Creato da televisionetica il 20/05/2011
Analisi dei contenuti dei programmi televisivi, secondo un giudizio etico
 

 

La Prova del cuoco

Post n°13 pubblicato il 20 Maggio 2011 da televisionetica
 

"La prova del cuoco" c'entra qualcosa con la morale? C'entra perché nulla ma proprio nulla è eticamente neutro e soprattutto il nostro riposo: già, perché proprio in quello che facciamo quando riposiamo si vede quello che siamo, e così si vede il cuore di una TV non nei programmi impegnati, ma in quelli di tutto riposo: quanti sono, che percentuale occupano? E salta all'occhio il proliferare nei palinsesti di programmi che parlano di pizzoccheri e meringhe, di amatriciana e roastbeef. Si passa da Linea Verde e Linea Blu su Rai 2 a innumerevoli canali satellitari con programmi culinari, non ultimo il canale dedicato della Rai, Gambero Rosso Channel, fino a Chef per un Giorno di La7 o ai 5 minuti dedicati nei TG di canale 5 e Italia1 o nel TG2 (qui si chiama Eat Parade) e chi più ne ha più ne metta, basta sfogliare la guida TV. Perché questo proliferare? Per due motivi. Il primo è banale ma vero: risorgono i vizi e tra questi il vizio della gola, che non è aver piacere delle cose buone, amare il brunello o il gorgonzola, ma pensare che questo sia un goal, che valga più di altri valori e affetti. Eccessivo? Forse, ma il cibo è buono, e se il cibo viene visto, come qualunque altra cosa, dimenticando che c'è chi non può permetterselo si censura un fatto e censurare, non godere, è il vero peccato: così come il sesso non è un vizio per il piacere che dà, ma per quello che certe persone possono fare o dimenticare per ottenerlo. Ma c'è un fattore ancora più importante che spiega il successo e il sorgere dei programmi culinari: la cucina è l'unico ambito in cui una persona vede il frutto delle proprie mani, in un mondo che è stato espropriato del gusto del lavoro, spesso relegando le persone in una catena di montaggio di cui non si vedono i frutti: non solo in fabbrica, ma anche negli ospedali in cui l'ultraspecializzazione fa curare solo un pezzetto della persona, nelle banche in cui la responsabilità passa di mano in mano. (Certo, anche l'ottocentesco K Marx diceva cose analoghe, ma per lui il gusto non era battere con coscienza sull'ingranaggio, ma buttar via il martello per andare a pescare. Per noi invece è entrambe le cose e la differenza non è poca). Nella vita sono pochi gli ambiti in cui uno può dire "questo l'ho fatto io". Ci sono i figli, ma non li fa più nessuno, per i bambini c'erano le costruzioni col fango e con i bastoncini, ma oggi tutto è preordinato e precostruito anche per loro; in fondo l'Ikea ha successo per questo: uno ha la sensazione di fare da sé una cosa. La cucina ha questa funzione di supplenza a quello che non è più il lavoro, che diventa sempre più alienante. Il lavoro è diventato un valore solo col cristianesimo, che ha spiegato che quello che per tutti era una condanna invece era la pura collaborazione alla creazione divina, che non esiste un lavoro vile, e che anzi è proprio l'ozio, quello che per i romani era invece considerato il super-valore, è da rifuggire perché svilente. Era una rivoluzione, finché qualcuno non ha trovato il modo di renderlo un nemico dell'uomo, innestando il desiderio di rifuggirlo, di vivere per il weekend o tutto l'anno progettando la settimana di ferie, perdendo il gusto di quello che si fa col proprio sudore, che si preferisce associare alla spiaggia piuttosto che all'impegno per gli altri. Resta la cucina, come surrogato, bello, ma limitato, da gustare, ma con coscienza di quello che abbiamo perso. 

