Enodas

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 Culla degli dei e gigantesco crocevia al centro del Mediterraneo, Creta é stata da sempre al centro della Storia. Le rovine di Cnosso sono soltanto le più famose (ma non le più affascinanti, a mio avviso) dell'antichità tra quelle sparse per l'isola. Ma a partire da ogni punto cardinale, come ferite, testimonianze o cicatrici nel tempo fino recente restano luoghi legati al passato di incredibile suggestione ed emozioni contrastanti. Perché Creta fu invasa e distrutta, ricostruita e nuovamente invasa, in un continuo dialogo tra oriente e occidente da nord a sud. Le fortezza veneziane, i profili orientaleggianti degli edifici ed i monasteri greco-ortodossi costruiti nei luoghi più inaccessibili ed impressionanti sono l'immagine più immediata e visibile di questo tumulto continuo che neanche l'eco del mare riesce ad assorbire. Strade che terminano nel nulla di una scarpata a picco sul mare, città colorate come un canale veneziano e caotiche come un suq, e luoghi silenziosi ed abbandonati alla forza degli elementi cui si oppone la sola forza dell'anima e della fede, ogni passaggio é un tassello raccolto di un mosaico che non conosce fine. 
 Ho cercato di scendere presto in strada, la mattina. Intorno, era un silenzio irreale, disturbato soltanto dal canto ripetitivo che proveniva dalle porte spalancate della cattedrale ortodossa. Ho proseguito, verso il porto, svoltando a caso, dove la luce ed i colori degli edifici attiravano maggiormente la mia attenzione. Calma silenziosa del mare turchese. Il sole già caldo sul cielo limpido di ogni giorno, Ed ogni minuto assaporato così era un frammento di immensa tranquillità. E mentre qualche gestore iniziava a spostare i tavolini, una barca si metteva in moto, o magari apriva i battenti perscaricare a terra spugne e conchiglie, mi sono messo a seguire l'intero perimetro dell'antico porto veneziano, sulle tracce di un pescatore seduto sui faraglioni. Ho percorso quella linea sottile che si protende nel mare, a spezzare le acque, come a volerle dividere tra buone e cattive, e respirato il sapore che saliva dalle onde increspate, il loro rumore violento, alla mia destra, in contrasto alla calma assoluta che regnava dall'altro lato. Come un miraggio, ho raggiunto il faro e da lì, appoggiato ad un blocco di pietra calda, ho osservato ancora le facciate colorate, i vicoli che intuivo diramarsi alle loro spalle, il movimento semrpe più frequente attorno ai tavolini, una piccola Venezia, così come era giunta alle coste di quest'isola. 
 Spinalonga é l'isola dimenticata di fronte alla costa. Spazzata dal vento, arsa dal sole, questa era prima una fortezza inespugnabile e poi una città di appestati. Giungervi in barca, adesso, di prima mattina, equivale ad entrare in una città fantasma, oltrepassare la porta d'accesso, una galleria attraverso le mura e salire su quelle stesse mura per osservare il mondo "normale" così vicino ed inaccessibile. Perché ogni porta finisce sul mare, un confine d'acqua senza recinzioni ma pur sempre senza speranze. Qui ogni cosa é lasciata com'era, e soltanto il tempo ha eroso, distrutto, fatto crollare ciò che era. Una campana arrugginita pende ondolando muta col vento, le finestre sono sfondate, ed oltre i mattoni di pietra sono crollati nel labirinto di stanze ed abitazioni che si intravedono. Lentamente la fortezza/reclusione dimenticata ha lasciato spazio al ricordo, agli spiriti e ad un vento caldo e sferzante che soffia da sud. Ansimante, risalgo la città cercando di intuire, a tratti dove continui il sentiero, per poter arrivare in cima a questa piccola montagna, letteralmente un cono emerso dal mare, per osservare il labirinto cocentrico ai miei piedi, le variazioni del fondale marino, e quella che appare terraferma in lontananza. Un albero spettrale, al mio fianco, domina la fortezza e, insensibile alla vista, affonda le radici nel doloroso passato del suo terreno. 
