discreto senso di per se stessa, si fosse limitata ad una semplice funzione ripristinatoria di eredità intellettuale, ed avesse avuto come unico scopo quello di sollevare il filosofo settecentesco dalla paternità di affermazioni mai concepite.

In realtà, però, così non è stato ed il senso dell'articolo si va destrutturando cammin facendo.

Tutte le prove da lui raccolte, infatti, divengono una questione secondaria e pusilla nel momento in cui la rimanente parte del post si dimostra essere un incerto tentativo di detrazione a livello semantico della frase stessa.

Difatti, rivolgendo la sua attenzione puramente al senso della citazione, il direttore della rivista web ad un certo punto scrive:

"Ancora oggi viene ribattuta con grande enfasi e magnanimità citrulla tutte le volte che si fa mostra di elegante tolleranza nei confronti del proprio avversario. Essa è tanto pregna di un fair play vanitoso quanto logicamente destituita di senso solo se ci si pone a pensare che se concediamo al nostro avversario la libertà di poter dire tutto, anche l’intenzione di uccidere... etc."

E poi ancora:

"L’idea di tolleranza non può che partire da un 'minimo etico' e non può non essere che reciproca, ovviamente, ma non può ammettere nell’interlocutore idee di sterminio o altri abomini, che pertanto nessuno, e per giunta a sacrificio della propria vita, può consentire di dire ad alcuno."

Concludendo, infine, con una tesi alquanto deviante:

"Se infatti si deve essere tollerante coi tolleranti, viceversa non si può essere che intolleranti con gli intolleranti."

Ecco.

Ed ora mi domando se l'autore finga di non capire o davvero trascuri il nucleo della questione.

Perchè il punto non è il rimarcare l'assenza di una logica accettata dal buon senso umano all’interno di un’espressione che predica la libertà come principio fondante, e nemmeno il cercare di contestualizzarla, ma semplicemente dare per assunto che quella tolleranza predicata dalla frase erroneamente attribuita a Voltaire  è - al pari della libertà o dell'amore - una categoria caratterizzata dall'assolutezza.

E questo va mantenuto. Al di là del fatto che, nel momento in cui poi vengono tradotte in atto e contestualizzate, queste categorie risentano - o possano risentire - di varie ed eventuali delimitazioni provenienti dalle leggi fisiche e dalle situazioni determinanti.

Ma la libertà, in quanto principio, è - e dev'essere - inviolabile di per sè.

 

 

 

E nel suo presupposto va in ogni caso preservata, proprio come ogni altro parametro intoccabile,  già naturalmente limitato dai condizionamenti storici, economici, sociali e religiosi.

Esiste una regola, ovvio, ma certamente poi esistono anche le eccezioni, ce lo insegnano fin da bambini. E la tolleranza e la libertà non ne sono minimamente esentate.

Perché scendendo appena  al di sotto, o salendo appena oltre la loro soglia di definizione, ci si ritroverebbe comunque e sempre pericolosamente al di fuori di un sistema liberal-democratico; sta quindi a noi, di volta in volta, comprendere come praticarle, in modo da non sterilizzarle nè strumentalizzarle.

Il principio della libertà di parola e di pensiero, espresso da quella non volteriana dichiarazione, è basato su questo e finalizzato a questo, affinché non solo il signor Squillaci, ma anche io, e chiunque altro in questo preciso momento, possa avere il diritto di parlare.

E se poi le nostre libere e liberate parole saranno bugiarde, violente o persino ottuse, saranno pur sempre parole (e concetti) che si potranno altrettanto liberamente non ascoltare, non condividere e non accettare.

Tuttavia, è stabilito - e questo indipendentemente dal fatto che ci piaccia oppure no - da un preciso articolo, vale a dire il numero 21 della nostra Costituzione, che proprio tutti, a prescindere, come direbbe Totò, abbiano il diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, con lo scritto e con ogni altro mezzo di diffusione.

Perché la libertà di manifestare un pensiero - fosse anche bugiardo, aggressivo, meschino o discutibile -parimenti alla libertà di coscienza, sono semplicemente previsti come diritti riconosciuti di tutti quegli ordinamenti politici considerati democratici.

D'altro canto, però, è la stessa giurisprudenza a prevedere anche l'esistenza di casi delittuosi per i quali la legge autorizza e predispone una limitazione nell'espressione individuale.

Gioberti si domandava dove finisse il dominio della libertà e incominciasse, invece, quello della legge...Ecco, io credo che non saremo certo noi, con questi post, a stabilirlo.

Ed anche se, personalmente, nella mia ben poco onorata intolleranza, sono intimamente d'accordo con il fatto che la libertà inizi solo laddove l'ignoranza finisce, e mi senta, altresì, notevolmente rallegrata dal fatto che ci sia una legge preposta ad arginare e reprimere gli abusi, tutto questo non cambia di una sola virgola l'esigenza del presupposto di una "libertà libera" e di sicuro non lo renderà meno indispensabile per noi tutti...

Quindi no, il principio è quello che permette che si possa esprimere qualsiasi idea e poi, naturalmente, dell'utilizzo che di questa idea se ne possa o non possa fare, ognuno sceglierà per sè. E nel caso, pagherà il proprio dazio con la società e con se stesso (non però obbligatoriamente in quest'ordine).

Ma tutto questo è già stato previsto, e proprio in nome di quella salvaguardia del 'minimum etico' che il preoccupato signor Squillaci chiamava in causa nel suo articolo.

Il punto, in definitiva, è solo il capire questa frase...

Inoltre, mi domando: ma poi, il fatto che quell'affermazione l'abbia o non l'abbia partorita la levatura intellettuale del nostro Voltaire, cosa dovrebbe mai cambiare nel signor Squillaci o in noi tutti?

Conoscere o meno l’autore, cosa toglie o cosa accresce alla sostanza di un esposto?

Per rendere maggiormente credibile l'intento d'essere una sagace, caustica e dissacratoria penna - almeno da come l'autore del post scrive, infatti, questo sembrerebbe essere un suo proponimento - forse Squillaci avrebbe fatto meglio a tralasciare simili ingenuità da groupie...

D’accordo, non l'ha scritto Voltaire. E dunque?

Altri personaggi sicuramente meno eleganti e con ogni probabilità meno colti del giornalista – ma pur sempre intellettualmente onesti – forse risponderebbero con un chiarificatore detto romanesco, da me lasciato sottinteso, che inizia con "'sti ca..."

Il paradosso, infatti, è che, lungi da essere dissacratorio, il fair play enfatizzante che Squillaci vorrebbe castigare, in questo modo, lo ha dimostrato lui.

Più che una frusta, a me sembra un paravento di letteratura.

E dal momento che lo scrittore è laureato in filosofia, potrà capire se aggiungo con rammarico "fosse stato almeno un paravento di un boudoir..."

 

 

 

 

 
 
 

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