 
 
 

Calcio in TV

Post n°12 pubblicato il 20 Maggio 2011 da televisionetica
 

 

Agli sgoccioli dei mondiali, con la nazionale di calcio mestamente a casa, riguardiamo quello che abbiamo visto con sguardo critico. Cosa ci resta? Sostanzialmente palinsesti strapieni di calcio, così pieni da offuscare non solo gli altri sport e tante migliaia di altre notizie. E' giusto? Ed è giusto sentir parlare con accenti drammatici di un gol subìto o di una palla che rimbalza su una linea di porta senza che l'arbitro misuri i millimetri?

Certo è cosa buona il tifo, ma a tutto c'è un limite per non scadere nel grottesco: serve certo a non pensare ai nostri problemi, ma è nato prima l'uovo o la gallina? Cioè, è la TV che è gonfia di calcio perché la gente non sa pensare ad altro o la gente non sa pensare ad altro perché la TV è gonfia di calcio? E come fa l'operaio della Piaggio che viene licenziato ad entusiasmarsi e adorare chi in mezza giornata di gioco guadagna quello che lui/lei guadagna in un anno? Non sente e non si risente per la sperequazione? Tutto è addormentato nella nostra capacità di reclamare? Forse; e scatta la iconolatria, cioè quel fenomeno strano che ci fa sbraitare in atto di adorazione verso un televisore come se chi viene ripreso ci sentisse, fenomeno da analizzare, perché strillare è un atto di sfogo, ma non può essere l'unico atto di sfogo nella vita di un uomo, oltretutto comprensibile allo stadio dove si socializza e si comunica col rumore ma incomprensibile a casa, dove è solo segno di potere incatenato e forse frustrato. Ma questa palingenesi dello sport in TV ci richiama a come lo sport viene rappresentato quotidianamente: di norma le cose vanno meglio? Non direi: intanto si offuscano gli sport minori che sono minori solo perché non fanno guadagnare abbastanza ma che sono degnissime manifestazioni di coraggio e lealtà, senza hotel a 5 stelle, classe business negli aerei e protagonismo tra veline e pubblicità. Si offuscano gli sport dei disabili invece di metterli in palinsesto tutti i giorni per far vedere cosa davvero è l'uomo che non si arrende, e che invece sono relegati alle nicchie televisive peggio che i Sioux nelle riserve. Pensate che lo judoka che si allena tutti i giorni, cui per fare sport ad un livello alto non resta che avere la fortuna di farlo come rappresentante delle forze armate altrimenti nisba, valga di meno del calciatore strapagato che per meritare quanto guadagna dovrebbe perlomeno centrare un moscone sulla traversa della porta con un tiro da centrocampo dieci volte su dieci? E tutta questa smania di tecnologia in campo da moviole a microchip non disumanizza il calcio, togliendo anche l'indulgenza verso l'errore, e facendo diventare il calcio professionistico un fenomeno di stato (per un centimetro di fuorigioco non visto cadono governi e ministeri o crollano società quotate in borsa!), e quello dei dilettanti una rincorsa all'oro?

Insomma: abbiamo perso e questo ci deve far riflettere non solo su chi sia il migliore allenatore o perché Cassano è rimasto a casa, ma su cosa ci propone la TV, se sia solo un soporifero per le coscienze, che concede spazi per incanalare e assoggettare la contestazione e l'insoddisfazione, o se invece dovrebbe dare di più. In caso contrario, non avremo perso solo il mondiale

 

 

 
 
 

