Libertà Menomata

Tornando la sera


 Il sabato lo trascorro a casa, ma la notte devo pernottare in cella. Giungo a Messina verso le otto e trenta di sera. Mi restano ancora qualche paio d’ore prima di rientrare in prigione. L’autista del pullman, sotto mia indicazione, mi lascia nei pressi del Viale Europa. Ho voglia di passeggiare. Gocce fine di pioggia vaporano nell’aria afosa, la borsa col portatile non mi pesa sulla spalla e mentre i tacchi risuonano sull’asfalto mi sento pervaso per un istante da un brivido di libertà.Un sparuta folla sosta nei pressi di una rosticceria ad angolo e affianco altri consumano un aperitivo sopra due botti panciute, ritte ai margini della porta spalancata del bar. Entro e mi avvicino alla casa. Una anziana signora trascurata digita lo scontrino per un caffè. Io avevo già cenato e la sera vado a letto presto. Un bel uomo alto e grasso, con folti capelli brizzolati e un stereotipato sorriso sul volto mi porge la tazzina, io sorrido altrettanto e verso la bustina con lo zucchero che miscelo quasi nervosamente. Intorno, persone vissute fino a quel momento senza che nulla della loro esistenza arrivasse a me, vestiti di luce, di risa, e di donna. Esco, ma mi fermo sulla panchina sotto un telo sopra la vetrina. Guardo i fili di pioggia scomparire al suolo silenziosi e alla mia destra un ragazzo e una ragazza coprono un loro amico che sta sbriciolando un tocco di fumo nel palmo della mano. Intanto parlano tra loro di lavoro. Intuisco che si lamentano di un datore di lavoro mentre l’amico versa il contenuto della mano in una cartina lunga e rulla. La ragazza dalla bocca larga a gengive scoperte nota i miei sguardi e con un gesto d’intesa avverte i compagni che mi lanciano uno sguardo diffidente. Io sorrido e li tranquillizzo. Il fumo si propaga nell’aria carico di ironia. Faccio un tirocinio in una Comunità per il recupero di tossicodipendenti, ma non ho alcun motivo per dire le solite e inutili raccomandazioni. Mi muovo inspirando il fumo e proseguo passeggiando.   Nei pressi della piscina comunale, sotto una grande insegna di luce gruppetti di genitori, in attesa dei figli bagnanti, parlottano tra loro e tacciono al mio passare incuriositi e dopo sorpresi nel volto corrugato. Mi osservano, io allungo il passo. Mi sento a disaggio finché oltrepasso la scena e l’oscurità mi avvolge. Avevo paura di sentirmi male tra quella gente pronta a saltarmi addosso. Ho sempre visto intorno a me i volti disprezzanti al passaggio di un uomo in catene scortato da agenti. E ancor prima di sapere se l’uomo si era macchiato di un delitto “Maledetto” dicevano. Non ho catene né agenti al mio fianco, solo il carcere impresso sulla faccia. Mi sento uno “Straniero” o forse un “Buffone”. Così come mi definisce Raffaella, la ragazza molle dagli occhi chiari innocenti del servizio civile. La grandezza del mio spirito desta ilarità. Me ne compiaccio, d’altronde sono un Re senza regno. Ancora oggi mi chiedo con fastidio come sia potuto uscire da me l’essere torvo che ero allora. Stanchezza, forse. Il mio passo solitario si ferma davanti a una grande struttura. Sto davanti al cinema Don Orione. Due alte colonne cubiche sormontate da una trave, una porta gigante mi porta in un luogo semioscuro, rincuorante per il mio malessere e siedo su un lungo sedile di marmo. Dialogo con me stesso malinconicamente, in un silenzio popolato di lacrime. Eccomi fuori dal carcere, in una città estranea, senza amici a cui parlare, senza donne da amare, senza speranza di restare. Eccomi sguarnito di tutto, seduto al buio, a guardare dentro me, in un crepaccio senza fondo. Mi vien voglia di urlare al mondo l’angoscia della mia miseria.Una donna, poco distante da me, attende il tram. Alta, magra, scura, con una camicia bianca con le maniche risvoltate quasi fino ai gomiti e una gonna nera sulle ginocchia si volta e mi osserva strizzando gli occhi brillanti. Il suo volto pallido ed emaciato assomiglia assai al mio. Mostriamo la faccia livida della sventura. Abbasso lo sguardo ancora nel fondo tenebroso dell’anima. Sono cosciente che nulla potrà tirarmi fuori dalla oscura cella del mio cuore dove e segregato l’amore per condurmi verso l’abbraccio caldo e infinito di una donna. Un amico mi disse “Non essere amato è solo sfortuna, non amare è sventura”. Morirò nella sventura. Mi allontano silenzioso verso il mio sicuro destino. Le mura confortanti e sicure della prigione mi attendono come ogni sera. La borsa con il portatile adesso la sento sulla spalla. Sento anche freddo. È il freddo dell’anima. Eppure in questo cuore quieto, in questa grande mancanza anche questa fila di salici piangenti di fronte al cimitero diventano la più tenera e la più fragile delle immagini di questa serata uggiosa. A proposito, piove ancora, me ne accorgo solo adesso.Finisco qui. Tanto lo sapete. La porta della prigione si aprirà e si richiuderà subito alle mie spalle. Poco dopo mi abbandonerò alla dolce indifferenza del modo. Buonanotte