end[or]fine.

Le affinità eruttive.


La prima cosa che si nota è il strepiio acquoso proveniente dal calorifero. Un ribollire effervescente, da compressa sciolta in un bicchiere. Come se ci fosse spazio per famiglie nane composte da bicarbonato e acidi. Sono avanzati pezzetti di carne. Ho un piccolo osso fra i denti come un piccolo pene. Ho le orecchie ancora piene di vento e gli occhi rossi di fotogrammi di pellicola in bianco e nero e colori sbiaditi. Fotogrammi di persone sconosciute ma familiari che rimangono impresse, stampate indelebili e come marchiate di fuoco che non brucia. E’ bello immaginare di essere chiunque e qualunque cosa.  Di essere Peter Lorre nel “Mostro di Dusseldorf”, con la lettera “M” scritta col gesso sulla schiena. Essere una farsa della canzone senza dio e padroni di Léo Ferré. O la pozione magica nelle immagini di Ulrich Molitor. Potrei essere un amore da toilette. Come Kiki di Morparnasse, musa di man Ray. In una bettola con il soffitto coperto di fumo d’oppio. Ho sonno e il naso tappato ma continuo a bere vino rosso. Sono confusa come una maestra che da poco ha imparato a leggere. L’emisfero sinistro è il lato del cervello ossessionato dalle risposte, quello che cerca il senso, l’interpretazione; è lì che raccontiamo la storia di chi siamo e perché facciamo le cose. Quella è anche la parte che sbaglia. Il vantaggio dell’emisfero destro è che non è logico, non sceglie il dettaglio da guardare, fa delle connessioni che neanche vediamo. E lì sarai il mio ragazzo springroll, ti coprirò di salsa agrodolce, in un dopo pranzo di ruggine passerò la lingua sulle tue apparizioni starò ore spalancata dentro la tua testa. Alle tue calcagna, sfavillante come un ippocampo. Ti farò sentire in empireo loop, traslocata come una sposa in guardinfante rosso con un tedio totale per la vita intorno e un rigurgito strambo di eclissi e ellissi. Una santa pornografia succinta osmotica dove noi vediamo solo innocenza. Sono te, quando mi apri la porta di casa e mi dici ciao.