La zone extreme

Post n°11 pubblicato il 20 Maggio 2011 da televisionetica
 

Un esperimento drammatico è stato compiuto da poco alla televisione francese: è stato organizzato un finto gioco a premi in diretta, ove i concorrenti dovevano sottoporre domande ad una persona scelta tra loro, rinchiusa in una stanza e seduta su una sorta di sedia elettrica; al soggetto rinchiuso, se le risposte che dava erano sbagliate, i concorrenti dovevano inviare delle scariche elettriche di intensità crescente. L'esperimento è stato condotto su 80 concorrenti che partecipano ad un finto game-show televisivo, La Zone Xtreme. Il "gioco" si svolgeva con una regia ben congegnata per non far accorgere i partecipanti che elettricità e urla della vittima erano simulate; e la presentatrice, in caso di esitazione a premere la leva che mandava l'elettricità, blandiva il concorrente con frasi standard del tipo "non ti far condizionare", o "il gioco lo impone" e infine: "Sentiamo cosa ne dice il pubblico". Solo pochi concorrenti-torturatori si rifiutavano di arrivare fino in fondo, nonostante le grida di dolore della vittima, che ad un certo punto sembrava aver addirittura perso coscienza. L'esperimento terrificante mostra che la forza coercitiva delle situazioni forti, in questo caso della TV, riesce a vincere le proprie convinzioni morali. E ci dà un'idea della forza violenta della TV, di come ci condizioni e credi mentalità. C'è però dell'altro, non sottolineato nelle conclusioni dello studio. Si tratta del fatto che la "popolazione studiata" era formata da persone che volontariamente avevano chiesto di partecipare ad un quiz televisivo; non rispecchiava dunque la popolazione generale, ma solo chi sente di aver voglia di finire sotto i riflettori  TV. Non che questo implichi un giudizio morale, ma ci fa riflettere sul fatto che c'è chi ama per vari motivi essere al centro del palcoscenico, avere un microfono in mano, avere riflettori e telecamere addosso, anche solo per pochi minuti; e sappiamo bene da questo e altri studi che cercare la notorietà ha un suo fascino e un suo magnetismo talora compulsivo; e sappiamo che la telecamera condiziona i comportamenti: chi si sente osservato da milioni di persone difficilmente si comporta spontaneamente o perlomeno come si comporterebbe nell'intimo di casa sua. Questa ricerca della notorietà implica dei sacrifici alla spontaneità. Tutta questa premessa per sottolineare un fatto su cui poco si riflette: in TV spesso e volentieri ci arrivano non richieste lunghe tirate su problemi di vario genere - da quello banale a quello religioso - dai cosiddetti opinionisti, cioè persone che per aver acquisito una notorietà televisiva vengono utilizzati per parlare di tutto, tanto ci sarà sempre chi li ascolterà per il gusto di dire : "Lo dice X!" o "Ieri ho sentito la Y!". Persone che hanno "voglia" di apparire in TV. Si tratta di una consuetudine inquietante, perché la TV influenza la spontaneità, trascina dove non si sarebbe pensato, invoglia a "farsi un'immagine". Ma siamo martellati da pareri di "opinionisti-VIP", che in una TV rapace diventano facilmente ostaggi o talora marionette. Vorremmo una TV di qualità, in cui non ci interessa proprio che Pinco Pallino ci spieghi cosa pensa in quel momento, ma vorremmo che ci proponesse la vita vera, le storie vere, i drammi e le gioie delle persone comuni o non comuni, ma non più dei tuttologi. La TV può essere violenta e l'opinionista-VIP può chinare la testa e diventare solo uno specchio del nulla. 

 
 
 

