ElettriKaMente
Dillo, bella strega...se lo sai, Adorabile strega…Dimmi, conosci l’irremissibile? (I fiori del male, C. Baudelaire)
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e manie persecutorie-vittimistiche,
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Anche se il blog é moderato, ogni intervento pervenuto viene pubblicato.
Qualora il vostro non risulti, invece, visibile tra gli altri è semplicemente perché, presentando tracce delle sopracitate (incontinenze, pratiche onanistiche o manie persecutorie-vittimistiche)
vergognandosi di se stesso e di chi l'ha messo al mondo, si è autoeliminato.
Capisco che il nome del blog potrebbe trarre in inganno, ma qui non troverete il supporto psichiatrico che andate cercando.
Cordialmente,
Elettrikamente,
EleP.
Messaggi di Settembre 2025
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Post n°380 pubblicato il 21 Settembre 2025 da ElettrikaPsike
No, non esiste. Anche se è legittimata, non c’è un valore etico o spirituale nell’impartire la morte. La guerra è sempre criminosa e mortifera. E di per sé, quindi, essendo impostata su espressioni di ingiustizia, da un punto di vista etico e morale non può avere mai un valore positivo. Anche perché, per quanto la si consideri necessaria - in condizioni di difesa dalle aggressioni o come liberazione da tirannia - in se stessa resta sempre una scelta tragica. La questione di ciò che viene definito come “l’onore delle armi” è puramente una trasfigurazione simbolica. La forma del conflitto, la disciplina e il gesto eroico sono elevati a bellezza solo quando (e perché) vengono strappati dal loro contesto brutale. Ma il campo di battaglia è soltanto distruzione, sangue e caos. Ogni bellezza nella guerra è sempre una costruzione retrospettiva e culturale. Ed anche tutte le tradizioni belliche (dal bushidō giapponese a quelle cavalleresco europeo, per intenderci) che hanno proposto la guerra come una palestra interiore, un’occasione per superare la paura affrontando la morte per forgiare il carattere, entrano in un inevitabile paradosso, perché ciò che per il singolo può sembrare una crescita spirituale, per la collettività resta inevitabilmente un annientamento. Detto questo, la guerra – come qualsiasi azione che porta dolore, violenza e morte – è l’ennesima espressione ineliminabile di un ordine cosmico che abbiamo deciso di rendere duale (pensiamo al πόλεμος di Eraclito) con gli opposti luce e tenebra, amore e odio, pace e conflitto che si alternano costantemente come polarità atte a definire la totalità del reale. Banalmente, quindi, l’uomo si trova in un contesto in cui non esiste la vita senza la morte, la costruzione senza la distruzione e, nella fattispecie, neppure la pace senza la guerra. Se il conflitto bellico appartiene all’ombra dell’uomo, pero', è anche parte di quel medesimo tessuto che include il desiderio di possesso, la violenza sessuale, la sopraffazione e il delitto, pertanto pensare di eliminarlo totalmente è come pensare di eliminare anche la condizione umana, visto che ciò che chiamiamo "male" è solo un corpo - più o meno estraneo - attaccato alle radici della storia. Giusto per semplificare – e indipendentemente da qualsiasi credo religioso o agnosticismo – nell’Ecclesiaste si legge che c’è un momento per ogni accadimento sotto il cielo, e lo spiega in modo decisamente esaustivo. C’è un tempo per nascere e un tempo per morire; un tempo per piantare e un tempo per sradicare le piante; un tempo per uccidere e un tempo per guarire; un tempo per demolire e un tempo per costruire; un tempo per piangere e un tempo per ridere; un tempo per dolersi e un tempo per ballare. Un tempo per gettare sassi e un tempo per raccoglierli; un tempo per abbracciare e un tempo per astenersi dagli abbracci; un tempo per cercare e un tempo per perdere; un tempo per serbare e un tempo per buttar via. Un tempo per stracciare e un tempo per cucire; un tempo per tacere e un tempo per parlare. Un tempo per amare e un tempo per odiare, un tempo per la guerra e un tempo per la pace. E, fondamentalmente, la vita è tutto questo. D’altro canto, però, anche il tentativo di abolire la guerra risponde ad un impulso che appartiene alla natura umana, vale a dire l’aspirazione ad una condizione il più possibile integra e senza sofferenza. Ma questo anelito, pur generando progetti individuali e collettivi (morali e politici) si scontra pur sempre con la realtà che gli opposti non possono essere aboliti senza dissolvere il tutto. In altre parole, il cosiddetto male – sia esso dolore, ingiustizia, sopraffazione, violenza o morte – non si annulla mai; al limite si contiene e si riduce, ma rimane. Ciò che si può fare è trasformarlo. Difatti, ammetterne l'esistenza non deve significare accettarlo fatalisticamente o con becero lassismo. Anche la guerra non va accolta dall’umanità con rassegnazione ottusa, sebbene il progetto della cosiddetta “pace perpetua” sia una costruzione tanto ingenua quanto fragile – Kant stesso ne ha parlato più come una sorta di compito regolativo che non come uno stato effettivamente e completamente raggiungibile – visto che ogni generazione al mondo non può che riprendere il confronto con il lato oscuro della propria condizione antropologica. Nessuno di noi è solo bellezza, armonia e “peace and love”. Tantomeno chi lo predica. Si deve ammettere che il principio di conflitto è comunque impastato nell’essere umano; ma ricordarci che la volontà di rigettarlo nasce dal desiderio - altrettanto umano - di separare l’ombra dalla luce. Quindi, anche se questa aspirazione si scontra con il fatto che senza ombra non vi sarebbe né giorno né vita, allo stesso tempo è pur vero che ci sono diversi modi e livelli di essere fallibili e imperfetti e non siamo tutti ugualmente sciagurati. Prima di arrivare al crimine e alla tragedia, infatti, qualcuno possiede anche l’accortezza di fermarsi. Pur conoscendo il dolore e la morte, l’uomo può rigettare la guerra smettendo di accoglierla come un destino naturale, magari assumendosi la responsabilità di considerarla una scelta storica e, quindi, modificabile. O, almeno, questa è la mia convinzione.
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