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« UNA GIORNATA AL MARE | EGIDIO » |
Le notti le passavo al Blackout uno dei bar più scalcinati e rozzi di tutta la provincia. Lo scelsi proprio per la sua trascuratezza perchè in fondo mi faceva stare bene. Nonostante la dentro tutto fosse malandato l'insieme galleggiava una spanna sopra lo squallore. E una spanna sopra era già abbastanza per me in quel periodo. Di giorno annegavo ben al di sotto.
Le sedie erano quasi tutte rotte e dondolanti sulle gambe. I tavoli in legno erano sfregiati da firme fatte con chiavi o coltelli alcune vecchie anche di vent'anni. Un televisore appeso al muro rimaneva costantemente acceso, anche se nessuno lo guardava mai. Il bagno era sul retro e di certo non dovevi chiedere la chiave al barista per usarlo come in certi raffinati bar. Io poi al bar potevo starci anche delle ore ma alla toilette non andavo mai. Non sono schizzinoso ma da sempre preferisco far pipì tra le piante. Una specie d'ossigenazione, un dare e avere con la natura.
Il bar era sempre buio. Luci accese al minimo, e musica country-rock di sottofondo.
Di fronte al televisore c'era un appeso un poster che mi piaceva tanto. Raffigurava degli operai presi a fare la pausa pranzo su una gru a centinaia di metri d'altezza. Mi dava uno strano senso di benessere vedere quelle gambe a penzoloni sopra le case, sopra la città. Io non vedevo gli operai, vedevo l'equilibrio. Era questo che mi piaceva.
La prima volta che entrai al Blackout ero già ubriaco da un pezzo. Avevo da tempo rotto con tutti gli amici, e nell'abbandonarli ero rimasto solo. Non frequentavo nessuna donna in particolare, a parte una pazza che ogni tanto mi faceva compgnia con la sua solitudine. Si chiamava Sofia, una ragazza con un sedere enorme e la pancia piatta. Non mi piaceva ma ogni tanto ci si trovava a fare serata. Non sempre finivamo a letto. Lei non sempe ne aveva voglia e io non sempre arrivavo ad averne la forza. A parte lei ero praticamente solo con le serate tutte libere. Quella sera litigammo, ed io entrai al Blackout interrompendo il mio girovagare senza senso sulla statale.
Scelsi una sgabello attaccato al bancone, e ordinai del vino rosso.
C'era un vecchietto sulla sessantina, piccolino e con i capelli lunghi sul collo, seduto non lontano da me. Mi salutò con un ciao bonario, nemmeno ci avesse legato un'amicizia trentennale. Si chiamava Luigi, "Luis" come imparai a chiamarlo per tutte le notti a venire che passai li.
Uscivo appena dopo cena e ci si trovava sempre li, i soliti quattro, cinque con il barista.
Bevevamo vino tutto il tempo, prima qualche bicchiere, poi si ordinava una bottiglia e poi ancora qualche bicchiere. A turno pagavamo tutti, anche il barista offriva qualche giro, soprattutto quando vedeva che stavamo per andarcene.
Il barista si chiamava Bruno. Era grande e grosso e fumava anche dentro al bar. Era sempre incazzato, parlava solo di calcio e d'immigrati che odiava cordilamente. Urlava spesso. Nessuno osava contraddirlo, noi ci limitavamo solo a scegliere il vino, E certe volte non facevamo neanche quello. Bevevamo quello che stappava lui, senza fiatare.
La prima volta che lo vidi non da dietro al bancone quasi stramazzai a terra dallo spavento: al posto delle gambe aveva due querce secolari. Feci a cenno a Luis. "Tas". Taci mi disse, singhiozzando una risata carica d'asma.
Un altro avventore abituale era "Frack". Lo chiamavamo Frack perchè si presentava sempre elegante con certi abiti scuri e la cravatta. Ogni sera diceva di avere un appuntamento con una donna, ma rimaneva li a bere sempre fino a tardi, e spesso se ne andava solo quando ce ne andavamo via tutti. Si metteva tanto di quel profumo addosso che nessuno lo voleva vicino di sgabello.
