etica televisiva

La Prova del cuoco


"La prova del cuoco" c'entra qualcosa con la morale? C'entra perché nulla ma proprio nulla è eticamente neutro e soprattutto il nostro riposo: già, perché proprio in quello che facciamo quando riposiamo si vede quello che siamo, e così si vede il cuore di una TV non nei programmi impegnati, ma in quelli di tutto riposo: quanti sono, che percentuale occupano? E salta all'occhio il proliferare nei palinsesti di programmi che parlano di pizzoccheri e meringhe, di amatriciana e roastbeef. Si passa da Linea Verde e Linea Blu su Rai 2 a innumerevoli canali satellitari con programmi culinari, non ultimo il canale dedicato della Rai, Gambero Rosso Channel, fino a Chef per un Giorno di La7 o ai 5 minuti dedicati nei TG di canale 5 e Italia1 o nel TG2 (qui si chiama Eat Parade) e chi più ne ha più ne metta, basta sfogliare la guida TV. Perché questo proliferare? Per due motivi. Il primo è banale ma vero: risorgono i vizi e tra questi il vizio della gola, che non è aver piacere delle cose buone, amare il brunello o il gorgonzola, ma pensare che questo sia un goal, che valga più di altri valori e affetti. Eccessivo? Forse, ma il cibo è buono, e se il cibo viene visto, come qualunque altra cosa, dimenticando che c'è chi non può permetterselo si censura un fatto e censurare, non godere, è il vero peccato: così come il sesso non è un vizio per il piacere che dà, ma per quello che certe persone possono fare o dimenticare per ottenerlo. Ma c'è un fattore ancora più importante che spiega il successo e il sorgere dei programmi culinari: la cucina è l'unico ambito in cui una persona vede il frutto delle proprie mani, in un mondo che è stato espropriato del gusto del lavoro, spesso relegando le persone in una catena di montaggio di cui non si vedono i frutti: non solo in fabbrica, ma anche negli ospedali in cui l'ultraspecializzazione fa curare solo un pezzetto della persona, nelle banche in cui la responsabilità passa di mano in mano. (Certo, anche l'ottocentesco K Marx diceva cose analoghe, ma per lui il gusto non era battere con coscienza sull'ingranaggio, ma buttar via il martello per andare a pescare. Per noi invece è entrambe le cose e la differenza non è poca). Nella vita sono pochi gli ambiti in cui uno può dire "questo l'ho fatto io". Ci sono i figli, ma non li fa più nessuno, per i bambini c'erano le costruzioni col fango e con i bastoncini, ma oggi tutto è preordinato e precostruito anche per loro; in fondo l'Ikea ha successo per questo: uno ha la sensazione di fare da sé una cosa. La cucina ha questa funzione di supplenza a quello che non è più il lavoro, che diventa sempre più alienante. Il lavoro è diventato un valore solo col cristianesimo, che ha spiegato che quello che per tutti era una condanna invece era la pura collaborazione alla creazione divina, che non esiste un lavoro vile, e che anzi è proprio l'ozio, quello che per i romani era invece considerato il super-valore, è da rifuggire perché svilente. Era una rivoluzione, finché qualcuno non ha trovato il modo di renderlo un nemico dell'uomo, innestando il desiderio di rifuggirlo, di vivere per il weekend o tutto l'anno progettando la settimana di ferie, perdendo il gusto di quello che si fa col proprio sudore, che si preferisce associare alla spiaggia piuttosto che all'impegno per gli altri. Resta la cucina, come surrogato, bello, ma limitato, da gustare, ma con coscienza di quello che abbiamo perso.