TV e medicina

Post n°10 pubblicato il 20 Maggio 2011 da televisionetica
 

Tv buona dottoressa? è il titolo di un saggio-inchiesta sul rapporto tra televisione italiana e medicina, da poco edito (Roma, Rai-Eri, 2010, pagine 292, euro 18). È una lettura interessante perché mostra in maniera ben documentata l'evoluzione di questo rapporto dai suoi albori sino ad oggi, attraverso l'esame attento delle fiction, telefilm, pubblicità e quant'altro sulle reti pubbliche e su quelle private. Le autrici, Roberta Gisotti e Mariavittoria Savini, mostrano il salto da quella che chiamano "paleo televisione" alla televisione moderna, la "neotelevisione". Nella prima "abbiamo contato centinaia di documentari scientifici divulgativi" quando "la divulgazione scientifica della Rai era orientata primariamente a svolgere un ruolo didascalico-formativo nei confronti della popolazione generale"; nella neotelevisione, invece, il genere della divulgazione scientifica cede il passo alle trasmissioni incentrate proprio sulla medicina, che "si caratterizzano per la funzione di servizio ai cittadini" cosicché la chiave più diffusa è quella di "dispensare consigli".
E l'ascolto delle trasmissioni di questo genere passa da 6,5 milioni di telespettatori nel 2001 a 8,8 milioni nel 2005. Nel caso della televisione commerciale invece "la medicina resta un argomento assolutamente marginale, se non associato, a partire dagli anni Novanta, a un concetto di salute mirato soprattutto al raggiungimento di una forma fisica soddisfacente", seppur con eccezioni.
Puntualmente il libro descrive i programmi non risparmiando certo critiche quando necessarie, ma soprattutto riportando le valutazioni emerse sulla stampa, ed elenca le numerose soap-opera e telefilm programmati sulle reti televisive, da ER Medici in prima linea, a House MD, da Scrubs, medici ai primi ferri a Csi, Scena del Crimine. Arriva quindi a parlare dei programmi di medicina-intrattenimento, tra cui quelli in cui si viaggia con un eccesso di disinvoltura tra i ritocchi della chirurgia estetica:  daExtreme Makeover Bisturi, Nessuno è perfetto, il primo sospeso precocemente, il secondo noto per le polemiche suscitate. Insomma, una disamina attenta e utile, che ci obbliga a domandarci:  a cosa si deve il proliferare di medicina in tv, in un'epoca in cui il servizio sanitario è gratuito, capillare e spesso di ottimo livello? Da dove nasce la sete di medicina televisiva? Il fatto è che viviamo in un'epoca di somma incertezza e paura, e trovare una trasmissione ben confezionata che ci porta in casa lo specialista ci fa sentire una sorta di tocco magico, di parola di conforto di cui la popolazione evidentemente ha bisogno.
Sentire un medico - vero o finto - parlare di malattia in tv sopperisce a tre necessità:  la semplice curiosità, in un mondo di persone sole che amano interessarsi a problemi altrui per non pensare ai propri; vedere qualcuno che soppesa e prende sul serio i nostri mali, dato che la gente vorrebbe un rapporto col medico quasi esclusivo, amichevole, che talora manca; e il bisogno di esorcizzare il male, dato che quello che vediamo sullo schermo resta distante, e sappiamo dominarlo cambiando canale. La lettura del libro ci mostra anche altro:  la figura del medico, che la medicina moderna voleva burocratizzato, ridotto a lavorare in ospedali divenuti "aziende", non a contatto col malato ma con l'"utenza", viene ancora mitizzata in un'aura di sacro, certamente fuori luogo, ma comprensibile in un'epoca che ha perso l'Abc del sacro vero.
E questo lo vediamo dal fatto che l'unico tema tabù nelle varie fiction non è la morte o il dolore o il sangue, che sono sparsi a vagoni, ma un tema più banale:  l'errore. Nelle fiction il medico non sbaglia mai, e se sbaglia c'è sempre qualcuno che ripara.
Nelle fiction il medico non può sbagliare, perché immediatamente diventa un attentatore alla sacralità della sua opera, svela che l'opera sua non è pseudo-divina, come dicevamo prima, e questa scoperta terrorizza. Anche per questa serie come Crimini bianchi, che denunciava forse in modo "fuorviante" gli errori medici, o come Medici miei, parodia di tutte le serie dedicate a dottori e ospedali, ebbero un successo molto scarso e alimentarono moltissime polemiche.
Insomma ci piace sentirci rassicurare, sapere che la medicina arriva là dove arrivano le nostre speranze; e ci piace sentire qualcuno che è sicuro di sé, che non sbaglia, che salva.
In realtà, spiegano bene le autrici, la medicina reale non è così, e riportano molte opinioni tutte o quasi concordi sul fatto che l'attività del medico non è quell'esplosione di adrenalina, di bellezza e onnipotenza che si vede nelle fiction, né quella sobria e ieratica dell'"esperto" di turno:  spesso è fatta di lunghi colloqui, di attese, e anche di umani sbagli.
E di morte, perché anche là dove si prendono decisioni in trenta secondi, come nelle rianimazioni, l'esito non è quello salvifico che vediamo in tv. D'altronde, le serie tv più che dei racconti sono delle favole; e più sono belle, come nel caso di House MD o diScrubs, più manifestano chiaramente il loro intento didascalico, fantasioso e profondo.
Forse è per questo che l'unico "errore" che possiamo notare nel libro è un lapsus, quando attribuisce come autore alla serie Dr. House MD, invece di David Shore, sir Arthur Conan Doyle, che invece è il creatore di Sherlock Holmes:  altra favola, stessa bellezza. 