C'era in lui qualcosa che non mi piaceva. Aveva una disperazione diversa dalla mia o da quella di Luis. Noi eravamo abbastanza rassegnati, lui si raccontava balle. E poi anche se cambiava abito ogni sera dalla giacca tirava fuori sempre un fazzoletto sporco e stropicciato. Una tristezza.
Noi tre eravamo quelli fissi poi, c'erano degli altri ma nessuno aveva la nostra forza di resistenza e la nostra costanza.
E poi c'era Silvana. Silvana era l'amante di Bruno. Portava stivaloni e pantaloni attillati. Beveva solo vino bianco. Aveva tette enormi, anzi abnormi ma molli e flosce. Erano così cadenti che se avesse mai voluto mettere un po' in mostra il seno anzichè slacciare un bottone della camicetta avrebbe fatto prima a slacciarsi direttamente i pantaloni. Una sera lo feci a notare a Luis. "Tas". Taci mi disse sfiatando una risata.
Le nostre serata erano queste. Vino, discorsi campati in aria e ancora vino. Luis, benchè il più vecchio era il propositivo di tutti. Voleva giocare sempre a scala e Bruno scazzatissimo ci passava un mazzo di carte rubato da chissà quale pattumiera. Le carte erano girate sempre una sopra l'altra e per metterle a posto ci voleva una mano ferma che nessuno di noi aveva.
Frack voleva giocare a soldi, io volevo farci su una bottiglia, a Luis bastava giocare. I punti li tenevamo a mente perchè nessuno si sognava di disturbare ancora Bruno.
Bruno era così, lo sapevamo.
Una volta gli chiesi della musica di sottofondo.
"Hey Bruno, bella la musica qua dentro, sono dei cd che hai fatto tu? Hai scaricato musica da Internet?
"E' la radio".
"Che radio?
"La radio che c'è sulla mensola".
"Intendevo dire che stazione"
Rosso in faccia e i pugni sul tavolo: "La radio, capito?"
Capii.
Ecco, questo era Bruno.
La partita finiva puntualmente quando toccava a Luis dare le carte. Nel mischiarle qualcuna gli cadeva regolarmente a terra, ma tutti noi al tavolo facevamo finta di nulla per non doverla raccogliere. Quando le distribuiva le lanciava male e le capovolgeva. Poi lasciava cadere le carte quasi tutte nello stesso punto che dopo un po' più nessuno capiva quali fossero da prendere e quali no. Allora ti chiedeva di contarle. Così veniva fuori che c'era chi ne aveva in mano quindici chi nove. Luis s'incazzava, diceva che non sapevamo giocare e buttava il mazzo di carte su un altro tavolo. Offeso.
Allora uscivamo tutti a fumare. Solo Bruno e Silvana potevano fumare dentro, ma ci facevano compagnia fuori.
Rimanevamo li con le nostre ombre lunghe a guardare la notte. Senza discorsi senza parole. Avevamo capito solo una cosa della vita: che non l'avevamo capita. E quindi non avevamo molto da dirci. Nessuno di noi aveva sogni e pretese di riscatto. Semplicemente passavamo le notti in cerca di una risata evitando di andare a letto troppo presto, e troppo sobri. E ci riuscivamo sempre.
Eravamo come quegli operai sulla gru, distanti dalla città, con le gambe a penzoloni sulla vita. Vita che sfioravamo appena in un equilibrio che ci proiettava sempre al di fuori di essa.
Una sera presi da parte Luis e uscimmo fuori dal locale. Gli dissi che non sarei più passato dal bar.
"Tas, tas". Taci disse, sfiatando una risata, l'ultima. Rientrò dentro al bar senza di me.
Io invece scesi dalla gru.
IO
Io amo, non corrisposto, l'ozio
scrivo due post al mese
uno lo pubblico
l'altro lo cancello
questo mese ho pubblicato quello sbagliato:
questo.
Se qualcuno
per caso,
trovasse una bozza piena d'amore
sappia
che era la mia.
Rimasta mio malgrado
lettera morta.
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