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il mio incontro con Primo Levi


Negli anni antecedenti il Liceo leggevo molto. Nell’esplorazione dello scibile che compii allora trovai il mondo di uno scrittore torinese, personaggio pubblico e persona riservata ad un tempo. Avevo letto di lui ‘Se questo è un uomo’, romanzo dell’immediatezza dello scrivere, e ‘La tregua’ romanzo del ripensamento. Mi accingevo a leggere ‘Il sistema periodico’ del 1975, dai tipi di Giulio Enaudi, era il 1979, e telefonai a Primo Levi. Non che me lo avessero ‘insegnato a scuola’, fu una mia iniziativa; anzi a scuola, ricordo una classe dall’insegnamento feroce, in terza media, dove ci fu una docente che si stupì di tale mia iniziativa di qualche mese prima. Primo Levi fu molto gentile. Mi parlò dei suoi romanzi: di quelli letti da me fino ad allora, i primi due suoi, e di come passando a quelli di narrativa, di racconti, non necessariamente ‘brevi’, si era ‘spogliato completamente della mia qualità di testimone e di ex deportato’ . Era diventato scrittore. Gli chiesi di un altro scrittore. Gli dissi di come lo scrittore Beppe Fenoglio si dichiarava sorpreso perché i critici scoprivano alcune cose della sua scrittura, mentre ne ignoravano completamente altre.Mi rispose parlando della distanza che vedeva i critici accentuavano tra i primi due romanzi: ‘Se questo è un uomo’ e ‘La tregua’ e altri due libri, stavolta di racconti: ‘Storie naturali’ e ‘Vizio di forma’. Levi mi disse che i critici dicevano di lui che egli paragonava i Lager delle SS, con ‘moderni lager contemporanei’ come glieli definii io allora, e mi disse che non era d’accordo. Mi raccontò inoltre che mentre aveva scritto ‘Se questo è un uomo’ di getto, scrivendo a casa, in laboratorio e in tram, ‘La tregua’ era stato un romanzo più meditato, scritto con riflessione, ‘un capitolo al mese’. Iniziamo a parlare di lavoro quando gli chiedo della sua professione di chimico. Dei suoi tentativi, riusciti, di riallacciare i contatti dopo l’esperienza del Lager; esperienza che non si cancella, afferma. Il lavoro lo ha salvato. Questo lo afferma in ‘Se questo è un uomo’ e questo io ho letto e quando lo ho incontrato, gli ho chiesto. Il lavoro sì era importante, mi spiega, ma non era lavoro che ricompensava chi lo faceva, serviva a salvarsi la vita: Levi si è salvato poiché era Chimico, ma soprattutto perché si seppe organizzare sin dal primo momento della prigionia. Imparare la lingua tedesca, la lingua dei suoi carcerieri fu il primo imperativo; capì subito, già dalle prime adunate dei prigionieri, che chi capiva il tedesco, o sapeva rispondere in tedesco, si trovava su un altro livello. Era più facile che sopravivesse. Quindi Levi inizia subito una studio mnemonico e difficile di quella lingua. Impara a senso, come scriverà nel suo memoriale. Levi ad Aswhitz lavora come Chimico in una fabbrica per la lavorazione delle gomma. L’inverno tra il 1944 e il 1945 trascorre sufficientemente bene per lui, da non morire di freddo e di stenti come altri prigionieri. Quando arrivano le voci di un imminente arrivo dell’Armata Rossa, Levi lavora molto lentamente dirà. Quanto per boicottare non visto il lavoro di ricerca. Capisce che ormai il tempo della liberazione è arrivato, ma continua a lavorare non alacremente. Poi con i suoi compagni di prigionia si trova solo nel lager, tutte le SS sono fuggite, nel campo regna il caos, e molti muoiono proprio ora, a un passo dalla libertà. Infine una mattina, in un’atmosfera irreale, in un campo di prigionia ormai senza recinzione, si scorgono i primi soldati dell’Armata Rossa. Levi e i suoi compagni sono salvi. Ma se per alcuni la via del ritorno fu facile così non lo fu per Levi. Insieme ad alcuni compagni di viaggio, più o meno occasionali, percorre le vie ferrate dell’Europa post bellica. Spesso i treni subiscono lunghi ritardi, a volte nessuno sembra poter fornire spiegazioni, altre il treno è costretto a giri tortuosi per spostarsi tra le città della immensa Russia. Vorrei dire ai lettori di Primo Levi, a coloro che iniziarono a conoscerlo dopo la tragica scomparsa, o dopo le ultime due pubblicazioni editoriali, di ricordare soprattutto la persona umana di Levi, non solo il suo predominante ruolo nella letteratura italiana del secondo Novecento. Quello che visse nel Lager fu l’uomo; l’idea dello scrivere e del documentare sarebbe nata dopo la Liberazione: allora Primo lo potevi vedere sul tram in centro a Torino prendere nota di appunti preziosi, pensare al romanzo sempre e comunque. In effetti Levi cerca subito di pubblicare il suo primo libro, ‘Se questo è un uomo’, dopo il ritorno a Torino. Questo volume resterà l’unico nella produzione del Dottor Primo Levi, Chimico, come amava definirsi. Quando esce ‘La tregua’ non è ancora iniziata la fortuna di Levi romanziere, ma già se ne delineano le prime tracce. Ma nel 1947, parallelamente alla ricerca di un lavoro come Chimico, c’è per Levi la ricerca di un Editore. Einaudi rifiuta il libro, l’Editore De Silva pubblica 2500 copie di cui gran parte venduta a Torino.  Poi inizia la carriera di scrittore; ma questa come si dice: è un’altra storia.