 
 
 

Monk

Post n°9 pubblicato il 20 Maggio 2011 da televisionetica
 

"Detective Monk" narra le vicende di Adrian Monk (Tony Shalhoub),ex poliziotto sospeso dal servizio a causa di una serie di disturbi ossessivi-compulsivi, con tratti autistici, aggravatisi a seguito della tragica morte della moglie Trudy, uccisa da una bomba che si ritiene destinata a Monk. Nonostante i problemi relazionali che lo affliggono, la polizia ricorre alla collaborazione di Monk quale consulente esterno nei casi più difficili, contando sul suo grande spirito di osservazione e la sua intelligenza. Ed è un genio nel suo campo. In realtà la serie «Monk» parte bene, ma si «imborghesisce» per strada. E non poteva essere diversamente, dato che la legge della TV è di non shoccare nessuno. Sì, si vorrebbe shoccare con nudi e baci gay, ma in realtà nessuno ci fa più caso, non perché la gente li accetti, ma perché ormai si sa inconsciamente distinguere tra la realtà e la TV: alla TV non crede più nessuno. E continuano con le presunte provocazioni che non provocano più nessuno, col sangue a fiumi che tutti sanno che è cattivo sugo di pomodoro e con le trasmissioni sui bisturi estetici che fanno solo tristezza, perché fanno le facce tutte uguali.
Insomma la Tv vorrebbe provocare per fare «share» e fare soldi, ma invece la gente ormai scappa. L'unica provocazione che funzionerebbe è la realtà, far vedere quello che tutti i giorni siamo, e in questo rientra Monk, che poteva essere una bellissima provocazione : il «matto» (e non lo stravagante) che risolve i casi difficili; ma in TV la malattia mentale è tabù, e si deve far diventare «stravaganza»; invece la malattia mentale è sofferenza, emarginazione, abbandono da parte delle istituzioni e dei familiari. E non più disegnato come malato, Monk ha perso forza. Perché in TV non si vedono mai malati? Sarebbe una bella provocazione, non per fare soldi, ma per far vedere alla gente cosa è la realtà, per mostrare che la realtà immaginata fa più paura della realtà reale.
Più disabili veri in TV? Ma come capire se le poche volte che compaiono in TV, i disabili vengano trattati in modo adeguato? Semplicemente vedendo se il conduttore si comporta con fare disinvolto o è a disagio; quello vero è il secondo comportamento, perché la disabilità è sconcertante e chi si comporta con spigliatezza mostra - o vorrebbe mostrare- di non aver subìto lo smacco di trovarsi a contatto con qualcuno che progressivamente va perdendo «diritto di cittadinanza» nella società postmoderna, cioè con dei sopravvissuti; e chi non mostrerebbe emozione a trovarsi a contatto con Anna Frank? Ricordiamo con nostalgia la storica serie TV «Cin-Cin» («Cheers» in originale) in cui il personaggio dell'Allenatore (Nicholas Colasanto) si comportava da disabile perché aveva davvero problemi di salute che lo avrebbero portato a morte proprio nel mezzo della serie. Ed era azzeccatissimo anche per come le persone attorno a lui si comportavano: con naturale sconcerto. E' memorabile la puntata in cui parla alla figlia disperata perché è brutta e lui, nella sua semplicità alterata dice la cosa più sincera che si può dire ad una figlia, che si lamenta di rassomigliare alla madre (precocemente morta): «Sì è vero lo vedo solo ora: sei proprio come tua madre. E lei... era ogni giorno più bella: lo vedevano tutti». E' una sincerità disarmante che colpisce e che viene solo da chi non deve costruirsi una maschera: il disabile mentale spesso è la memoria per tutti della necessità di non indossare una maschera. Anche per questo è una risorsa, e per questo ci rattrista una TV che censura la malattia vera.

 
 
 
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