Continuamente

PENSIERI...SUL TERRAZZO


Mi sa che stanotte rimango in terrazza e passo la notte a contare le stelle, a cercarne qualcuna che mi dia la luce, per guardarmi di dentro laddove fa male. Non voglio tornare lì dentro, coricarmi nel letto, dove al primo sogno che faccio, mi sento più persa, d’una barca che naviga a vista, d’una carovana che ha perso la pista, e oltre le dune c’è solo una notte che non vuole morire. Mi sa che stanotte rimango a dormire, su questa sedia di vimini antica, che mi dondola come se fossi bambina, sotto questa luna che scambio per madre, se solo non fossi così lucida ed attenta, d’esser sicura che l’ho persa negli anni ed ogni sera ci penso ed ancora mi manca.Mi sa che mi prendo una coperta di lana e m’accovaccio guardando la notte, godendomi fuori una Roma tranquilla, avvolta in una cappa d’insolita nebbia, che da questa altezza sembra protetta, in una culla di bimbo, una campana di vetro, con il solo rumore di vento, di questi gerani che si sbattono contro, e mi coprono il viso e le gambe, da un curioso per caso che alza lo sguardo. Stasera voglio fare stravizi e mi godo perfino un dito di grappa, una sigaretta se solo l’avessi, se solo mi venisse alla mente, dove qualcuno negli anni si è dimenticato un pacchetto. Potrei chiamare il mio amico Luigi, sempre pronto per gli altri, disponibile ad ogni tristezza, se non pensasse, come pensa, che una donna da sola ha bisogno d’altro conforto. Io non ho bisogno di nulla e sto bene da sola! Ho chiuso le porte ad ogni genere di uomo, come ho chiuso le gambe a qualsiasi sesso, che aspettava il momento per consolarmi anche il cuore, che guarda caso batteva dalle parti del seno.Oggi come oggi sono passati tre anni, da quel giorno di chiesa e parenti, solo tre anni se gli ultimi mesi non fossero stati un inferno. Ed ora sono qui che cerco parole, per convincermi che in nessun posto starei meglio stasera, che nessuno straccio di uomo potrebbe darmi l’effetto, di stare meglio da qualche altra parte. Mi sarei aspettata di tutto, avrei retto a qualunque destino, magari ad un figlio deforme, ad un medico che chiede se hai qualche parente. Perché tutto ciò era in conto, da quando ho cominciato a capire, da quando la morte ha iniziato a dare un senso alla vita e le disgrazie ingrandire la gioia. “Ma questo proprio no, non l’avevi previsto! Di svegliarti nel cuore di notte e sentire vicino nel letto una donna che geme, un uomo che grida. Scoprire che l’ombra assomiglia al tuo caro marito, ma non sei tu la donna, non sei tu quella che contro un muro apre le labbra, s’ingozza di pene che credevi esclusivo.”Ecco, sto parlando di nuovo da sola, cercandomi dentro dove ho sbagliato, quale mancanza, l’ha portato a scopare sotto il mio naso. Ma poi mi lascio andare convinta che capita e può capitare, finire in una stanza per caso, proprio dove dorme tua moglie e sentirsi attratti senza nemmeno pensarci, come a lui è successo, come a me non sarebbe mai accaduto! Proprio così, mio marito che si faceva un’altra nella stessa stanza dove dormivo, accanto a me che magari sognavo d’essere sua anche nel sonno. Era l’ultimo dell’anno, eravamo in una villa di conoscenti, ma un mal di testa improvviso m’aveva costretta a salire le scale, appoggiarmi su un letto nella stanza degli ospiti. Tra il vociare che veniva dal basso m’addormentai senza rendermene conto. Senza sapere al cospetto di fiati, quanto tempo fosse passato, quanto mio marito aveva impiegato ad imbastire una storia, salire le scale ed entrare confuso ed eccitato nella porta sbagliata. Altre volte mi aveva tradito, altre volte aveva alimentato i miei dubbi, sgonfiati alle prime promesse e tanti lo giuro, ma mai era arrivato fino a quel punto, fino a scoparsi per sbaglio un’altra vicino al mio sonno, sfidando l’onnipotenza dove tutto è permesso.Mi chiedo quanto nel suo cervello c’era d’istinto, o quanto il destino ci ha messo del suo. Ma cosa cambia saperlo, se ogni giorno rivivo l’identica scena? Come se non fosse un ricordo, ma vivi nell’ombra ingrigita che oscena si muove, come due cani appiccicati ad un muro, lungo la strada dove finisce l’asfalto. Non c’era amore in quel movimento, né la voglia d’assaporare un piacere rubato. C’era solo rabbia di soddisfarsi, d’essersi fatto la donna più bella, che la sera imprevista propone, nel posto più impervio che solo un destino malato potrebbe scovare. Non c’erano volti, non c’erano mani, solo fiati strozzati di sete di maschio che sfama, di fame di femmina sazia. Non c’erano