end[or]fine.

Papera con svista.


Il sole si leva a pagina 33. E’ di carta. Nessun calore ma, in sostanza, un aurora è sempre un aurora. D’idrogeno o china che sia. Ai limiti di Paperopoli non ho mai meditato. Se non altro fino ad oggi. Così come la voglia di sapere cosa c'è oltre la pagina, o di come sarà la notte a pagina 37, e perchè cazzo qui dentro non si sentono gli odori. Io non credo a nessun dio ma nel mio disegnatore, e forse, e dico forse, nell’arte dell’inchiostrazione. Qui la terra è piana e ne conosciamo bene i confini. Abbiamo tutti un colore e un prezzo. Sappiamo dove siamo. Io, Ciccio dell’Oca, Pico de Paperis e i funghi che si cibano di carta. Tutti sanno che ogni giorno sarà lo stesso. E' un sempiterno appuntamento il mio. Arranco su ogni illustrazione con la mia 313 decappottabile rossa da revisionare, con il becco proteso verso la vignetta successiva, e una penna sul tuo campanello che non produce un suono mai. Abbigliato da marinaio con un occhio sempre livido e un cane color merda. Me la darai questa volta? Non hai buttato la spazzatura neppure oggi. Dal tuo secchione sbuca una lisca. E' che ne sono certo. Lo so. Te ne stai lì. Dietro la prossima pagina con il gingillo di Gastone nel becco. Le nuvole sembrano un alligatore, poi un dirigibile, poi un dubbio. E’ che le papere non pensano. E la pagina 33 non esiste. Perché, alla  fine, un disegno è sempre abbassato al livello della sua didascalia. Suono.