 Oltre le montagne dai fianchi bruciati dal vento, una volta superata la cima, si entra in un mondo incredibilmente diverso. Come il fondo di un cratere, un cerchio quasi perfetto che per poco non si perde nei nuvoloni condensati in lontananza, sembra di aver scoperto improvvisamente un paradiso terrestre, di piante rigogliose e campi coltivati. E come un altro mondo, anche questo ha i suoi guardiani, stoicamente immobili sul bordo del crinale, tra massi di pietra franati e blocchi in rovina, ombre un po' spettrali al valico la sera. Lo erano un tempo, quando questo entroterra era rifugio di una fiera resistenza contro ogni invasione, lo sono tuttora, a marcare l'ingresso a quello che é sempre stato uno dei granai dell'isola. Mulini, antichi e decrepiti che osservano malinconicamente la costa in lontananza, e quelli moderni, nel plateau con le loro tele stese ancora in movimento perenne. Perché in effetti c'é un che di ancestrale ed incontaminato in questo luogo risparmiato dal vento, dove anche nuvole e piogge vengono catturate al cielo, trattori scalcinati compaiono qua e là ai bordi della strada, e dove il mare, distante pochi chilometri in linea d'aria sembra veramente lontano. 
 Riconosco quel foro, sul tronco di un albero contorto. Tra queste mura, dove sangue e terrore sono scorsi, fino all'ultima battaglia, una freccia incisa nel legno indica il punto esatto di questa ferita. Difficile immaginare, ora che le mura sono bianche splendenti, il profilo delle campane un'ombra netta contro il sole, ed un intenso profumo di rose colora il silenzio che si respira tra il chiostro ed ogni sezione del monastero. Ho attraversato le montagne che dividevano la costa da nord a sud, mi sono spinto nei punti più estremi dell'isola, alla ricerca di questi luoghi di pace e raccoglimento. Attorno, spesso, era il deserto, cui al massimo soltanto viti ed ulivi riuscivano a strappare una parvenza di vita. Ma tra tutti, questo rimane per me il più potente ed affascinante. Il suo profilo, appena varcato l'ingresso é un ricordo che ho portato scolpito nella mente, così come la distesa antistante di pietrisco e sabbia rossa spazzata dal vento. Fermarsi qui, respirare il silenzio, sfiorare i petali di quelle rose tinte di sangue ed ascoltare il suono delle cicale; e poi, assaporare il sapore del miele come fosse un nettare donato dagli dei tenendo a bada i movimenti curiosi di un gatto ed osservando il paesaggio che scende verso il mare e verso una città nascosta: ogni momento assume un valore ancora più profondo in questo luogo così come mi é stato consegnato, in quella pagina scritta sul tronco di un albero secolare, sui muri graffiati, e nel ventre della terra. 
 Svolazzano al vento, i pizzi appesi all'ingresso. Candidi quanto le pareti degli edifici, uno sull'altro, in un labirinto che si arrampica lungo la montagna, interrotti da gradini che non terminano da nessuna parte, arcate di fiori e linee blu a segnare gli spigoli di queste costruzioni regolari. Ogni tanto, qualche incontro di sfuggita, tra questi vicoli in continua slita e discesa, un bambino magari, ma molto più spesso anziani, che si affacciano e scompaiono di nuovo. Svolazzano, senza che vi siano occhi per osservarli, tanto deserta é la strada, l'unica forse che veramente si possa chiamare così, sulla quale si affacciano. Qui, come in altri luoghi, abbandonato il mare e partito verso un qualche centro nascosto di questa terra, quella sensazione di remoto ed autentico riaffiora con forza, immobile al limite della percezione, come se fosse qui che gli abitanti di Creta si possono riappropiare della loro isola. E' un altro modo di penetrare al cuore di questo luogo segreto, e cercare di catturare, un istante soltanto, un'immagine con gli occhi di chi questo luogo lo vive da sempre, conoscendone l'anima più vera e nascosta.