ruoli, non c’erano mani, si fottevano entrambi nella foga d’aversi, come se il pene lì in mezzo, non avesse un padrone, una protesi a forma di nizza, un bastone a due punte, che ambedue sentivano dentro. Si fottevano le ultime bolle di uno spumante di marca, le prime ore d’un anno dove era concesso sfidarsi, un brivido caldo all’insaputa di tutti, di quel vociare che proveniva dal basso, tranne me, impietrita nel letto, che chissà per quale motivo provavo vergogna, cercavo d’appiattirmi come coperta. E lui era lì, mio marito, il mio unico uomo! Come posso dimenticare il puntiglio di come fotteva! Succhiava, fiatava e spingeva, come se tra quelle cosce non ci fosse una fica, ma la membrana slabbrata di un’anima ostile o le labbra bianchicce di una vergine intatta. Fotteva e sudava, come se da lì a momenti dovesse sgorgare del sangue, imbrattare quel muro, contro il quale si fotteva una vita, una moglie, un bambino mai nato, un vestito da sera arrotolato sui fianchi. Ed io ero lì, costretta a respirare quei fiati, senza che il buon senso gli tappasse la bocca, inebetita a sentire il rimbombo cupo d’un sesso, rumori liquidi in mezzo alle gambe, d’un vortice di donna invasata, che risucchia un maschio come un tombino, come una fogna con l’acqua piovana. Col sesso intestardito fotteva e schiumava, una voglia ribelle che non si dava per vinta, che ad ogni costo prolungava il piacere, la vita, come un moribondo non ancora finito. E lui fotteva tenace ed accanito su una tetta ancora ribelle, ma mortificata e bucata come un pallone tra le mani d’un bimbo. Si fotteva il pentimento che da mesi non scema nella sua colpa, che ancora questa sera lo porterebbe a tagliarselo, se solo lo chiamassi, se solo servisse a qualcosa. E fotteva un vuoto di labbra che non avevano trovato altro posto, altro uomo per sgorgare la voglia che lì a momenti avrebbe invaso la stanza. Ancora mi chiedo come ho potuto, racimolare le forze che venivano meno, in quale antro dell’amor proprio ho soffocato vergogne. Dove ho trovato l’impeto di sbattergli contro tutta me stessa, per tranciare quel desiderio che mi faceva violenza, mi stuprava come se fossi stata io la femmina, come se non fosse stato lui il maschio, ma una banda di delinquenti incontrati di notte sotto il portone. Era tutto troppo evidente per sentirne la rabbia, troppo smaccato per gridare ragioni, troppo anormale per sentirmi tradita. Proprio a me doveva capitare? Ho acceso la luce quando il piacere si faceva più intenso, mentre lui la cercava e lei si faceva capiente. Poi non ricordo più nulla, tranne la voce di lui che cercava un misero pretesto, dando la colpa allo spumante di marca, a quella donna che prima ci sguazzava di dentro. Ora sono qui su questa terrazza e faccio un rimpasto di uomini, pur essendo convinta d’aver scelto quello sbagliato. Mi mangio quello che resta delle mie unghie, sicura che stanotte mi dipingo la faccia per scostarmi più che posso dalla faccia di un uomo. Sul viale di fronte c’è una puttana seduta che legge un giornale, ha le gambe allargate al mondo, che le passa accanto e qualche volta davanti. Potrebbe avere i miei anni e parlare il mio stesso dialetto, potrei essere io stessa se solo non fosse tinta d’un nero volgare ed avere due tette da mucca che non lasciano nulla al segreto. Chissà cosa darei per sentire la voce degli uomini che passano, chissà che darei per leggere quello che legge, ed avere la stessa incoscienza pensando che nulla m’aspetto dagli uomini se non il valore riposto nella tasca sinistra. A volte mi metto a pensare, se davvero potrei farle concorrenza, se le mie gambe accavallate in quel posto potrebbero avere clienti. Poverini! Non sanno che finirebbero nel buco sbagliato, dentro un condensato di rabbia che dopo mesi non s’attenua e s’astiene deciso da qualsiasi voglia. Dovrei indossare un paio di mutande all’altezza, magari di quelle che si fanno da parte al primo soffio di fiato, magari più rosse per metterle in mostra quando la notte che passa mi sorprende più intatta. Se ci penso, non posseggo mutande per sentirmi alla pari, come le mie labbra sono troppo sottili per sperare di gonfiare i sogni di un uomo che passa e mi guarda. Mi godo questo goccio di grappa cercando altri modi per disprezzare l’amore, per convincermi che non cercherò mai più altri uomini che mi gonfino il cuore, perché nessuno di loro mi merita dentro, come non sono degni di leccare le mutande che porto. Che non sono rosse, che non sono impalpabili ma mi coprono il sesso e questo mi basta.