Luce Emergente

Antonio Pennacchi: Il Piacere


IL PIACERE La vita nell’abbandono: incanti e desideri di Antonio PennacchiIl piacere? Ecco, io non vorrei andare fuori tema. Già un’altra volta m’hanno rimandato in italiano - in secondo geometri - perché alla festa degli alberi scrissi che non me ne fregava niente. Dice: “Hanno fatto bene, eri un antiambientalista”. Non lo so, però avevo solo quindici anni e anche loro avrebbero potuto apprezzare un po’ più il mio fine umorismo. Comunque ora sono cresciuto e anche se resto un filoindustrialista, agli alberi gli voglio bene, specie agli eucalypti. Guai a chi me li tocca. Ogni volta che ne buttano giù uno, faccio un casino a Latina, mi metto su una sedia in piazza e comincio a strillare col megafono. I pini e le palme un po’ meno. Facessero quello che gli pare. Anzi, le palme non le posso proprio vedere. Tifo punteruolo rosso. O meglio, giallo-rosso. Comunque del piacere non so niente. Mica sono D’Annunzio. Non è tema per me. La vita nell’abbandono, incanti e desideri? E che vuoi che ne sappia io? A casa mia ci hanno insegnato solo il dovere. Altro che il piacere. Il piacere stava tutto nel fare il proprio dovere e anche adesso, di notte, ogni tanto mi sogno che mi richiamano in fabbrica a lavorare e sono tutto contento insieme ai miei compagni, perché quando la notte il lavoro veniva male, tornavi a casa scontento, ma quando il lavoro veniva bene, allora ridevi con loro fino al parcheggio, ridevi fino a casa: “Stanotte me la sono guadagnata la giornata”. Questo è il piacere: prima il dovere e poi arriva il piacere, poiché non sei solo a questo mondo, tu stai insieme agli altri e agli altri rispondi. Che piacere è senza condivisione? Dice: “Ma tu sei matto”. Sì, erano matti così pure mio padre e mia madre. E’ matta tutta la famiglia mia. Sappiamo solo lavorare e solo quando abbiamo lavorato bene siamo contenti. Oltre a dire la verità - pane al pane e vino al vino, più cruda è meglio è - e non deludere chi fa conto su di noi, questo è il piacere nostro ed è tutta colpa di mio padre. Quando nacque mia sorella Laura - era il 1948, il 9 Luglio - mia madre capì la mattina presto che era l’ora e disse a mio padre: “Non andare a lavorare oggi, e va’ a chiamare la Cocco” che era la levatrice. Lui prese la bicicletta, andò ad avvisare al Consorzio agrario che sarebbe mancato e passò a prendere la Cocco. Poi si mise lì in cucina pure lui a scaldare pentolino d’acqua e ad ascoltare il trambusto che veniva dalla stanza. Quando però si sono fatte le dieci o dieci e mezza e il sole batteva - era luglio - giù dalla strada hanno cominciato a strillare: “Giova’! Giova’!”. Lui s’è affacciato per farli stare zitti - eravamo al terzo piano - ma erano dei coloni che gli si era rotto il trattore in campagna e non sapevano più come fare: “Giova’, Giova’, stiamo tutti fermi, vienici ad aggiustare il trattore”. “Non andare!” urlava mia madre dall’altra stanza: “Non andare che sto per partorire”. “E come faccio?” disse mio padre: “Quelli hanno già la trebbia sul piazzale, non li posso lasciare col trattore fermo in mezzo ai campi. Come fanno? Io poi mica faccio la levatrice, io aggiusto i trattori, la levatrice te l’ho già portata”. Mia madre non gliel’ha più perdonato, o almeno così diceva lei, perché poi invece quando è morto - qualche anno fa - non faceva che dirgli in continuazione, gli ultimi istanti: “Amore, amore mio”; che noi prima, in vita nostra, non glielo avevamo sentito mai. Spero anch’io di morire così, dopo avere fatto fino in fondo davanti ai miei compagni, a mia moglie, ai miei figli e ai figli loro, tutto il mio dovere. Allora sì che sarà finalmente piacere.